20 maggio, 2006

Di Pietro arresta Prodi


Michele Brambilla su Il Foglio 19 Mag

Sfilato all'ultimo minuto un ministero già assegnato al partito di Tonino

Che s'infuria e minaccia di non votare oggi la fiducia. Ed è solo l'inizio
Il fatto è questo. Ieri Antonio Di Pietro - ex segretario comunale, ex poliziotto, ex magistrato, attuale parlamentare del centrosinistra - ha minacciato Romano Prodi con poche ma semplici parole: domani (oggi per chi legge) noi dell'Italia dei Valori non voteremo, in Senato, la fiducia al governo. Questo ha detto Di Pietro al nuovo premier. In pratica, l'ex poliziotto ed exmagistrato ha arrestato il governo Prodi prima ancora che nascesse. Il motivo è semplice. Di Pietro è furibondocon Prodi. Ragioni ideali?Vedute diverse sui destini del Paese? Non proprio. La verità è un'altra. Al momento della spartizione delle poltrone all'interno della maggioranza, all'Italia dei Valori - il partito di Di Pietro - era stato promesso tra l'altro il viceministero per gli italiani nel mondo. A quell'incarico, che francamente non sembra un granché ma è pur sempre una cadrega come si dice a Milano, era destinato Leoluca Orlando, senatore dipietrista. Senonché, visto che non è facile accontentare tutti, al momento di mettere a posto tutte le caselle si è visto che non si riusciva proprio a dare quell'incarico a Orlando. continua...

Giannelli 19 Mag

19 maggio, 2006

Giannelli 19 Mag

Di Pietro arresta Prodi

Libero 19 Mag

Sfilato all'ultimo minuto un ministero già assegnato al partito di Tonino

Che s'infuria e minaccia di non votare oggi la fiducia. Ed è solo l'inizio
Il fatto è questo. Ieri Antonio Di Pietro - ex segretario comunale, ex poliziotto, ex magistrato, attuale parlamentare del centrosinistra - ha minacciato Romano Prodi con poche ma semplici parole: domani (oggi per chi legge) noi dell'Italia dei Valori non voteremo, in Senato, la fiducia al governo. Questo ha detto Di Pietro al nuovo premier. In pratica, l'ex poliziotto ed exmagistrato ha arrestato il governo Prodi prima ancora che nascesse. Il motivo è semplice. Di Pietro è furibondocon Prodi. Ragioni ideali?Vedute diverse sui destini del Paese? Non proprio. La verità è un'altra. Al momento della spartizione delle poltrone all'interno della maggioranza, all'Italia dei Valori - il partito di Di Pietro - era stato promesso tra l'altro il viceministero per gli italiani nel mondo. A quell'incarico, che francamente non sembra un granché ma è pur sempre una cadrega come si dice a Milano, era destinato Leoluca Orlando, senatore dipietrista. Senonché, visto che non è facile accontentare tutti, al momento di mettere a posto tutte le caselle si è visto che non si riusciva proprio a dare quell'incarico a Orlando. continua...

Giannelli 19 Mag

18 maggio, 2006

Ecco il soviet

Vittorio Feltri su Libero del 18 Mag

Diessini, rifondaroli, verdi, margheritini e giottini: i ministri rossi di Prodi sono già all'opera
Dalla Sanità alla Scuola, dalla politica estera alle leggi sul lavoro: cambierà tutto. In peggio
Romano Prodi ha varato. Giorgio Napolitano ha approvato. I nuovi ministri hanno giurato. Ora il governo chiederà la fiducia al Senato e alla Camera, con molte probabilità di ottenerla. Ovvio, il centrosinistra ha i numeri a Montecitorio anche per effetto dei premi di maggioranza "inventati" dalla Casa delle libertà per agevolare gli avversari e affondare se medesima. A Palazzo Madama le cose stanno diversamente; tuttavia i compagni troveranno il modo per superare l'impasse; è noto, i primi giorni di scuola gli alunni sono buoni e bravi e si mobilitano volentieri, sicché correranno in aula ad applaudire e a votare. Poi si vedrà. Subentrerà la noia della routine, e allora i due "punti" di vantaggio accreditati all'Unione potrebbero rivelarsi insufficienti. Non importa. Adesso prevale l'entusiasmo dei neofiti, e la barca andrà; dove non si sa, forse contro uno scoglio, forse navigherà in mare aperto. Dipende. Un fatto è certo: più che un governo, quello in procinto di salpare è un soviet. continua...

