06 maggio, 2006

Massimo al Quirinale? No, non sarebbe da saggi

Giampaolo Pansa su L'Espresso 6 Mag

Ritratto di Baffino e del suo Doppio con pennellate velenose per decretarne la inadeguatezza al colle più alto.
D'Alema al Quirinale sarebbe ottimo: i suoi difetti sono pareggiati dalle qualità. Ma l'Unione non può rischiare l'effetto rinculo del cannone avendo già Senato, Camera e Governo. E allora perché non Mario Monti?
Massimo D'Alema al Quirinale? Perché no? A me, da cronista, converrebbe. Penso di conoscerlo, Baffino d'Acciaio, e lo racconto da anni. Proviamo a vedere come lo rammento, cominciando da una data cruciale per il suo percorso politico: il 1 luglio 1994. Silvio Berlusconi governava l'Italia da due mesi, dopo aver battuto Achille Occhetto, il capo della gioiosa macchina da guerra dei progressisti. Il povero Achille era un sentimentale della politica. Per questo lasciò angosciato la poltronissima delle Botteghe Oscure.
Urgeva sostituirlo. Scesero in lizza D'Alema, allora di 45 anni, e Walter Veltroni, di 39. Sembrava favorito il dolce Walter, sostenuto da Piero Fassino, invece di Max il Bruscone.
Anche la nomenklatura della Quercia si era espressa per lui. E quel 1 luglio, un venerdì, Veltroni si sentiva sicuro di arrivare al Bottegone sul velluto. Scherzava con la truppa dei cronisti, parlando di calcio. D'Alema era un nume accigliato, ma neppure tanto.
Forse sapeva già di avere il sorcio in bocca. E infatti, sotto un padiglione rovente della Fiera di Roma, il Consiglio nazionale del Pds scodellò la sorpresa: 249 voti per D'Alema, 173 per Veltroni. Mi voltai a guardare Fassino: impietrito, schiacciato da un incubo. Walter stava sfoderando il più solare dei sorrisi. E Max? Lui era infastidito dalla ressa plaudente che si accalca attorno ai trionfatori. Per antica abitudine, mi tengo lontano dai trionfi. Così pensai che avrei telefonato a D'Alema nel pomeriggio. Per dirgli in bocca al lupo.

Lo trovai contento, ma, come sempre, guardingo. Mi domandò in che modo i giornali avrebbero preso la sua vittoria. Gli risposi che ci sarebbero state recensioni negative, perché Veltroni era più alla mano di lui. Max convenne. E mi confessò che, "tra i tanti soloni dell'informazione", lo preoccupavano quelli di 'Repubblica'. Aveva ragione. In piazza Indipendenza gli regalarono un titolone acido: 'Il pugno del Partito', con tanto di 'p' maiuscola. Per dire che a vincere era stato l'apparato dell'ex Pci.
Gli replicai che non doveva temere i soloni. Bensì un nemico che lo tampinava da mattina a sera, per farlo passare da una cavolata all'altra. "Di chi parli?", mi domandò Max. Gli risposi: "Del tuo pessimo carattere. È il tuo doppio: l'altro Massimo D'Alema. Soprattutto da lui ti devi guardare. Tienilo a bada". Baffino d'Acciaio replicò: "Hai ragione. Dovrò starci attento".
A conti fatti, attento non lo fu per niente. Tanto che due anni e mezzo dopo, nel dicembre 1996, D'Alema si dipinse così: "Io pecco di una certa arroganza intellettuale, difetto sgradevole per un politico. Ho anche un cattivo carattere, che mi porta a compiere degli errori". Se mi riporto a quel tempo, completerei l'autoritratto in questo modo: troppa freddezza, troppo cinismo sferzante, troppa sicurezza di vincere sempre.
E se gli capitava di perdere, il suo Doppio gli suggeriva repliche al curaro, che moltiplicavano il danno. Tuttavia, nell'estate dell'esordio, Baffino si mosse bene. Aveva dinanzi a sé un compito immane. Il Pds era alle corde. Sconfitto da Berlusconi il 27 marzo 1994, alle elezioni europee di giugno aveva perso un altro milione e mezzo di voti, scendendo al 19,1 per cento, contro il 30,6 per cento di Forza Italia. Se poi guardiamo all'area progressista, l'emorragia era spaventosa: 2 milioni e 478 mila suffragi.
Alle prese con queste cifre spietate, D'Alema si diede una stella polare: rassicurare i possibili elettori. Dopo un anno di Bottegone, nel giugno 1995, in un'intervista all''Espresso', un giornale che gli stava sui santissimi, disse ad Antonio Padellaro: "Il mio Pds si proporrà come una forza tranquilla che, dopo gli anni dello scardinamento e della distruzione, vuole garantire al Paese un futuro di stabilità".
Un proposito soave. Ma quasi subito incrinato dal maledetto Doppio. Quali errori dalemiani mi suggerisce la memoria? Ritorniamo alla citazione di quell'intervista all''Espresso'. Gli "anni dello scardinamento e della distruzione" erano il 1992 e il 1993: il biennio di Tangentopoli e di Mani Pulite. Una fase atroce per la partitocrazia italiana. Che aveva convinto Max dell'esistenza di due nemici mortali della politica: i magistrati e i giornalisti. Forze potenti. E negative. Le grida di allarme lanciate da D'Alema furono ripetute e furenti. E le citazioni richiederebbero pagine su pagine.
Ad esempio, gli anatemi contro "l'uso spesso selvaggio dell'indiscrezione giudiziaria" che aveva annientato "quel po' di rispetto per lo Stato di diritto e di cultura liberale esistenti da noi". O contro "il circo mediatico-giudiziario: qualcosa di abbastanza spaventoso dal punto di vista della cancellazione della dignità della persona". Neppure la vittoria dell'aprile 1996, e l'ingresso di Romano Prodi a Palazzo Chigi, placarono il ferrigno Max. Anche qui ho un ricordo personale. 'L'Espresso' era stato ulivista sin dalla prima ora. Ma questa scelta non ci aveva obbligato a mettere sugli occhi le fette di salame.
Il nostro racconto della campagna elettorale non era stato reticente sulle incertezze del programma, sulla scelta di certi candidati, sui rischi del patto di desistenza con Rifondazione comunista. Una volta conquistata la vittoria, D'Alema ringhiò a uno dei nostri editori: "Ha visto? Abbiamo vinto nonostante i vostri giornali!". Ma le bestie nere non eravamo soltanto noi. Lo avevamo già compreso nel settembre 1995, quando era emerso il bubbone di Affittopoli.
Alla fine di quell'anno, Max espose a Lucia Annunziata, per 'Prima comunicazione', un proclama quasi militare: "È un segno di civiltà lasciare i giornali in edicola". E dichiarò che la televisione era l'unica tribuna per parlare al popolo. Il 29 luglio 1996, alla Festa dell'Unità di Gallipoli, Baffino d'Acciaio estese il capo d'imputazione all'intera stampa italica: "Ci sono lobby, interessi, gruppi i quali pensano che spetti a loro dirigere la sinistra italiana. Invece spetta a noi, che siamo stati eletti".
A tormentarlo era sempre il ricordo di Affittopoli. E quel che riteneva di aver subito dalla carta stampata: "Giornalismo barbarico, cultura della violenza, squadrismo a mezzo stampa". Poi arrivò il 24 settembre 1996. D'Alema, sempre segretario del Pds, andò a colloquio per l'ennesima volta con l'interlocutore preferito: Maurizio Costanzo, su Canale 5. E le sue piattonate furono tutte per i magistrati.
Mentre lo ascoltavo e lo guardavo (è importante anche guardarlo, D'Alema), rimasi folgorato da un'impressione: caspita, parla e si muove come Berlusconi! Nacque così il pupazzo di Dalemoni. Ma questa è storia vecchia. Da allora molta acqua è passata sotto il ponte di Max e sotto il mio. Oggi ci ritroviamo al bis del 1996. L'Unione di centro-sinistra ha vinto di nuovo. Con margini più ristretti. La XV legislatura è avviata lungo un percorso di guerra. Il caos al Senato per eleggere Franco Marini. La surreale vittoria del Parolaio rosso alla Camera. Prodi che non ha ancora varato il governo. E D'Alema che chiede, o qualcuno chiede per lui, nientemeno che il Quirinale. Sono convinto che Baffino d'Acciaio sarebbe un ottimo presidente della Repubblica. Dei suoi difetti ho già detto.
Ma li pareggiano le qualità: carattere, intelligenza, senso delle istituzioni, moderazione. Sì, moderazione. Ossia consapevolezza che l'Italia è spaccata in due metà. E allora, visto che Max è diventato anche saggio, perché non mandarlo al Quirinale? Certo, però.Il però si riassume in un vecchio detto: il troppo stroppia. L'Unione ha vinto per poco, ma pretende molto. Comanda su un'infinità di comuni, di province, di regioni. Ha i presidenti delle due Camere. Avrà il governo. Se conquista anche il Quirinale, sarà fatale l'effetto rinculo.
Quello del cannone che rimbalza all'indietro e strazia i cannonieri. Non è meglio scovare un altro italiano degno di succedere al grande Ciampi?
Mi viene in mente un nome: il professor Mario Monti, valente economista liberale. Ma so che i giornali non contano niente. E meno che mai il povero Bestiario.


Quel potere corleonese non si addice alla nobile Torino

Oscar Giannino su Il Riformista del 6 Mag

Il calcio è amato, ma il tifo è una malattia grave. Chi ne avesse ancora, e si appellasse alle tanto a sproposito citate “leggi dello sport”, dovrebbe darsi al pallone elastico, quella sì una grandissima disciplina praticata nel mio Piemonte e parente stretta della pelota basca, con gli assi che si chiamano tutti Bertòla e i radi spettatori che tra loro commentano per lo più con la comune calata delle Langhe. Meglio la pallapugno o balòn, in dialetto, del calcio, se credete ancora allo sport.
Se poi siete nati a Torino, e avete non si sa come anche una certa idea della ritrosia e della dignità di quelle parti che hanno “fatto” l’Italia e le hanno garantito nei primi anni l’unica classe dirigente modernamente degna di questo nome, allora tutto potete fare, tranne che riconoscervi in quel puro esercizio di potere che “è” la Juventus.

La guerra è finita. O no?

Giuliano Ferrara su Il Foglio 6 Mag

Fassino ci spiega i termini di una intesa strategica sul governo del sistema
Roma. Piero Fassino si alza in piedi nel suo ufficio e legge un appunto. “Io la metto così: la guerra è finita, perciò la candidatura di D’Alema al Quirinale deve essere il primo atto di una pace da costruire e non l’ultimo atto di una guerra che continua”. Il destinatario del messaggio è anzitutto Silvio Berlusconi. A lui e all’intera Cdl il segretario dei Ds – parlando con il Foglio – chiede “di valutare alla luce del sole la possibilità di eleggere D’Alema alla presidenza della Repubblica”. Fassino chiede i voti della Cdl? “Certo. O comunque un’intesa graduabile in diverse forme, purché esplicite”. Il presupposto dell’iniziativa fassiniana è questo: “Il centrosinistra ha vinto le elezioni, ma sul filo di lana ed è innegabile che una metà del paese sia rappresentata dalla Cdl. Siccome l’Italia deve ritrovare la serenità che le consenta di essere una democrazia normale, di riprendere a crescere e uscire dalla precarietà, bisogna smetterla di pensare che se vince Berlusconi ci sia il fascismo alle porte; e da destra che, se vince l’Ulivo, alle porte ci sia il comunismo”. Come ha fatto in circostanze analoghe il premier inglese Blair a nome del governo laburista, così, dice Fassino, “il prossimo governo italiano si farà carico delle scelte di chi lo ha preceduto, nel nome dell’interesse nazionale”. Di questo percorso, secondo il segretario dei Ds, D’Alema, se e quando candidato al Quirinale, vuole farsi garante. “Non siamo una Repubblica presidenziale, né lo dobbiamo diventare. Ma è essenziale che il prossimo presidente svolga un ruolo di garanzia e di coesione che contribuisca ad un clima nuovo e ad aprire una nuova stagione nella vita delle istituzioni della Repubblica”. Fassino indica quattro punti fondamentali che riassumono queste sue intenzioni e le collegano al nome di D’Alema. Primo: “L’assicurazione che se il governo di Prodi dovesse entrare in crisi si tornerà a votare, in base al principio tipico delle democrazie dell’alternanza per cui la legittimità di una maggioranza e di un governo viene dal voto dei cittadini”. Secondo: “Da capo del Csm, un presidente che eserciti la funzione di garanzia operando – come ha fatto Ciampi – per evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica”. Terzo: “Sulle grandi scelte di politica estera un presidente che favorisca la massima intesa possibile”. Quarto: “All’indomani del referendum che – come noi auspichiamo – boccerà la revisione costituzionale della destra, si riprenda un confronto tra le forze politiche sulle istituzioni che consenta di portare a conclusione una transizione istituzionale da troppi anni incompiuta”. Questo il manifesto presidenziale di un possibile candidato di nome D’Alema, che secondo Fassino potrebbe anche essere reso esplicito prima del voto delle Camere. L’obiezione è che il ruolo del presidente possa venire meglio interpretato da figure terze, “emerite” o di vecchia scuola o con venature tecniche. Come Giorgio Napolitano, Giuliano Amato, Mario Monti. In più, un certo establishment e alcuni poteri editoriali conservano delle riserve su D’Alema. Fassino: “Certo, non c’è una sola personalità capace d’interpretare bene il ruolo di presidente, ma siamo in un tornante politico molto delicato e una figura tecnica rischia di rivelarsi una soluzione che coprirebbe a stento le tensioni, senza peraltro impedire che diventino virulente ed esplodano. Meglio un presidente di chiaro profilo politico. Quanto agli ambienti che diffidano di D’Alema, i timori sono figli della coazione a ripetere per cui si diffida di ciò che non si conosce più di quanto si creda in ciò che è noto. Io vedo in D’Alema un uomo politico dal profilo riformista, nel quale può identificarsi il centrosinistra, ma che ha l’intelligenza e la capacità di cogliere e rappresentare anche le aspettative e le inquietudini del campo avverso”.

Il D’Alema capo dello stato proposto da Fassino è “quello che ha presieduto la Bicamerale, quello che ha impegnato l’Italia nell’operazione internazionale in Kosovo, quello che gestì l’elezione bipartisan di Carlo Azeglio Ciampi e quello che ha sempre rifiutato di demonizzare il centrodestra”. E il centrodestra dovrebbe fidarsi? “Ai dirigenti del centrodestra chiediamo fiducia, sapendo che caricherebbero l’elezione dalemiana di un dovere in più, e anche pubblico, di onorare questa fiducia”. La sinistra militante e radicale ha già pronta l’accusa contro il nuovo inciucio. Ma Fassino insiste a dire che “tutto deve avvenire alla luce del sole” e preannuncia: “Non escludo affatto che lo stesso candidato dell’Unione, se e quando verrà scelto dopo adeguate consultazioni, possa anticipare il modo con cui si propone d’interpretare il proprio ruolo”. In altri termini D’Alema potrebbe presentare ai mille grandi elettori, che da lunedì voteranno, una specie di programma presidenziale sul quale chiedere un consenso diffuso. “E’ un’ipotesi che rappresenterebbe una innovazione importante”. In questo modo il Parlamento voterebbe sugli intenti futuri del candidato e non sulla storia di ieri del “comunista che divide”, come ha detto ieri il Cav. in campagna elettorale a Napoli. “Quelle dichiarazioni non mi impressionano, ma sono ancora espressione di una guerra che vogliamo superare per aprire un ciclo nuovo”.
C’è pure un carattere da decrittare e D’Alema oscilla tra il decisionismo di Togliatti e gli strappi ammalianti ma non definitivi di Berlinguer. “D’Alema è spigoloso e a volte urticante. Ma è un vero laico, nel senso in cui lo intendo io dacché mio padre me lo spiegò quando ero quattordicenne: una persona in grado di cercare e cogliere il pezzo di verità che c’è anche negli individui più lontani da lui. D’Alema è un uomo leale. E, soprattutto, sa tener conto dei sentimenti della gente, ma non per questo si lascia frenare se la decisione del momento richiede fermezza e anche impopolarità. E sa onorare i patti”. Da uomo di parte, però. “Lo erano anche Pertini e Cossiga. Ma, per me, un uomo politico più è dotato di identità e profilo forte, più può onorare bene le responsabilità istituzionali dello statista”.

Francesco Verderami

I timori di Francesco e la lezione di Ciriaco

L'ansia è stata la sua compagna di viaggio ieri mattina, mentre si dirigeva verso San Giovanni Rotondo. Il timore che una candidatura per il Colle portata al voto senza un'intesa con l'opposizione corra il rischio di «naufragare nel segreto dell'urna». Chissà se Francesco Rutelli ha trovato un po' di pace quando si è raccolto in preghiera nel santuario dedicato a Padre Pio, mentre ha ascoltato la messa officiata dal segretario di Stato del Vaticano, Angelo Sodano. E chissà se ha tratto giovamento dal colloquio con il cardinale, prima di rientrare a Roma per il vertice con gli alleati.
A Rutelli è chiaro che, per la corsa al Quirinale, i Ds sono bloccati sul nome di Massimo D'Alema, e per spirito di coalizione è pronto a collaborare con Piero Fassino. Ma «il metodo fondato su un nome solo e basta» non lo convince. E non lo condivide. Perché un petalo non fa una rosa, non consente cioè di coltivare un dialogo con il Polo per cercare di raggiungere un accordo sul futuro presidente della Repubblica. Se in più quel petalo mette a repentaglio i petali della Margherita, è ovvio che non può accettarlo. La corsa di D'Alema ha infatti inciso negli equilibri interni dei Dl, e se fino a ieri Arturo Parisi stava sulla sponda opposta, ora Rutelli se lo ritrova al fianco. Il professore ritiene che un conto è non ammettere veti del centro-destra su «un candidato della Quercia», ma poi «il candidato» deve riscuotere «il massimo dei consensi nella coalizione e in Parlamento». Come Rutelli, Parisi non ammette operazioni al buio, nè «prove muscolari», e il voto del 9 aprile dovrebbe far riflettere che simili iniziative danneggerebbero non solo le istituzioni ma anche il governo di centrosinistra. Quel petalo che il Polo di fatto ha già scartato, ha cambiato la geografia delle alleanze nella Margherita, visto che «per senso di realismo politico» Dario Franceschini pensa che la candidatura di D'Alema al Quirinale vada appoggiata senza se e senza ma.
Non a caso Gian Claudio Bressa, appena nominato suo vice al gruppo dell'Ulivo alla Camera, si è dichiarato a favore del presidente dei Ds. Anche Franco Marini sembra concordare con questa linea, sebbene la posizione del presidente del Senato appaia più defilata, perché c'è chi sostiene che possa ancora essere un candidato al Colle. Di certo c'è che nel partito i due fronti sono ormai ai ferri corti, lo testimonia il gioco di disinformazione che l'altra sera ha messo in subbuglio la Margherita: non era vero che Rutelli avesse dato il via libera a D'Alema, eppure così era stato ufficializzato da un'agenzia di stampa. E lo si è visto al vertice dell'Unione che un pezzo della maggioranza — a partire da Enrico Boselli — non accetta la logica della spallata. Raccontano che in questi giorni affannosi e cruenti, Ciriaco De Mita abbia evocato «l'antica sapienza democristiana»: «Vedete — ha detto — noi diccì occupavamo tutto ciò che era possibile occupare, ma sapevamo fin dove poter arrivare. E quando si arrivava a discutere di Quirinale ci fermavamo e cambiavamo atteggiamento». L'inventore del «metodo» che portò Francesco Cossiga sul Colle d'intesa con il Pci, ha voluto offrire una lezione sul «senso dello Stato». Era rivolta agli amici di partito, ma anche agli alleati della Quercia: «Perché il senso dello Stato ci ha impedito di essere arroganti, nonostante avessimo più del 30% dei consensi...».
Quella lezione, Rutelli l'ha portata ieri alla riunione del centrosinistra, rammentando che l'elezione di Carlo Azeglio Ciampi avvenne «nonostante il Ppi non fosse d'accordo». Come dire che le istituzioni vanno preservate da logiche proprietarie. Proprio quel che Gerardo Bianco ha sintetizzato un paio di giorni fa: «Sarà D'Alema il capo dello Stato se la sua candidatura troverà convergenze in Parlamento. Altrimenti non lo sarà». Nella Margherita cresce il disagio per la situazione, al punto che il responsabile per il Mezzogiorno Riccardo Villari invita gli alleati a meditare, per evitare errori irrimediabili: «Non possiamo mostrarci come quelli che, dopo aver tanto criticato i metodi di Silvio Berlusconi, oggi li adottano. Perché questo è il rischio: che il Paese ci equipari a loro. Invece un tentativo di trovare un accordo va fatto, e va fatto con maggiore trasparenza: non è possibile che i Ds si riuniscano, decidano chi è il candidato al Quirinale e ci impongano di appoggiarlo».