Giannelli 18 Mag

17 maggio, 2006

Il Manifesto 17 Mag

16 maggio, 2006

Sette anni di Purgatorio


Vittorio Feltri su Libero 16 Mag

Retorica, noia e finti applausi: il comunista Napolitano si insedia al Quirinale
Un bel discorso, un po' inutile come tutti i discorsi ufficiali, però di qualche eleganza formale. Il nostro commento potrebbe terminare qui, invece insistiamo perché preme sottolineare che di questo presidente si potrebbe fare a meno; al suo posto basterebbe una copia di cera, un manichino, una cravatta, insomma un vago segno dell'identità di Giorgio Napolitano tanto per dire: esiste un simbolo capace di rappresentare l'Unità nazionale. Il Parlamento ha fatto la scena. Tutti compunti ad ascoltare con interesse un pistolotto privo di qualsivoglia interesse; le telecamere inquadravano le facce grige dei presenti e sembrava di assistere al primo giorno di scuola, tanti bravi bambini composti nei loro banchi, compresi nella parte di alunni disciplinati. Il capo dello Stato, come ogni direttore didattico o preside, non ha mai sorriso; e ha fatto bene, perché nella circostanza c'era poco da stare allegri. (continuerebbe)

15 maggio, 2006

Giannelli 15 Mag

14 maggio, 2006

I giudici e il clamore

Sergio Romano su Corriere.it 14 Mag

La magistratura che scopre gli scandali
Ciò che mi ha maggiormente colpito nello scandalo del football è il sentimento, molto comune, che certi intrighi e imbrogli non siano casi isolati, ma indice di un malcostume diffuso. Insomma, siamo indignati, scandalizzati e arrabbiati, ma non sorpresi. Se queste impressioni sono fondate (e temo lo siano), la vicenda è più grave di quanto non sembri.
Questo non è un semplice scandalo, come possono accaderne anche nei Paesi meglio governati. È la dimostrazione, soprattutto dopo le vicende bancarie degli scorsi mesi, che Tangentopoli e i 14 anni passati dall'arresto di Mario Chiesa non hanno intaccato le cattive abitudini di alcuni settori della società. Pensavamo che le indagini di Mani pulite avrebbero avuto ricadute positive per tutta la vita nazionale. Credevamo che la proliferazione dei codici etici nella prima metà degli anni Novanta fosse qualcosa di più di uno dei tanti esercizi in cui il Paese rivela i suoi vizi peggiori: retorica, ipocrisia, conformismo. Ma scopriamo che le cattive abitudini, in certi ambienti, non sono cambiate. Quanto più una corporazione è potente, corteggiata e adulata dal Paese e dalla politica, tanto più sembra convinta di poter violare la legge e aggirare le regole.
Non è lo scandalo che preoccupa: è la combinazione di cinismo, sentimento d'impunità e indifferenza a qualsiasi principio morale che traspare dalla vicenda. Di chi è la colpa? Dei controllori che non controllano? Di una classe dirigente amorale? Di una opinione pubblica in cui l'indignazione è sporadica, sussultoria, inconstante?
Nello scandalo del football vi è un altro aspetto inquietante. Quando scoppiò Tangentopoli la reazione della magistratura fu, a dir poco, anomala. I procuratori si impadronirono del circuito mediatico e lo alimentarono con fughe, interviste, indiscrezioni. Le procure cominciarono a contendersi la materia delle indagini. Alcuni magistrati si abituarono a vivere nel cerchio di luce dei riflettori e dettero l'impressione di amare il loro nuovo ruolo. Mi dissi allora che queste anomalie erano forse giustificate da una esigenza: aprire un varco, grazie al consenso della pubblica opinione, nel muro di cinismo e di omertà che copriva il rapporto tra la politica e gli affari. Ma i magistrati avrebbero dovuto essere i primi a rendersi conto che bisognava tornare, dopo la «libera uscita» di quel momento eccezionale, alle antiche virtù del mestiere: il silenzio, la discrezione e una forte distanza di sicurezza dal mondo della politica.
Ciò che sta accadendo in questi giorni sembra dimostrare che lo stile di Mani pulite sopravvive. Siamo letteralmente sommersi da notizie di cui ignoriamo la paternità. E stiamo assistendo a una competizione fra le procure che ricorda gli anni di Tangentopoli. Esiste una istituzione che può affrontare autorevolmente questo problema: il Consiglio superiore della magistratura. Ma la sua maggiore preoccupazione in questi anni è stata quella di rivendicare l'indipendenza della magistratura. È giusto. Ma non sarebbe altrettanto giusto chiedersi, almeno in qualche caso, quale uso si faccia di tale indipendenza?
Ancora una osservazione. I risultati di questo grande clamore giudiziario sono inevitabilmente inferiori alle attese: qualche condanna cassata in appello, qualche detenzione cautelativa seguita da proscioglimento, qualche archiviazione. E così, dopo avere suscitato una appassionata sete di giustizia, la magistratura alimenta un'altra ricorrente patologia italiana: la sindrome dell'insabbiamento. E nuoce, in ultima analisi, a se stessa.