Una scelta responsabile

Ernesto Galli della Loggia su Corriere.it 6 Mag

Lucida e spregiudicata analisi che parte dal riconoscimento delle tante buone doti di D'Alema per arrivare alla conclusione che è meglio per lui (e per tutti) lasciar perdere.
Cosa a questo punto dovrebbe fare D’Alema
Massimo D'Alema sembra avviato ormai ad essere il candidato unico del centro-sinistra per l'elezione alla Presidenza della Repubblica, e dunque egli è ormai verosimilmente ad un passo dalla carica più prestigiosa (e forse più dotata di poteri effettivi) del nostro ordinamento istituzionale. Avuto riguardo alle qualità della persona e al significato per così dire storico che la sua elezione non potrebbe non rivestire, si tratta sicuramente di un'ottima scelta. Con D'Alema salirà al Quirinale, infatti, un uomo di temperamento, autorevole e di grande esperienza, conoscitore come pochi del mondo politico e non solo; inoltre la sua elezione segnerà anche la opportuna, definitiva cancellazione dell'antica conventio ad excludendum nei confronti del Partito comunista, che per circa mezzo secolo ha rappresentato la maggiore, ancorché giustificata, anomalia del sistema politico italiano. Ancor più dispiace, dunque, che il giudizio senz'altro positivo sul candidato non possa, però, estendersi facilmente al metodo che sta portando alla sua elezione. Per come è stata costruita e per come si presenta, infatti, la candidatura di D'Alema alla presidenza della Repubblica è una candidatura assolutamente di schieramento, nata all'interno esclusivamente del gruppo dirigente del centro-sinistra, e portata avanti facendo affidamento soltanto sulla maggioranza dell'Unione. Non per nulla l'ex ministro diessino Vincenzo Visco, autonominatosi da qualche giorno capo del comitato elettorale dalemiano, si è detto sicuro di una confluenza di voti della destra sul suo candidato, ma tanto per farsi capire ha subito aggiunto: «Comunque avrà una sua autosufficienza e non cambierà nulla. Andremo avanti comunque».
A ulteriore chiarimento dello spirito simpaticamente unitario con cui i sostenitori di D'Alema concepiscono il prossimo appuntamento di Montecitorio sempre lo stesso Visco ha minacciato che qualunque eventuale ostacolo frapposto all'ascesa del Presidente dei Ds «non sarebbe una cosa indolore». Come passare sotto silenzio, poi, l'argomento che si è sentito spessissimo usare in questi giorni, a giustificazione della «non trattabilità» della candidatura D'Alema, e cioè che essa non poteva che essere accettata a scatola chiusa dal momento che «ai Ds bisognava dare pure qualcosa», altrimenti essi avrebbero potuto dare fastidi al prossimo governo Prodi? Cos' altro dobbiamo sentir dire, mi chiedo, per convincerci che il tasso di spregiudicatezza della partitocrazia della Seconda repubblica ha superato, e di gran lunga, quello della prima? A parte ogni questione di opportunità, la dimensione di duro arroccamento politico con cui è stata fin qui portata avanti la candidatura di D'Alema contrasta, tra l'altro, e in modo clamoroso, con il modo con cui l'Unione ha condotto cinque anni di opposizione al governo Berlusconi e con il modo con cui essa si è presentata agli elettori. Si legge infatti alle pagine 12 e 13 del suo Programma elettorale, all'interno di un capitolo significativamente intitolato «Il valore delle istituzioni repubblicane»: «L'attuale maggioranza di governo ha applicato alle istituzioni una logica "proprietaria" (..) il rischio è quello di uno squilibrio che porti alla "dittatura della maggioranza" (..) Per rafforzare le garanzie istituzionali (..) eleveremo la maggioranza necessaria per l'elezione del Presidente della Repubblica, garante imparziale della Costituzione e rappresentante dell'unità nazionale».
Anche chi, come chi scrive, non è predisposto a far troppo conto sui programmi elettorali resta tuttavia alquanto sbalordito nel vedere quanto, dopo neppure un mese dalla soffertissima e striminzitissima vittoria elettorale del centro-sinistra, di tutte queste ottime intenzioni in pratica non rimanga in piedi nulla: fino al punto che proprio sulla più delicata forse delle questioni istituzionali, quella della Presidenza della Repubblica, l'Unione potrebbe avviarsi a percorrere la stessa identica prospettiva di «dittatura della maggioranza» appena ieri rimproverata al Polo. Ancora più sbalorditivo è, in questo senso, il silenzio di tomba con cui tutta l'area culturale del centro-sinistra — dai costituzionalisti ai comici, dai politologi e gli storici ai poeti e gli uomini di lettere — che per un quinquennio ci ha instancabilmente ammaestrato sulla concezione illiberale della democrazia fatta propria dalla destra sulla base di un uso spietato del nudo principio di maggioranza, ora taccia intimidita, chiudendo gli occhi sul medesimo uso che del medesimo principio si appresta ora a fare il centro-sinistra. Solo Gianfranco Pasquino, a quel che ho visto, si è provato a difendere il maggioritarismo esasperato che è diventato la bandiera dell'Unione, ma lo ha fatto nel modo più paradossale, e cioè tirando in ballo l'esempio degli Stati Uniti. Modo paradossale, e contraddittorio, dal momento che, come si sa, gli Usa sono così maggioritari proprio perché costituiscono l'incarnazione di quel regime presidenzialista che il centro-sinistra abomina da sempre e che anzi ha instancabilmente rimproverato alla destra di voler introdurre in Italia al posto della, viceversa sempre elogiatissima, «centralità del Parlamento».
Dunque una pessima candidatura, pessimamente costruita, per un ottimo candidato. Se non c'inganniamo sulle qualità di Massimo D'Alema lui per primo se ne sta rendendo conto in queste ore. Tra l'altro perché non gli manca una buona memoria, e dunque si ricorda bene di avere avuto pubblicamente a pentirsi del modo del tutto improprio con cui egli stesso «acciuffò» (il termine è suo) il governo nel 1998, così come senz'altro si ricorda bene di come il centro-sinistra ha avuto a pentirsi della esiguissima maggioranza con cui fece approvare con un atto di forza la modifica del titolo V della Costituzione nel 2001. Di sicuro si sta rendendo conto di molte cose in queste ore Massimo D'Alema. Per esempio di come non gli giovi per nulla l'atmosfera di esaltazione vagamente arditistica della sua candidatura quale supposto, sospirato, trionfo della politica «lacrime e sangue» e «pugnal tra i denti», contrapposta agli smidollati e compromissori «poteri forti». E di come ancor meno gli giovano i voti richiesti sottobanco a suo nome dai manipoli dei suoi fedelissimi, e a questi promessi altrettanto sottobanco dai versanti più insospettabili. In conclusione, ci sembra giusto che il presidente dei Ds mantenga la sua candidatura. Ma riqualificandola politicamente: cioè facendone una candidatura in cui possa riconoscersi — pubblicamente, va sottolineato, non dietro le quinte e in modo non trasparente — almeno una parte della leadership del centro-destra, attraverso l'esplicito assenso di qualche suo capo.

In caso contrario ci sentiremmo di dargli un consiglio: si ritiri dalla gara. Può sembrare irrealistico ma non lo è: in politica ci sono vittorie più micidiali delle peggiori sconfitte, e ci stupirebbe davvero molto se proprio un uomo della sagacia e della esperienza di D'Alema se ne dimenticasse.

Tocca a Prodi sciogliere il nodo

Emanuele Macaluso su Il Foglio 6 Mag

Un cronista di politica mi ha chiesto se il mio corsivo di ieri rappresentasse un messaggio a Prodi: se cade D’Alema, cadi anche tu. Ho spiegato che io non mando messaggi a nessuno, non ho legami con i Ds (tranne la tessera, sino a quando ci sarà quel partito) e faccio solo delle riflessioni politiche.
Martedì 11 aprile, un giorno dopo le elezioni, sul Riformista, nella mia column, scrissi che Berlusconi aveva perso le elezioni e Prodi non le aveva vinte, ed era quindi necessario, subito, avviare un rapporto tra le due coalizioni per fare funzionare le istituzioni. Invece da un lato il Cavaliere si mise a gridare all’imbroglio e a contestare il risultato elettorale anche dopo la decisione della Cassazione. Dall’altro Prodi pensò che fosse possibile e utile, all’Unione e a se stesso, mettere in atto un organigramma funzionale ad alcuni leader della coalizione e non alle istituzioni. Questo fu il senso della scelta di Bertinotti (con i Ds che candidavano D’Alema) e di Marini. E quindi ora Prodi deve sciogliere il nodo Ds e D’Alema. Se non lo scioglie è la stessa Unione ad andare in crisi. E il Cavaliere, come dicono alcuni suoi amici, “subisce” il candidato “più gradito”.
Tutto qui.

Giannelli e Grasso 6 Mag

Corriere.it
Il diritto di stupirci
«Erano cose che si sapevano». Ma come, se erano cose note perché nessuno ha mai parlato? Perché nessuno ha mai cercato di prendere le distanze da certi personaggi? Le spiegazioni sentite ieri in tv da parte di alcuni commentatori lasciano interdetti. Lasciano intendere che il mondo del calcio non solo ha le sue belle mele marce (come succede dappertutto) ma è come avvolto da una nebbia di omertà, di complicità.
Erano cose che si sapevano, inutile stupirsi. Di Moggi si è sempre favoleggiato, della «buona fede» degli arbitri anche, di campionati falsati pure. Di che stupirsi? E invece vogliamo ancora rivendicare il diritto a stupirci, a manifestare rabbia, a esprimere il più ingenuo dei disappunti. Servirà a niente, ma comunque. Il tradimento sportivo è un tradimento doppio perché inganna le persone ma soprattutto la loro passione, che è totale, cieca, irrazionale. La squadra del cuore è l'unica cosa cui restiamo fedeli tutta la vita, un grande oggetto del desiderio che per essere tale ha bisogno della schiettezza delle favole. Da tempo, invece, il calcio italiano fa di tutto per rovinare i sogni della domenica. La sua forza di trascinamento è tale da permettergli di vivere in una sorta di «illegalità legalizzata». Il marcio ormai è stato descritto in tutti i modi: illeciti, frodi fiscali, bilanci dopati, passaporti falsi e plusvalenze. Forse qualcuno ha pensato all'assuefazione come al suo miglior alleato: se le cose sono risapute e non succede nulla, allora è possibile farla da padrone.
Sarà la giustizia sportiva a controllare il contenuto delle intercettazioni, a provare se sono stati violati o meno i principi di lealtà, correttezza e probità su cui si fonda quel patto sociale che si chiama sport, ma qualcosa è già stato violato per sempre: non per il contenuto delle intercettazioni ma per la rete di connivenza messa in luce dalle intercettazioni. Per questo non ci resta che aggrapparci alle parole del presidente Carraro: «Il mio stato d'animo è come quello di milioni di tifosi, che provano sconcerto, tristezza e rabbia». Si scopre ora che tutte quelle trasmissioni con moviole e movioloni altro non erano che fumo negli occhi, regolamenti di conti, velate forme di ricatto. Che tutti quegli opinionisti che sbraitano in tv, juventinologhi o no, erano, nella migliore delle ipotesi, vittime di un gioco ben più perverso. Al centro delle inchieste c'è sempre la Gea di Moggi Jr e Chiara Geronzi: forse sarebbe il caso che questa società chiudesse i battenti e liberasse gli ostaggi. Al centro delle chiacchiere c'è sempre Luciano Moggi, con la sua ora non più leggendaria rete di rapporti; forse sarebbe il caso che anche lui chiudesse baracca e burattini. Perché il calcio riprovi a essere un sogno e la Juve vinca gli scudetti sul campo.

05 maggio, 2006

Come ci vedono dal Canadà

Il leader della Casa delle Libertà: «Non può salire al Colle chi ha nel cuore il simbolo della falce e martello»

Corriere.it 5 Mag ore 20

«La partita è aperta». Così Silvio Berlusconi, arrivando a Napoli per partecipare ad un comizio nell'ambito della campagna elettorale per il Comune, si esprime riguardo alla corsa per il dopo Ciampi. Berlusconi, che giovedì ha incontrato il leader del centorsinistra a Palazzo Chigi per cercare di individuare un metodo collaborativo per l'elezione del nuovo capo dello Stato, spiega anche che «oggi non ci sarà alcun incontro» con Prodi.
«SIMBOLO DI MORTE» - Il leader di Forza Italia non ha mai citato il nome di Massimo D'Alema ma ha spiegato chiaramente che chi ha detto «di avere inciso nel cuore» il simbolo della falce e del martello, «un simbolo di morte», non può «pretendere di occupare una poltrona che deve essere di garanzia». «Occorre ricordare - dice Berlusconi - che il presidente della Repubblica è garante della Costituzione, è la bandiera dell'unita di Italia, deve unire i cittadini e garantire l'imparzialità».
OSTRUZIONISMO E BROGLI - «Apprestiamoci a resistere alla sinistra, non arretreremo neanche di un passo - ha poi esortato Berlusconi -. In Parlamento abbiamo i numeri per non far passare leggi che ritenessimo contrarie all'interesse del paese». Un'opposizione dura, quella prospettata dal Cavaliere, a cui brucia ancora l'esito elettorale che per il capo della Cdl resta adombrato dall'ipotesi di brogli e irregolarità: «Siamo stati scippati di una vittoria sonante - ha detto - Abbiamo vinto ma non abbiamo trovato un giudice a Berlino, come si suol dire, che facesse giustizia e che controllasse il milione e 100mila schede».
I «10 ERRORI CAPITALI» - Regolarità del voto a parte, Berlusconi ha parlato anche del modo in cui è stata condotta la campagna elettorale rivendicando la correttezza della linea tenuta da Forza Italia ma ammettendo che nella Cdl non tutto è andato per il verso giusto: «Sono stati commessi dieci errori capitali, non nostri - ha sottolineato -. Bastava non farne uno che avremmo avuto il premio di maggioranza».

Libero 5 Mag

Sorrisi e schiaffoni di Renato Farina


Berlusconi incontra Prodi. Finti convenevoli, ma su D'Alema al Quirinale inizia la sfida finale. Con trattative inconfessabili
Avevano giurato solennemente. Prodi: «Aspetto con pazienza la sua telefonata. E mi deve chiedere scusa!». Berlusconi: «Non gli darò mai la mano! ». Risultato: ieri Romano ha telefonato a Silvio, e si sono dati la mano a Palazzo Chigi. Hanno parlato 80 minuti, un record.

Dev'essere stata una conversazione meno mortifera di quelle propinate agli italiani nei duelli televisivi. Infatti non ce l'hanno fatta ascoltare. Secondo voi di che cosa avranno parlato? Escludiamo si siano cimentati sulla questione della Costituzione europea. Hanno evitato anche l'Ici e l'Irap, probabilmente. Ma sì, hanno parlato di Quirinale. Riassumiamo le puntate precedenti. Prodi vince le elezioni. Non stiamo qui a dire che è una vittoria rubata. Lo sappiamo bene. Ha i numeri però. E chi vince spartisce il potere con gli alleati. Per sé Prodi tiene Palazzo Chigi, e fin qui non si scappa. Lui è fuori quota, è Ulivo, ma più margheritino che diessino. La Camera se l'è presa quel furbacchione di Bertinotti. Minacciava in mancanza dello scranno molto rosso di Montecitorio di fornire solo appoggio esterno al governo: che è la promessa della crisi sicura. Quel posto lo volevano i diessini, i quali hanno abbozzato. Poi eccoci al Senato: spettava per antichi accordi alla Margherita, in particolare a Franco Marini, democristianone di vecchio corso, e per di più anticomunista del tipo marsicano. A questo punto i diessini sono a bocca asciutta. La base si interroga: siamo le dame di San Vincenzo o la sezione Carlo Marx dell'Unione? La Casa delle libertà grida al regime. Giusto. Hanno tutto, questi di sinistra. Possibile vogliano papparsi pure il Quirinale? Dovrebbe essere l'arbitro, ma qui giocano solo quelli con la maglietta rossa. Prima la Casa delle libertà estrae la sua terna: Letta, Pera e Casini. Era una mossa per saggiare la magnanimità dei comunisti? Ma quando mai hanno lasciato un ossicino al prossimo, quelli là. Allora ecco il colpo di genio. Riproporre solennemente Ciampi. Prodi invece di consultarsi con gli altri compagni leader, di testa sua dice sì, se Ciampi vuole. Quel "se" convince Ciampi a dire di no. (continuerebbe)

L'offensiva dei dalemiani polisti: con lui, è il migliore dei peggiori

Aldo Cazzullo su Corriere.it 5 Mag

Dal disgelo con Tremonti all'appello di Ferrara oggi sul Foglio Buttafuoco: il nostro Riccardo III. Feltri: disgrazia accettabile.

Chi vede in lui l'antidoto alla tecnocrazia, o al veltronismo, o ai girotondini, o alle toghe rosse. Chi lo considera l'erede di Togliatti, per cinico realismo, o di Craxi, per virile decisionismo. Chi già vede nel Quirinale la nuova Bicamerale. Chi telefonava anche lui a Consorte. Chi lo pensa come il più intelligente e anche il più affidabile. Sono i dalemiani di destra: direttori di giornale, politici, editorialisti, preti. E grandi elettori.
Il protodalemiano di destra fu Pinuccio Tatarella. C'era un gioco, tra i due e i rispettivi famigli che li vedevano passeggiare conversando sul lungomare di Bari: «Di cosa state parlando?» chiedevano. E loro, prontissimi: «Di chi sia il politico più intelligente d'Italia» rispondevano strizzando l'occhio, a lasciar intendere che tolti loro due non restava granché («se ci fosse ancora Tatarella non avremmo questo sconcio!» lamentava D'Alema dopo l'incursione di Berlusconi a Gallipoli in elicottero). Dopo l'idillio iniziale e una breve rottura è tornato buono il rapporto con il capo del centrodestra pugliese Fitto, neodeputato. Ma in Forza Italia «Spaccaferro» ha estimatori di ben altro peso.
Quando le Iene sottoposero Tremonti e D'Alema alle interviste parallele, alla domanda «che cosa ti piace dell'altro» entrambi risposero: «L'intelligenza». Che per entrambi è la cosa più importante. Quando poi il 9 gennaio scorso, nel pieno della bufera Unipol, vissero parallelamente un'intera giornata, prima a Roma nello studio di Porta a Porta poi a Milano alla presentazione di un libro di Floris, fu tutto un gioco di sorrisi, battute, citazioni, un «ti concedo» e un «touché»; erano anche vestiti quasi uguali. Il culmine fu quando D'Alema chiese a Tremonti: «Quindi lei, ministro, non direbbe mai a un finanziere di consegnare un nastro a un giornale di Berlusconi, com'è stato fatto con le conversazioni di Fassino?». «Mai e poi mai — fu la risposta —; se avessi fatto anche solo l'uno per cento di quanto avrei potuto, ce ne sarebbe una certa evidenza. Se guardi l'abisso, l'abisso ti guarda; io l'abisso non l'ho mai guardato». «Ecco, bravo» sospirò D'Alema, sollevato.
Ognuno ha la sue motivazioni per amarlo: perché è il più politico, perché ha sempre considerato Berlusconi non un demone da esorcizzare ma un avversario con cui trattare, perché da dieci anni progetta di riscrivere con gli altri quelle regole istituzionali che larga parte dei suoi vorrebbe semmai difendere. Soprattutto, D'Alema piace a destra perché come la destra disprezza la sinistra delle emozioni e dei tortellini, dei moralisti e dei giustizialisti. Ama D'Alema chi non ama Benigni e Nanni Moretti (tranne quello berlusconidipendente del Caimano), chi non legge Paul Ginsborg e Camilleri, chi non ascolta Vecchioni e Piovani. Infatti ama D'Alema Giuliano Ferrara. «Il Foglio» ha aperto la campagna per Spaccaferro sul Colle prima ancora della rinuncia di Ciampi. E oggi pubblicherà un appello a Berlusconi, affinché lo sostenga. Tra i sostenitori della prima ora, Carlo Rossella, Giano Accame, Piero Ostellino. Vogliono D'Alema gli ex leader di Potere Operaio Oreste Scalzone e Lanfranco Pace, come alternativa alla noia — «o Massimo o moriamo di pizzichi» — e gli ex dc Francesco Cossiga e Paolo Cirino Pomicino, come campione della politica contro poteri forti e salotti della finanza, sospettati di «tifare Amato». Come motivazione, Ferrara ha ripubblicato il discorso per l'insediamento della Bicamerale, in cui D'Alema si diceva pronto a sfidare l'impopolarità del proprio elettorato (che non sarebbe tardata) e definiva «erronea» la convinzione della sinistra di aver colto un'ampia vittoria elettorale. Marcello Veneziani confessa di nutrire «da tempo una grande ammirazione per la mente più lucida dei Ds», pur restando scettico sulle sue chance. Vittorio Emanuele Parsi, editorialista di «Avvenire», gli riconosce «indipendenza e autorevolezza». E Pietrangelo Buttafuoco vede in lui l'ideale «presidente del cattiverio», il più perfido quindi il più simpatico, «il nostro Riccardo III, con accanto Minniti vero erede di Italo Balbo» e già pregusta i discorsi di Capodanno, «con D'Alema che dalla tv maltratta gli italiani panciafichisti: "Compatrioti dei miei stivali, basta gozzovigliare con lo zampone, ora aprite bene le orecchie e prendete nota!". Sarà un numero alla Carmelo Bene». Vittorio Feltri ha schierato «Libero»: «D'Alema disgrazia accettabile», «D'Alema il male minimo», «Condannati a D'Alema» gli ultimi tre titoli. E oggi il vicedirettore Renato Farina scriverà: «Chiunque altro di sinistra sarebbe una sciacquetta, con cui sarebbe inutile stringere qualsiasi patto: tanto nessuno seguirebbe alla base. L'unico capace di mantenere i patti è D'Alema. E' un cobra; ma sarà più facile che morda Prodi anziché il Cavaliere. E poi se Prodi cadesse non darebbe mai l'incarico a Veltroni». Aperturista anche Gianni Baget Bozzo su «Repubblica». Il liberista Oscar Giannino, che quest'estate insieme con l'editorialista del «Giornale» Lodovico Festa aveva seguito senza malevolenza la scalata Unipol alla Bnl, ieri sul «Riformista» ha invitato Prodi a «superare le sue ubbìe», a eliminare definitivamente il «fattore K» come da definizione di Ronchey e ad appoggiare Massimo. All'apparenza rassegnata la «Padania», ma sotto sotto ben disposta verso l'uomo che esorcizza i fantasmi del grande centro ed evoca antichi corteggiamenti: «Ormai D'Alema è un affare di Stato» titolava ieri. E il direttore Gianluigi Paragone a Radio24: «Molto meglio lui di Amato e Marini».
Difficile che tanta simpatia si trasformi in sostegno esplicito; più facile che nel voto segreto possa compensare la defezioni di chi a sinistra, per opposti motivi, D'Alema non lo ama. Resta da vedere cosa farà il vero dalemiano di destra, Silvio Berlusconi. Il suo entourage, a cominciare da Fedele Confalonieri, da sempre lo considera il migliore dei peggiori, e il possibile garante dell'impero tv. Se il Cavaliere insisterà su Gianni Letta, senza trattare su Amato, Marini o Napolitano, sarà la prova che vuole davvero D'Alema, per avere al Quirinale un caro nemico senza rinunciare alla polemica contro la sinistra ingorda. Come ha scherzato sorridendo Bruno Vespa: «Con D'Alema sul Colle la nuova legge sulle televisioni comincerà così: a Mediaset quattro reti...».

Sì a D'Alema

Piero Ostellino su Corriere.it 5 Mag

Ma la garanzia sta nel suo realismo.
Ci sono alcune buone ragioni, anche da parte di un liberale, per votare Massimo D'Alema presidente della Repubblica.