Paure e amnesie di chi ha votato Silvio

Giorgio Bocca su L'Espresso 14 Mag

Nella provincia di Cuneo l'80 per cento degli elettori ha votato Silvio Berlusconi. Una provincia partigiana, antifascista ha votato per l'uomo che ha sdoganato gli ex fascisti sempre fascisti, che non ha esitato a candidare anche gli ex nazisti sempre nazisti, compresi quelli che non avevano mai sentito parlare dell'Olocausto.

Ha votato per il politico che ha sempre ostentatamente ignorato la celebrazione del 25 aprile, che candidamente ha confessato di non sapere chi era papà Cervi, il padre dei sette fratelli fucilati a Reggio dai fascisti, di cui sono state pubblicate migliaia di fotografie, di articoli, centinaia di libri, fiumi di memorie, come non bastasse a stamparlo nella memoria di massa quella sua faccia di contadino che sopporta tutte le avversità e i lutti. Ma niente di ciò che significa il vecchio Cervi ha mai raggiunto il Cavaliere di Arcore che pure ha un'ottima memoria.
Le amnesie del qualunquismo italiano, della profonda millenaria destra italiana su cui navigano tutti i ritorni plebiscitari del partito dei soldi, sono totali, compatte come un muro di gomma, come i gradini di una piramide. Senza esitazioni, senza pudore.
Siamo nati e vissuti in una terra in cui non solo i cippi e i monumenti parlano della guerra di popolo al fascismo, ma anche le pietre, anche i fossi. Guardate quello che segue la strada fra Cuneo e Torino non lontano da Centrallo: in quel fosso cadde crivellato dai colpi delle brigate nere Duccio Galimberti e un ragazzo che passava lì per caso li sentì urlare "sparate su quel bastardo". Si chiamavano Costanzo e Probo, come i martiri della Legione Tebea, i vostri nonni o padri saliti in montagna dalle campagne del Passatore o della Bombonina, dalle tenute del marchese Falletti e che formarono l'esercito volontario di borghesi e di contadini (di operai ce ne erano pochi, gli operai comunisti stavano più su nelle valli di Lanzo e del Pellice).
Ne avete avuto uno in ogni famiglia, è impossibile che li abbiate dimenticati. Eppure è così: quando dal profondo sale la paura del nuovo, il terrore atavico della miseria, della fame, si vota Berlusconi o qualsiasi altro populista che prometta di tagliare le tasse e di abolire le multe.
Ma sale pure da un passato recente, anche dalla crisi dell'agricoltura del primo Novecento quando dalle campagne affamate del Piemonte partirono a decine di migliaia per andare a bonificare la pampa argentina, a dormire nelle buche, a patire di malaria per tornare vecchi e logori a comperare la villetta dalle parti del viale degli Angeli fra Cuneo e la montagna. Non solo nella 'provincia granda', anche a nord nella pianura Padana, nel Veneto.
C'è un paese di montagna fra l'Adige e il Brenta, San Mauro di Saline, dove ha votato per la destra l'89,95 per cento, 349 voti su 388 di cui 102 a Forza Italia e il resto alla Lega. Tutto ciò vuol dire che a decidere le elezioni di un paese moderno, il sesto o settimo paese industriale del mondo, sono state delle paure senza senso nel presente, ma radicate da millenni: paure di carestie, di invasioni, di peste, di fillossera, di grandine, per cui non si ragiona più, si corre dove si pensa che ci sia un riparo conservatore, il riparo del non muovere, del non agitare le acque e gli eventi che hanno sempre portato lutti fra la povera gente. Tanto più se povera non è, ma si è fatta l'automobile e la casa, tanto più se nessuno vuole toglierle l'automobile e la casa.
Ma nelle confessioni di quelli che hanno votato per il più ricco dei nostri milionari, per il più lontano dei piccoli risparmiatori italiani, per uno che non bastandogli una decina di ville fra Sardegna e Caraibi ne ha comperata, l'altro giorno, una in Svizzera per il tramite della madre di sua moglie, nelle confessioni, dicevo, passa come un nero lampo il pensiero intollerabile: vogliono portarmi via la casa, vogliono farmi morire sotto il cumulo delle tasse.
Chi? I comunisti. E noi che irridevamo l'anticomunismo irreale, magico, da maledizione biblica del signor Berlusconi.