La prima, che è stato sulle ginocchia di Togliatti, cioè ha assimilato, sotto il profilo del «metodo», il solo tratto del comunismo italiano apprezzabile agli occhi di un liberale: il realismo. Egli non è uno che, di fronte alla contraddizione fra essere (la realtà) e dover essere (l'utopia) dica «tanto peggio per la realtà». Anche se lui, forse, non lo sa, si chiama «legge di Hume (David)», che era un filosofo liberale del Settecento. Per D'Alema, Berlusconi, Mediaset, il centrodestra non sono un' anomalia, ma il dato di una società articolata con il quale convivere. Poiché ciò che separa ancora la cultura politica di una certa sinistra da quella liberale è, soprattutto, «la questione del metodo», non mi pare garanzia da poco.
La seconda ragione per votarlo, che non è né anti-americano né giustizialista. A fianco degli americani ha già fatto una guerra (quella del Kosovo) e con i girotondini si è scontrato (in un celebre dibattito a Firenze). Come capo dello Stato, sarebbe, oltre che rappresentante della Nazione sul piano internazionale, anche capo delle Forze armate e presidente del Consiglio superiore della magistratura, il che a me pare un'ulteriore garanzia.
La terza, che — pur avendo giurato fedeltà alla Costituzione vigente — non sarebbe chiuso, lo ha dimostrato come presidente della Bicamerale, a una sua riforma (compresa la Prima parte) di cui si avverte forte l'esigenza.
La quarta ragione, che, con la sua elezione a presidente della Repubblica, si concluderebbe finalmente la lunga transizione dal «fattore K» (la conventio ad excludendum del Pci e dei suoi nipotini) al «fattore D» (la democrazia compiuta). Al Quirinale salirebbe, sì, un ex o post comunista che dir si voglia, ma anche un riformista di stampo europeo, aperto alle logiche del capitalismo, del mercato e della globalizzazione.
La quinta ragione, che appartiene alla generazione post-resistenziale e, in quanto tale, non è incline al «reducismo», bensì è più propenso a sentirsi cittadino di una moderna democrazia che protagonista o erede del solo mito retorico del quale gli italiani non si debbano vergognare, la Resistenza. (Come gli spagnoli, che hanno felicemente chiuso la parentesi della loro guerra civile, ben più cruenta dei prodromi della nostra postbellica; o i francesi, che non citano mai il maquis, laloroResistenza, per legittimare la nuova democrazia, meglio sarebbe dire l'eterna Nation, dopo la vergogna di Vichy e del lungo e tragico periodo «collaborazionista» con i nazisti).
La sesta ragione per votare D'Alema presidente della Repubblica, che la sua elezione aprirebbe, probabilmente, la strada a Piero Fassino come ministro degli Esteri, ridando voce ai riformisti, oggi afoni, e riequilibrando la coalizione, troppo sbilanciata a sinistra. Entrambi compenserebbero, con una iniezione di atlantismo, sia l'ambigua equivicinanza fra Israele e i palestinesi e l'opaco tardo-europeismo franco-tedesco di Prodi sia, soprattutto, l'anti-americanismo e l'anti-israelismo della sinistra radicale.
Il presidente dei Ds, è vero, dovrebbe cercare d'essere un po' più amabile, rinunciare al sarcasmo, smetterla di voler sempre mostrare d'essere il miglior fico del bigoncio. Che lo sia lo si sa. Del resto, è per questo che anch'io, liberale, lo voto.

No a D'Alema

Angelo Panebianco su Corriere.it 5 Mag

Il garante di tutti va scelto insieme
Se fosse eletto presidente della Repubblica Massimo D'Alema adempirebbe bene ai doveri dell'ufficio. Tuttavia ci sono almeno due solidissime ragioni che rendono sconsigliabile la sua scelta come candidato dell'Unione alla Presidenza.

La prima ragione è che la sua elezione potrebbe avvenire solo con il voto contrario dell'opposizione. La maggioranza uscita vincente dalle urne dovrebbe eleggerselo da sola, essendo poco probabile che il Polo si faccia convincere dagli argomenti, pur suggestivi, che soprattutto Il Foglio di Giuliano Ferrara ha avanzato in questi giorni per dimostrare la convenienza politica di un voto del centrodestra a favore di D'Alema. Il centrodestra reputa irricevibile la candidatura D'Alema e, a meno di cambiamenti di orientamento dell'ultimora, non lo voterà. D'Alema sarà dunque il candidato imposto dai vincitori. La minoranza avrebbe buon gioco a gridare al «regime», di fronte all'occupazione di tutte le alte cariche, compresa quella, di garanzia, della presidenza, da parte della maggioranza. Eleggere il presidente a colpi di maggioranza è sconsigliabile sempre. Figurarsi nelle condizioni in cui si trova (stavo per scrivere: «versa») la nuova maggioranza, vincente per il rotto della cuffia, per una manciata di voti, e che dovrà dimostrare con i fatti di essere davvero, al Senato, una maggioranza non solo formale, ma operativa, reale, nella vita parlamentare ordinaria. Una maggioranza siffatta non può permettersi il lusso di non contrattare con la (forte) opposizione il candidato alla presidenza. Il rischio, altrimenti, è quello di un presidente reso di «parte», anziché di garanzia, dal modo della sua elezione, un presidente che non verrebbe mai sentito e accettato da metà del Paese, quella che ha votato per il centrodestra, come il presidente di tutti. Non sarebbe un fardello troppo pesante da portare per le istituzioni repubblicane e per lo stesso D'Alema? Il «carisma» della presidenza, così forte nel Paese durante il settennato di Carlo Azeglio Ciampi, era dovuto al convincimento diffuso nell'opinione pubblica che il presidente fosse un autentico garante. Oltre alle qualità personali di Ciampi anche il modo in cui venne eletto contribuì a creare il rapporto carismatico tra presidenza e opinione pubblica. Ci conviene che la presidenza perda quel suo elemento di forza?
C'è poi una seconda ragione la quale riguarda specificamente D'Alema. D'Alema è un capo politico a tutto tondo. È invalso da tempo l'uso di chiamare «leader» chiunque, o quasi, circoli per le stanze della politica. Ma i leader autentici sono sempre, in ogni Paese, e anche in Italia, pochissimi. E D'Alema è uno di loro. La domanda allora è: che ce ne facciamo di un leader politico alla presidenza di una Repubblica non presidenziale? In una siffatta Repubblica le qualità politiche necessarie al presidente sono altre. Non sto contrapponendo, banalmente, i «politici» ai «tecnici». Dico invece che le qualità politiche di un presidente della Repubblica in una democrazia parlamentare non possono essere le stesse che sono proprie di un leader politico. Tanto più nel caso in cui quel leader abbia ancora, per ragioni generazionali, una lunga carriera politica di fronte a sé.
È possibile contemporaneamente stimare D'Alema e ritenere la sua candidatura alla presidenza della Repubblica un grave errore? (Sì! N.d.b.)

Corriere.it 5 Mag ore 10

Giannelli 5 Mag

Il Cavaliere spiazzato va in cerca di un outsider anti-Massimo4

Augusto Minzolini su La Stampa 4 Mag

I timori del centrodestra per il leader azzurri è impossibile dire "sì" ad un post-comunista
«Fini mi ha detto che là dentro c’è un D’Alema che si atteggia da Capo dello Stato. Non so se Gianfranco scherzava ma mi ha raccontato che, appunto, D’Alema ha quasi scommesso che martedì sera sarà Presidente». Carlo Giovanardi, ex-ministro dell’Udc parla nella hall dell’Hotel Excelsior, dove si svolge il ricevimento dell’ambasciata israeliana e dove va in scena la delusione del centro-destra per il “forfait” dato da Carlo Azeglio Ciampi all’ipotesi di uan sua rielezione. In quei saloni c’è un po’ tutta la nomenklatura del paese, quella di destra e quella di sinistra. C’è anche D’Alema il candidato che il centro-sinistra vorrebbe portare al Quirinale non con il «metodo Ciampi», cioè quello del dialogo con l’opposizione, ma con «il metodo dello schiaccianoci».

Ovviamente il personaggio quando esce dall’Excelsior non vuole essere considerato il candidato «in pectore» per il Quirinale («è una menzogna e chi lo dice è un calunniatore») ma a Giovanni Maria Flick che gli fa gli auguri con il tradizionale “in bocca al lupo” risponde con il consueto: «Crepi». E, intanto, dentro il ricevimento il centro-destra tenta di trovare un’altra strategia, un altro nome per contrastare l’ascesa di D’Alema. «Si potrebbe - osserva il dimissionario ministro delle Poste, Mario Landolfi - puntare su Franco Marini: potrebbe essere una candidatura che, come si dice, ”stura”. Ma a quanto pare lui non è disponibile». Mentre Fini vorrebbe gettare subito nella mischia il nome di Giuliano Amato, vorrebbe un vertice della maggioranza per farlo e, a mezza bocca, afferma che il ritorno di Silvio Berlusconi sul nome di Gianni Letta rischia, nella logica del muro contro muro, di aiutare D’Alema.
E arriviamo al Cavaliere. Un attimo dopo aver saputo della rinuncia di Ciampi il premier ha rilanciato la candidatura di Letta, del suo sottosegretario, del suo uomo ombra. Ma è una cortina fumogena in attesa della prossima mossa degli avversari. Il nome di D’Alema per lui è indigeribile: per non incontrarlo il Cavaliere ha aspettato addirittura che il presidente ds lasciasse il ricevimento dell’ambasciata israeliana e solo dopo è andato all’Excelsior. «Se questi pensano di tenere fuori da tutti gli incarichi istituzionali - si è sfogato - un centro-destra che raccoglie il 50,2% dei consensi e magari provano ad eleggere D’Alema, sono fuori di testa. Stanno creando un tale concentramento di potere che è pericoloso per la democrazia. Una vera dittatura della minoranza.
Purtroppo Ciampi ha rifiutato anche se in parte ce lo aspettavamo. Qualcuno dal Colle ci ha dato qualche speranza ma io, a differenza dei nostri alleati, sono stato sempre prudente: non so se si è tirato indietro perchè non se la sentiva; perchè lo hanno spinto a farlo quelli della sinistra; o, ancora, perchè non ha voluto assecondare il nostro appello. Comunque io non mi muovo dal no a D’Alema o a qualunque altro candidato della sinistra: in questi giorni mi hanno proposto di tutto, mi hanno fatto tante lusinghe, ma io non tradisco il mio popolo». Già, ieri sera nella sua mente il Cavaliere ha rivissuto le 24 ore in cui il Ciampi-bis è stato in ballo: il segretario generale del Quirinale, Gaetano Gifuni, che attraverso Gianni Letta faceva sapere che alla fine il Capo dello Stato avrebbe potuto anche dire di sì; oppure, Pier Ferdinando Casini che ancora un’ora e mezza prima del «no» di Ciampi era sicuro che l’inquilino del Colle avrebbe accettato la rielezione.
Invece, niente. Così Berlusconi ha cominciato a valutare la nuova situazione cercando di districarsi tra le mille «voci» che gli riportavano. Gli hanno riferito un frase del presidente Ds: «Temo solo una cosa, che mi gettino tra i piedi la candidatura Marini». Ma è una pista che per il momento non porta da nessuna parte: al Cavaliere, infatti, risulta che lo stato maggiore della Quercia si è già assicurato l’indisponibilità del neo-presidente del Senato a correre per il Quirinale. Berlusconi è anche consapevole che a questo punto della vicenda il massimo sostenitore della tesi della candidatura secca su D’Alema è diventato lo stesso Romano Prodi. «E’ ovvio - sostiene Adolfo Urso - che una presidenza della Repubblica D’Alema blinderebbe almeno per un paio d’anni Prodi». In più, per ridurre a più miti consigli Berlusconi, gli stessi “messi” della Quercia che nei giorni scorsi avevano ventilato la candidatura del presidente dei ds, hanno fatto sapere che se D’Alema fallisse, sarebbero pronte altre candidature post-comuniste da Giorgio Napolitano ad Anna Finocchiaro.
Nella logica che il peggio non muore mai. E il Cavaliere? Per ora prende tempo. Non può gettare sul piatto la candidatura di Amato perché al momento rischierebbe di bruciarla. Prima di prendere una decisione, vuole saggiare con quanta compattezza il centro-sinistra si muove su D’Alema e non esclude neppure - come ha confidato ieri sera ai suoi - di convergere su Marini, sempre che quello del presidente del Senato non sia un atteggiamento di pretattica democristiana. Ecco perchè è difficile, a questo punto, che il quadro cambi prima che nell’aula di Montecitorio si svolga la prima conta dei numeri in campo. E’ difficile, però, che il Cavaliere ritorni sui suoi passi sul «no» a D’Alema. Per lui è impossibile dire di «sì» ad un post-comunista al Quirinale dopo che Fausto Bertinotti è diventato l’inquilino di Montecitorio: «Il mio popolo - per usare le parole del Cavaliere - non lo comprenderebbe». Quindi, deve solo attendere gli eventi senza preoccuparsi.
In fondo a questo punto a poco da perdere: se D’Alema non ce la facesse, diventerebbe un problema ancor più grosso per il vertice dell’Unione e comunque si aprirebbero degli spazi per la candidatura Amato; se, invece, riuscisse nell’impresa dovrebbe essere proprio lui, il D’Alema eletto Capo dello Stato a corteggiarlo, non fosse altro per diventare il Presidente di tutti gli italiani. E intanto lui, Berlusconi, sul nuovo regime potrebbe lanciare una lunga campagna elettorale.