Re Giorgio il temporeggiatore

Michele Serra su L'Espresso 12 Mag

Nella corsa al Quirinale i due schieramenti si sono comportati secondo la loro natura politica. Il centrosinistra puntava su personalità di esperienza e di sicura fedeltà istituzionale, come Cavour e Napolitano.
Il centrodestra su figure più spigliate e innovative, come Vallanzasca o Califano, oppure su una donna, che potesse effettuare il discorso di fine anno scosciata (molto curiosa la gaffe di Berlusconi, convinto che una donna fosse già stata presidente: Gronchi Rosa).
Negli incontri preparatori tra i due schieramenti si era molto parlato del metodo Saragat (una variante del metodo champenois che fece salire al Colle, per fermentazione, l'indimenticabile statista, detto anche "il senatore a vite"). Alla fine si è deciso di procedere con il metodo tradizionale, che consiste nel telefonare a oltranza, giorno e notte, a una ristretta rosa di persone anziane, sperando che almeno una senta la suoneria e risponda. Così è accaduto per Giorgio Napolitano.
La cui biografia politica, comunque, mette al riparo il Paese da ogni sorpresa.
Chiariamo una volta per tutte, intanto, il famoso gossip che lo vorrebbe figlio naturale di Umberto di Savoia. È falso: dei due, Napolitano è il padre. Figura storica del movimento operaio, fondò giovanissimo la corrente Attendista, che si proponeva l'instaurazione del socialismo per esaurimento naturale del capitalismo, al massimo in una decina di secoli. Fu tra gli oppositori della Comune di Parigi, da lui ritenuta un obiettivo troppo ambizioso, e prematuro per i tempi. In alternativa, propose la Comune di Mentone, per le dimensioni ridotte e il clima mite della cittadina rivierasca.
Pur essendo di carattere molto riflessivo, gli storici gli attribuiscono non pochi colpi di testa. Come quando, durante una sparatoria della polizia di Scelba contro un corteo operaio, avvicinò un vicequestore apostrofandolo duramente con una frase rimasta celebre: "Per cortesia, signore, sia così savio da sollecitare i suoi uomini a non aprire il fuoco su persone inermi, in modo da non mettere a repentaglio l'incolumità fisica di innumerevoli cittadini italiani il cui solo torto è prendere parte a una manifestazione pubblica autorizzata, come certifica il fascicolo che ho qui sottobraccio e che ora sottoporrò alla sua attenzione". Morirono 19 persone. Prudente, rispettoso degli avversari, molto attento alle forme, Napolitano non ha mai alzato la voce, nemmeno quando, durante una storica seduta della segreteria del Pci, rimase bloccato in ascensore per due giorni, silenzioso e paziente. Al congresso di Livorno del 1921, quando nacque il Pci, Napolitano era contrario alla scissione dai socialisti. Non solo: era l'unico che propugnasse, al contrario della scissione, l'allargamento della sinistra a tutto il resto del Paese, dal Rotary al Vaticano, dalla Juventus al Club Alpino.
Tessitore instancabile di rapporti politici cordiali e collaborativi, conquista i suoi interlocutori per sfinimento. Celebri alcuni episodi. Pur di levarselo di torno, il capo dei terroristi altoatesini, snidato da Napolitano in una malga della Val Passiria, giurò fedeltà a Roma e scese a valle per consegnarsi ai carabinieri. Durante la Resistenza, contrario agli attentati contro i nazifascisti perché il rumore assordante disturbava gli abitanti del quartiere, praticò una strategia alternativa: avvicinava i militari tedeschi per la strada e faceva 'bum' con la bocca, fuggendo poi velocissimo benché già anziano.
Fu tra gli oppositori più convinti delle invasioni di Ungheria e Cecoslovacchia: in entrambe le occasioni mandò al 'l'Unità' lo stesso, storico editoriale, intitolato 'Invadere un paese straniero è pura maleducazione'. Saputo della sua candidatura al Quirinale, Napolitano ha fatto sapere ai suoi sponsor che la dizione "corsa al Colle" gli pareva eccessiva, e poco consona alla dignità istituzionale dei candidati. Ha proposto di sostituirla con "lenta ma sicura camminata di avvicinamento al Colle". Secondo gli analisti, un'eventuale presidenza Napolitano avrebbe un'unica possibile controindicazione: che egli stesso si addormenti mentre pronuncia il discorso di fine anno.