Quirinale: Dopo il grande arbitro ci vuole un grande giocatore

Editoriale su Il Riformista 5 Mag

L'Italia uscita dalle urne del 10 aprile, con questa maggioranza politica risicata (e probabilmente precaria), ha bisogno al Quirinale di una figura che non sia solo un arbitro imparziale, ma un abile giocatore. Si è detto che dopo la monarchia berlusconiana, oggi al vertice politico c’è una tetrarchia di presidenti: quelli delle Camere, il capo del governo e il capo dello Stato. Un equilibrio che può diventare instabile e minacciare la governabilità. O, al contrario, trasformarsi in uno di quei paradossali adattamenti del sistema politico che abbondano nella storia d’Italia. Perché ciò avvenga è essenziale che il Colle sia il baricentro di forze potenzialmente centrifughe, possibile solo con un presidente politico di primo piano. Se questo è il progetto, non stiamo parlando di barattare le poltrone né di spartizione, Cencelli alla mano. E’ vero, il secondo partito italiano e primo della coalizione, ha diritto di avere la sua rappresentanza al vertice politico della nuova legislatura. Ma la questione è molto più complessa. E l’ha capita anche Berlusconi il quale ha tre obiettivi di fondo: la fine di quella che chiama «campagna di odio» nei suoi confronti; il ritorno di Mediaset a «patrimonio dell’Italia», come venne dichiarato proprio da D’Alema; un bilanciamento di Prodi del quale si fida meno che degli ex comunisti.
Il Cavaliere più che al metodo Ciampi pensa al metodo Merkel: in sostanza, un negoziato diretto tra i principali partiti. Si tratta di capire quanto possa giocare in proprio e quanto possa presentare ai suoi stessi elettori, dopo aver gridato contro il pericolo rosso, un accordo con “l’odiato nemico”. Chi si fa meno problemi è la Lega la quale si sente più tutelata da D’Alema, nel momento in cui, bocciato al referendum il pasticcio Calderoli, bisognerà mettersi attorno a un tavolo, questa volta tutti insieme, per discutere su come riformare la Costituzione. E così ieri, ventiquattresimo giorno, mese primo, anno primo d.C. (dopo Cavaliere) si è aperta davvero la nuova fase. Adesso si comincia (speriamo) a far politica.

Il Manifesto 5 Mag

Mauro Biani 4 Mag

04 maggio, 2006

Libero 4 Mag

Maurizio Crippa su Il Foglio 4 Mag

Prima o poi, i nodi autostradali vengono al premier.

Andrea's version del 4 Mag

In questa interessante giornata in cui Ciampi ha pregato di non esagerare con altri sette anni, e avrà smesso finalmente di toccarsi, in cui Prodi avrà tirato un sospiro non si sa quanto di sollievo, in cui Amato spererà sotto sotto di poter subentrare, ma anche in cui parecchi, speriamo, avranno letto la lettera al Foglio di Rino Formica; in questa giornata dopo la quale se i Ds si tirassero ancora indietro sul nome di D’Alema farebbero una figura di merda da cancellare il ricordo di don Abbondio, in cui il senatore Napolitano starà amaramente fissando il suo stendardo (vale a dire un coniglio bianco in campo bianco) e in cui una settimana che finirà per rivelarsi di cruciale importanza per la Seconda Repubblica e forse per la Terza sta prendendo freneticamente il via, vabbè, in questa giornata talmente interessante è capitato un fatterello per cui sono andato di là e me ne sono proprio stappata una di quello buono. Era per via della decisione della Consulta sul potere di Grazia e per via di Ovidio Bompressi. Arrivato a metà bottiglia non avete idea della quantità di Castelli in aria che ho visto.

Referendum contro Mala Costituzione

Leopoldo Elia su Europa del 4 Mag

È in libreria una raccolta di saggi ed articoli del nostro maggior politologo, pubblicati prevalentemente sul Corriere della Sera negli anni 2003- 2005: l’autore, Giovanni Sartori, ha dato a questi scritti un titolo che pone l’accento sulla prima e più ampia parte del libro dedicata alla “Mala Costituzione” e cioè alla riforma della nostra Carta costituzionale su cui gli elettori dovranno dire l’ultima parola il 25 e 26 giugno 2006. In due diverse parti si tratta anche di «altri malanni » e cioè della «mala sinistra» e di problemi più specifici. Ma l’urgenza referendaria e la importanza preminente dei temi costituzionali discussi sulle cento pagine di apertura giustificano, in questa sede, una breve riflessione concentrata sui giudizi espressi a proposito della riforma; anzi del giudizio perché il carattere globale e dilemmatico del quesito referendario obbliga ad un evangelico sì o no.Il primo e maggior merito di Sartori consiste nella nettezza della risposta negativa perché «nei referendum non si può sottilizzare più di tanto», come scrive nell’articolo intitolato con la formula usata da Prodi: la dittatura del premier. E l’altro pregio del libro è da ravvisare nella motivazione del no a proposito della nuova forma di governo, caratterizzato dalla concentrazione abnorme di poteri attribuiti al primo ministro.

Innanzitutto esistono nel nostro ordinamento limiti anche alla revisione della Costituzione disciplinata dall’articolo 138; la corte costituzionale nella sentenza n. 1146 del 1988 ed in altre pronunzie ha infatti stabilito che la Costituzione contiene un nucleo assolutamente immodi ficabile composto dai principi supremi o fondamentali e che il rispetto di tali principi è garantito dalla giurisdizione costituzionale anche con riferimento alle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali.
Ciò vale sia per i principi espressi (forma repubblicana) quanto per quelli che, pur non esplicitamente enunciati come limiti al potere di revisione, «appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana» e che dunque «non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale» neppure con la procedura dell’articolo 138; e, si può aggiungere, il potere di revisione è pur sempre un potere costituito, che invece si pervertirebbe in costituente se modificasse i principi supremi.
Perciò l’ossimoro di Sartori “Verso una Costituzione incostituzionale?” esprime un paradosso solo apparente, in quanto, se la riforma venisse approvata dagli elettori, ci troveremmo di fronte ad una legge di revisione approvata secondo il procedimento previsto dall’articolo 138 della Costituzione e poi promulgata dal capo dello stato, ma contrastante con il contenuto essenziale di principi supremi affermati da un potere costituente che si è esaurito, in relazione a tali principi, il 27 dicembre 1947. L’ordinamento della repubblica, così stravolto, sarebbe dominato «da un dispotismo elettivo pilotato da una dittatura del premier».Il percorso che Sartori segue per arrivare a questi giudizi conclusivi si basa soprattutto su due affermazioni di incompatibilità.In primo luogo non è possibile conciliare la sostanziale insostituibilità del primo ministro con la forma di governo parlamentare (si tende invece ad occultare la questione ricorrendo alla formula ambigua del governo “neoparlamentare”).
E ciò non solo perché la flessibilità è caratteristica preminente di questa forma di governo (come sostituire altrimenti il premier Chamberlain con Churchill se è necessario fare la guerra con Hitler?): ma soprattutto perché si incide sugli “equilibri fondamentali” della forma di governo prescelta dal Costituente (sentenza n. 360/1996 sulla non reiterabilità dei decreti legge). Ma anche ad ammettere la possibilità, in sede di revisione di passare ad un’altra forma (presidenziale o direttoriale), sarebbe necessario comunque innestare gli “equilibri fondamentali” propri o equivalenti di questi altri tipi di organizzazione costituzionale; invece dei richiesti checks and balances non si trova nessuna traccia nella riforma: i riformatori distruggono gli equilibri di fondo costruiti dal Costituente del 1947 senza sostituirli con nuovi assetti che garantiscano da una esasperata concentrazione di poteri nel premier. Il quale, dunque, godrebbe della insostituibilità per una legislatura quinquennale simile a quella del presidente Usa e contemporaneamente sarebbe fornito dei poteri di sciogliere la camera dei deputati e di porre dinanzi a questo ramo del parlamento la questione di fiducia, poteri che, come è noto, quel presidente non possiede. Così si va verso una forma di governo che, non essendo più parlamentare, non diviene peraltro né presidenziale né direttoriale: cioè ad una ibridazione di modelli che è incompatibile con il mantenimento delle garanzie (limitazione del potere), che sono proprie di ogni forma di governo all’interno della forma di stato democratico.
Più in particolare è fondato su queste premesse il rifiuto di Sartori di considerare il premier inglese o il cancelliere tedesco come eletto direttamente dal popolo, perché, se così fosse, questi vertici del potere governativo sarebbero davvero sostituibili solo con un nuovo intervento del corpo elettorale. Non è del resto un caso che l’elezione diretta del primo ministro israeliano, sperimentata per una breve stagione, desse luogo a una forma di governo diversa da quella parlamentare: come ad un modello diverso si ispira l’elezione diretta dei “governatori” nelle regioni italiane a statuto ordinario (vedi anche sentenza n. 12/2006 corte costituzionale). D’altra parte, l’insostituibilità è frutto di un’altra situazione contraddittoria: premesso che, se la camera sfiducia formalmente con apposita mozione il primo ministro, essa è sciolta ope constitutionis, in altri casi la camera potrebbe sostituire il primo ministro con una sfiducia costruttiva interna alla maggioranza.
Ma qui credo di dover sottolineare da parte mia che non si sfugge a questo dilemma: o la sfiducia (costruttiva perché sostituisce un leader ad un altro nella guida del governo od anche semplicemente distruttiva come nel caso Thatcher) si verifica, all’interno di un quadro di autosufficienza dello stesso schieramento e allora deve bastare per la sfiducia una maggioranza correlata al numero degli appartenenti al gruppo parlamentare o all’organo di vertice della formazione politica interessata (in generale la metà più uno); oppure la sfiducia costruttiva deve essere messa in opera nell’aula della camera dei deputati, come è previsto nel testo della riforma, e allora il voto per la sfiducia costruttiva non può essere interno alla maggioranza autosufficiente, escludendo dal voto efficace, contro tutti i principi della vita parlamentare (articolo 67 Costituzione), i deputati appartenenti all’opposizione. Invece proprio questa ibridazione di modelli è prevista dai nostri riformatori della XIV legislatura: per sostituire il premier è necessario che la mozione sia approvata dai deputati «appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera» (articoli 88 e 94 del nuovo testo).Questa ibridazione (trasferendo dall’inglese in italiano le cifre applicabili) significa far salire da 171 voti (metà più uno dei seggi conseguiti con il premio di maggioranza) a 316 voti (metà più uno dei 630 membri della camera dei deputati) i voti necessari per l’approvazione della mozione, tutti espressi da deputati che appoggiano il governo: di qui la pratica insostituibilità del primo ministro in carica che potrà agevolmente impedire il raggiungimento dell’altissimo quorum.
Ma all’origine di questo barocco congegno c’è un errore di impostazione: non si può operare a fini anti ribaltone una malefica miscela che combina il sistema inglese della deliberazione adottata nell’autosufficienza interna al partito maggioritario in una sede privata con il sistema tedesco della sfiducia costruttiva, aperta in una sede pubblica, a tutti i deputati di maggioranza e di opposizione, considerati alla pari. O si sceglie il primo criterio, più adatto ai sistemi bipartitici, o si sceglie l’altro, più adatto ai sistemi a pluripartitismo moderato, com’è oggi nella Germania federale, in cui dal 1949 solo nell’ottobre 1982, con la disaggregazione dell’alleanza di governo tra liberali e socialdemocratici, Kohl poté sostituire Schmidt nella carica di cancelliere.
Va da sé che dalle riforme della cosiddetta Casa della libertà escono mortificati camera dei deputati e presidente della repubblica (il senato federale non si sa che cosa sia davvero). D’altra parte, potendosi eleggere il capo dello stato (dopo il quinto scrutinio) con la maggioranza assoluta dei componenti l’assemblea della repubblica (nuovo testo articolo 83 Costituzione), la composizione stessa della corte costituzionale (quattro giudici di nomina presidenziale) potrebbe risultare fortemente politicizzata. Naturalmente Sartori polemizza con efficacia anche contro la devolution, mettendone in rilievo i costi e le disparità nel godimento di diritti fondamentali (alla salute e all’istruzione) che possono determinarsi con la doppia esclusività delle competenze statali e regionali nella stessa materia. Dalla presentazione del libro nella sede laterziana di Roma e particolarmente dagli interventi del discussant professor Giovanni Bazoli è venuto anche un monito a non indebolire il nostro no alla riforma con i mache qualcuno vorrebbe aggiungere in relazione a future modifiche migliorative del testo costituzionale oggi vigente: è evidente che questi ma sulle riforme dividerebbero la schiera dei sostenitori del no e li allontanerebbero dagli impegni assunti da tutti i partiti dell’Unione di procedere a riforme puntuali (tipo emendamenti alla Costituzione statunitense) dopo aver meglio garantito la Costituzione italiana con l’elevazione a due terzi o a tre quinti dei quorum per le deliberazioni parlamentari decisive nel procedimento previsto dall’articolo 138 Costituzione (cfr. libro giallo l’Unione per il bene del paese, pagg 9-13). Si condizionerebbero così le riforme al consenso di un’ampia maggioranza nelle due camere.
Dunque un passo alla volta: prima gettiamo nel cestino come carta straccia la mala Costituzione, concentrandoci in uno sforzo preparatorio al referendum finora troppo trascurato dai partiti dell’Unione. L’attesa del 25 giugno non è lunga: usiamola tutta per motivare il nostro rifiuto e per convincere alla risposta negativa elettori provati da tornate elettorali al cardiopalma.

Perini su Il Riformista 4 Mag

Giannelli 4 Mag

Il Manifesto 4 Mag

Il Manifesto potrebbe uscire anche con la sola prima pagina!

03 maggio, 2006

Sul Quirinale nessuna forzatura

Emanuele Macaluso su Il Riformista 4 Mag

L'elezione del presidente della Repubblica, come sempre, spacca coalizioni e partiti. Oggi la situazione è ancora più complessa che nel passato. E non perché, come scrive Paolo Guzzanti sul Giornale, uno dei candidabili, Massimo D'Alema, è «l'ultimo leader del Pci». Persone come Ingrao, Jotti e Napolitano hanno garantito più d'altri l'istituzione che hanno presieduto, la Camera dei deputati. E il Pci commise errori, mai però quello di non difendere le istituzioni e la legalità. Il problema politico è un altro: il paese in questi anni è stato lacerato, e le recenti elezioni l'hanno registrato ancora una volta.
Chi pensa, a sinistra, che dopo l'elezione dei presidenti della Camera e del Senato si possano ripetere gli stessi scenari per il Quirinale, si sbaglia. Per due motivi. L'Italia ha bisogno di un capo dello Stato che sia eletto da una maggioranza larga, e che abbia, come Ciampi, le doti politiche e umane per mediare scontri politici e istituzionali che saranno ancora pesanti.
Se si volesse tentare una forzatura candidando unilateralmente un leader del centrosinistra - in questo caso D'Alema - il rischio di rompere la coalizione e non conseguire il risultato sono alti. Attenzione.

Il tramonto della Silvio Époque

Marcello Sorgi su La Stampa 3 Mag

Nel giorno delle dimissioni di Berlusconi, prima di chiedersi quale futuro lo aspetta, forse c’è ancora qualcosa da capire della sua strana e recente sconfitta. Una sconfitta cui l’uscita di scena del governo più lungo della storia repubblicana dà un senso di fine epoca, ma che tuttavia lo lascia padrone di metà del campo.
Si può partire di qui, con una premessa: quando, tra venti, trenta, o cinquant’anni, gli storici cercheranno di analizzare il lungo periodo berlusconiano (finora sono più di tredici anni), si troveranno di fronte a una mole enorme di libri e documenti, a una sproporzione tra il materiale apologetico e quello demolitorio, a un gran divario tra gli autori del primo, in gran parte amici, collaboratori e servitori del Cavaliere, e del secondo, tra le migliori menti di un paio di generazioni dei suoi avversari. La memoria visiva - film, documentari, archivi tv, spezzoni di telegiornale - contribuirà ad esaltare gli aspetti grotteschi e reali di questi anni. Mentre sarà piùdifficile ricostruire le reazioni italiane a un ciclo, a una fase, a un lungo evento, che anche dopo decenni sembrerà un ciclone. Così, più o meno seriamente, e magari in attesa di revisioni storiche, l’immagine di laboratorio dell’epoca berlusconiana somiglierà a una specie di riedizione del fascismo: una ventata politica nuova, una sorta di populismo autoritario, alimentate da un sogno irrealizzabile e da un uso distorto di tv e mezzi di comunicazione, e che piano piano cancellano la libertà e instaurano un potere assoluto.
Ecco, non fosse perché se ne parla nel giorno in cui Berlusconi scende sconfitto per le scale che aveva salito vittorioso cinque anni fa, non fosse per la mesta uscita dal portone del Quirinale verso cui la prima volta «la gente mandava baci», non fosse per l’assoluta normalità di questa giornata post-elettorale – le facce tristi o compunte dei leader di destra, il rosso delle bandiere della sinistra che sventolano ancora dopo il Primo Maggio -, una rilettura forzata come questa, del periodo berlusconiano, a distanza di anni potrebbe pure prendere piede.
Senza chiedersi, perché altrimenti non tornerebbero i conti, come se n’è andato veramente Berlusconi: se arrestato, o ucciso, o fuggito mentre tutto andava in rovina, come il Caimano nel finale epico del film di Nanni Moretti. In realtà – ed è il punto che dovrà restare fermo – Berlusconi lascia Palazzo Chigi dopo una normale sconfitta; battuto alle elezioni politiche che cinque anni prima aveva vinto tranquillamente. Il potere di cui ha goduto – e abusato, a detta di molti – è lo stesso di cui altri leader si erano serviti prima di lui, e che comelui, nello spazio diunmattino, avevano visto consumarsi. Così la fine del Berlusconi premier il 2 maggio del 2006 non è diversa da quella di Prodi nel 1998 o di D’Alema nel 2000. E come sempre, identico sarà per lui il dover dimenarsi nel velenoso mare di ironia, cattiveria e compassione che accompagnano la caduta di un leader in Italia. Se questo è appunto il dato di fatto che dovrebbe servire a contrastare, tra molti anni, la vulgata della fine del nuovo fascismo (non di un regime, ché purtroppo c’èunatendenza, forse unadisponibilità naturale, tutta italiana, ai regimi), c’è spazio per introdurre una seconda riflessione sul tramonto della lunga stagione berlusconiana.
Anche in questo caso, con una premessa: è opinione comune, infatti, che Berlusconi sia stato la rovina di se stesso con le leggi ad personam e i tanti altri provvedimenti, presi dal suo governo e approvati dalla sua maggioranza, ad esclusivo vantaggio suo e delle sue aziende. E non v’è dubbio che condoni di ogni genere, e leggi procedurali come la Cirami e la Cirielli, oltre a una certa impostazione vendicativa verso i magistrati delle riforme della giustizia, abbiano aiutato il Cavaliere e le sue aziende, dapprima a sopravvivere alle pendenze giudiziarie, e poi, una volta superato il pericolo, a crescere e a prosperare. Oggi è difficile dire se, a un dato momento della sua storia imprenditoriale, Berlusconi potesse fare, per dire, la fine di un Tanzi. Forse no. Più forte era la struttura del suo gruppo e la qualità dei suoi manager.Ma che la spinta del governo e di certe leggi siano servite ad aiutare il Cavaliere e le sue aziende a togliersi dai guai, è evidente. Anche se non si trattava del primo caso di soluzioni politiche approntate per casi giudiziari di una certa entità. Basti pensare, poco prima di Tangentopoli, all’amnistia varata dal Parlamento per i reati commessi prima del 1989: uno dei tanti casi in cui, nella storia repubblicana, il potere politico ha cercato e trovato il modo di mettersi di traverso a quello giudiziario.
C’è dunque un’altra spiegazione delle ragioni della sconfitta, sia pure dimisura, di Berlusconi. Più che per quel che ha fatto, e ammesso che quel che ha fatto abbia potuto pesare quanto si pretende, Berlusconi potrebbe essere caduto anche per tutto quello che non ha fatto o ha lasciato a metà. E, da questo punto di vista, la parabola della Seconda Repubblica, di cui il Cavaliere è protagonista e uomo simbolo, può diventare davvero emblematica, e non solo per lui. Berlusconi infatti è stato il leader che nel ‘93, schierandosi con Fini e l’allora Msi contro Rutelli nelle prime elezioni del nuovo corso, ha messo in motoil meccanismodel maggioritario, con una piena legittimazione di tutte le forze politiche e la realizzazione dell’alternativa di governo a tutti i livelli.Madodici anni dopo è lo stesso Berlusconi che, con l’introduzione della nuova legge elettorale, ha posto le premesse per il ritorno del proporzionalismo, e domani del trasformismo.
Di questo strano e sinuoso andamento, e di un percorso pieno di ripensamenti, quando non contraddittorio, nei cinque anni che a detta sua dovevano servire a cambiare l’Italia, Berlusconi alla fine ha lasciato varie tracce. Dall’economia dei tagli deboli delle tasse e della mancata ristrutturazione di una macchina burocratica statale pletorica e costosa, a politiche di rigore necessarie ma decise in extremis, spesso sotto la minaccia di sanzioni europee. E poi ancora, dalla competitività, all’innovazione, alla flessibilità del mondo del lavoro, oggetto di un continuo «stop and go», alle istituzioni (istanze giuste, come premier più forte e rapporto più diretto tra eletti ed elettori, annegate in una riforma mostruosa di metà della Costituzione), alla politica estera e a quella della sicurezza (immigrati e terrorismo). Insomma, con premesse giuste e comportamenti spesso sbagliati, Berlusconi ha cercato, in molti casi senza riuscirci, di realizzare quei cambiamenti di cui da tempo l’Italia ha bisogno. Questo è l’aspetto più difficile da accettare, che c’è un rosso e un nero anche nel bilancio politico dell’epoca berlusconiana. Ma è così: e buona parte del programma e delle scadenze che il Cavaliere si era dato erano tali che anche un governo diverso dal suo, oggi, potrebbe cercare di riprenderli.
C’è una lezione che si può ricavare, prima di archiviarla, da tutta questa vicenda. Una lezione che potrebbe servire anche al centrosinistra, intento a formare il nuovo governo. Se l’Unione, come ha fatto in questi anni la Casa delle libertà, pur di tenere insieme la maggioranza dovesse decidere di rinviare riforme indispensabili, anche il futuro di Prodi sarebbe destinato ad ingrigirsi. E il Paese, estenuato dalla lunghezza e dall’inutilità dello scontro, non potrebbe che ripiegare sulla sua stanchezza. Tra cinque anni o anche meno, a quel punto, quando torneremo a votare, l’alternativa già sperimentata tra governi diversi potrebbe rivelarsi impraticabile. E a poco a poco, continuando a rallentare, l’Italia, troppo tardi, potrebbe accorgersi di essere ferma.


Ciampi conferma la sua indisponibilità alla rielezione3

La nota del Quirinale

L'Ufficio Stampa del Quirinale rende nota la seguente dichiarazione del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi:
"Sono profondamente grato per le molteplici dichiarazioni in favore della mia rielezione a Presidente della Repubblica, anche perchè esse implicano una valutazione positiva del mio operato quale Capo dello Stato, garante dell'unità nazionale e custode dell'ordine costituzionale.
Interpreto questa convergenza di parti politiche diverse sul mio nome come disponibilità a quel civile confronto che - al di là delle naturali asprezze della dialettica politica, acuite dal recente momento elettorale - è premessa e condizione, indispensabili, della saldezza delle istituzioni e, quindi, della salute della Repubblica.
Tuttavia tali dichiarazioni mi inducono, per una esigenza di doverosa chiarezza, a confermare pubblicamente la mia "non disponibilità" ad un rinnovo del mandato, anticipata nel messaggio di commiato di fine anno.
Non ritengo, infatti, data l'età avanzata di poter contare sulle energie necessarie all'adempimento, per il lungo arco di tempo previsto, di tutte le gravose funzioni proprie del Capo dello Stato.
A ciò si aggiunge una considerazione di carattere oggettivo, che ho maturato nel corso del mandato presidenziale: nessuno dei precedenti nove Presidenti della Repubblica è stato rieletto. Ritengo che questa sia divenuta una consuetudine significativa. E' bene non infrangerla.
A mio avviso, il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato."

L'Unità 3 Mag ore 19:00

Lettera puntuta e lucida di Formica sul carattere di Amato

Rino Formica su Il Foglio 3 Mag

Per un socialista è difficile scegliere tra un ex socialista e un post-comunista. Ma in politica, che è una scienza esatta, vale la ragione più gelida. Cosa è Amato?
I suoi meriti: vestire con arte avvocatesca le volontà altrui; piegare la logica comune all’opportunità politica di parte; ingannare con la parola la verità dei fatti; coprire i propri desiderata con l’illusione del bene comune; far apparire sottile ciò che è grossolano.
I suoi limiti: essere noto perché sa fare benissimo il secondo. La sua storia politica è accettabile quando ha saputo eseguire; è da rigetto quando ha dovuto decidere da solo.
E’ un re Mida rovesciato: trasforma l’oro in friabile argilla. Non è adatto a compiti direttivi irresponsabili. E’ sottile se è al servizio, è sfuggente se si mette in proprio. Se le istituzioni devono riconquistare autorevolezza la cipria non serve.
Cosa è D’Alema? L’esatto contrario di Amato, anche se gli fa velo la scuola berlingueriana. Scelgo D’Alema come avrei scelto Craxi, perché il ritorno alla politica richiede una personalità inorganica ai poteri dell’antipolitica.
Fraterni saluti
Rino Formica


I giudizi su Amato, perfetti, trascurano soltanto, secondo me, il peso relativo, notevole, della sua intelligenza, che però non arriva a forgiare il carattere di un politico, virtù senza dubbio maggiore. Per il resto, una lettera così sembra illustrare la sopravvivenza della cultura politica in Italia.
Giuliano Amato

Repubblica.it 3 Mag ore 19:00

Forse finiscono di tirare giacche e tiri mancini.

Maramotti 3 Mag

Non si può essere arbitro e capitano

Paolo Guzzanti su Il Giornale 3 Mag

Berlusconi si è dimesso e subito dopo il vertice della Casa delle Libertà ha candidato Carlo Azeglio Ciampi a succedere a se stesso come unica personalità in grado di garantire tutti. Ricordate con quanta insistenza la sinistra, finché era all’opposizione, invocava «pesi e contrappesi» (checks and balances)? Bene, prima ancora dell’incarico di governo e senza disporre di una vera maggioranza, la stessa sinistra già mostra la tendenza ad arraffare tutto e prendendo una deriva vagamente totalitaria perché rinnega il principio tante volte affermato e anzi gridato secondo cui non si può disporre sia del potere del controllore (il Quirinale) che del controllato (il governo) e per buona misura anche quello dei presidenti di Camera e Senato.Durante il quinquennio berlusconiano il dualismo fra controllore e controllato è stato perfetto e severo: con stile impeccabile e senza sconti il presidente Ciampi ha fatto egregiamente il suo dovere rinviando anche al Parlamento le leggi che non lo convincevano. La separazione dei poteri è stata una garanzia per i cittadini. Ma adesso si parla con crescente insistenza di una candidatura di Massimo D’Alema al Quirinale, come controllore del governo della sua stessa parte politica.La contraddizione è evidente e non riguarda la persona di Massimo D’Alema, un realista intelligente e stimato.
Il problema è che non può fare da arbitro per quel che abbiamo detto e per due ulteriori motivi. Il primo è che è proprio lui il vero capitano della squadra dell’Unione, essendo Prodi e Fassino figure secondarie: ciò rende ancora più improponibile il suo ruolo di figura di garanzia. Il secondo motivo è che si tratta dell’ultimo leader del Pci, problema di cui sia D’Alema che il suo partito sono consapevoli, tanto è vero che hanno preferito non far correre apertamente un loro uomo per Palazzo Chigi perché l’elettorato moderato di sinistra rifiuta ancora il prodotto comunista. Ma è un’anomalia solo italiana: in nessuna democrazia al mondo il capo del partito più importante si nasconde dietro un prestanome.In Italia invece abbiamo proprio questo elemento di inquinamento: il vero leader storico dei comunisti preferisce non candidarsi perché sa che questo titolo è un handicap presso lo stesso elettorato di sinistra moderata. Tuttavia pensa di poter scalare il Quirinale con una manovra di palazzo sottratta al controllo degli elettori. D’Alema avrebbe dovuto avere la presidenza della Camera ma è stato sgambettato dai suoi. Ed è proprio la sua fredda frustrazione a trasformarlo in candidato per il Quirinale come se il vero e più importante problema della Repubblica fosse quello di trovare per D’Alema un posto all’altezza delle sue aspirazioni.
Se un tale evento accadesse davvero, e questo D’Alema lo comprende perfettamente, esso sarebbe vissuto da più della metà degli italiani come la negazione del concetto di garanzia attraverso il sistema dei pesi e dei contrappesi che ha funzionato durante il governo Berlusconi. Se il progetto andasse in porto, quel che la gente capirebbe è che le sinistre avrebbero arraffato tutto, dai guardalinee di Camera e Senato all’arbitro del Quirinale, disponendo anche di ciò di cui Berlusconi non ha mai disposto, e che anzi ha avuto sempre contro: dalla Corte Costituzionale al Consiglio Superiore della Magistratura, dai poteri finanziari che possiedono i giornali alle amministrazioni locali. La scelta di Ciampi, invece, uomo stimato da tutti sia a destra che a sinistra, è una scelta per definizione sia onesta che garantista. Le altre, azzerando la distinzione fra chi controlla e chi è controllato, sono scelte che avvelenano i pozzi della democrazia.

Il Manifesto 3 Mag

Sulla poltrona lascia i chiodi.

Giannelli 3 Mag

02 maggio, 2006

Repubblica.it 2 Mag

Berlusconi. Rimpiangerlo no, mancarci sì

Il Riformista 3 Mag

No, caro (ex) presidente Berlusconi, noi non la rimpiangeremo. Ma ci mancherà, questo sì. E invitiamo i riformisti del centro-sinistra a unirsi al nostro sentimento. Spieghiamo perché. Non ci mancherà il suo sprezzo per le regole (persino quelle che si è fatto per se stesso). Ma ci mancherà senz’altro il suo gusto di sfidare il senso comune (fino al limite del buon senso). Ci mancherà il suo gusto di provocare e la sua voglia di rimettere in discussione lo status quo. Non abbiamo mai creduto alla favoletta dell’impolitico anche se, senza dubbio,. è stato un pre-politico che ha saputo trasformare il modo di far politica. Non più mediazione, ma sfida, non più spartizione, ma lotta, non più accordi sottobanco, ma amici e nemici. Ha esagerato, perché ha esasperato le divisioni dell’Italia che è arrivata, spaccata politicamente a metà, anche all’ok corral del 9 e 10 aprile. Adesso è arrivato il tempo di leccarsi le ferite. Ma chissà che non si arrivi molto presto a giudicare la sua una scossa salutare? Senza dubbio positivo per noi è che lei abbia rotto il consenso fiscale secondo il quale non c’è alternativa a pagare più imposte se si svuole salvare il welfare state. Il partito delle tasse è stato messo in difficoltà. E lo si è visto anche in campagna elettorale dove l’Unione ha rischiato di perdere riproponendo l’immagine di "grande esattore".
In politica estera non ci mancheranno i suoi show con gli «amici» (fossero Bush, Putin o Blair), ma la sua scelta di impegnare l’Italia in operazioni militari all’estero, di peace-keeping e peace-enforcing, questo sì. Speriamo che il nuovo governo non ascolti le sirene isolazioniste della sinistra radicale (isolazionismo non pacifismo, non è la stessa cosa) o, peggio ancora, l’anti-americanismo pavloviano. I funerali, ieri dei soldati uccisi a Nassiriya hanno messo in luce, di nuovo, il grado di consenso e di consapevolezza degli italiani sulle missioni di pace. Romano Prodi c’era e avrà capito che a questa gente si deve rivolgere, e farà bene a tapparsi gli orecchi con la cera di fronte allo starnazzare dell’on. Caruso.