Maramotti 14 Mag

Andrea's version su Letta alla FIGC

Dunque Prodi ha proposto Gianni Letta come commissario della Federazione italiana gioco calcio. Noi nei suoi panni accetteremmo. Vero, non è il Quirinale, non sarebbe la famosa istituzione condivisa, però è lo sport più amato dagli italiani e bussano i mondiali.
Mica si poteva pretendere che Prodi lo proponesse all’Amor nostro. Uomo di parte e di partito, reduce da una campagna lacerante, concausa della divisione del paese, sai il quarantotto che avrebbero piantato i Rutelli e i Casini. Mentre il dottor Letta è perfetto. Universalmente stimato, emblema di moderazione e di pazienza, rispettoso dell’avversario, non avrebbe neanche bisogno di restituire la tessera di Forza Italia.
E avrebbe davanti a sé l’occasione irripetibile di riunificare la Nazione, superando le perplessità riottose di quel popolo progressista che mai le potrebbe superare se il nome (che Dio non lo volesse) fosse stato quello di Berlusconi il terribile. Ci vada, dottor Letta, ci vada. Accetti la piega dei tempi, prenda per mano la nostra Nazionale, la guidi nel difficile frangente, la rilanci e mostri a tutti cosa è capace di fare il nostro volpino azzurro in campo azzurro.

La questione comunista

Barbara Spinelli su La Stampa web 14 Mag

Si può capire il sollievo di Massimo Cacciari, il filosofo-sindaco che viene dall’esperienza del Pci: con la salita di Giorgio Napolitano al Quirinale la questione comunista viene superata, la storia del '900 si chiude: «Finalmente è finita!», esclama sul Corriere della Sera, dopo aver detto che anche l’anticomunismo, oggi, viene «ufficialmente sepolto». In realtà nulla si chiude nella storia, perché come raccolta di azioni e pensiero essa semplicemente c’è, è il duro pavimento cui aderisce l'anima dell'individuo, delle formazioni politiche, delle nazioni. L’idea che la storia cominci e finisca è una mitologica invenzione, che con il fluire delle azioni e la forza delle personalità ha poco a che vedere. È un'idea comparsa tardi, e legata al particolarissimo aspetto che la storia assume quando in essa si cerca una provvidenza, un senso fatale, un percorso diritto che va verso precisi e impersonali obiettivi.

Anche per il comunismo europeo e italiano le cose stanno così: è una storia che ogni cittadino ha alle spalle, per averla fatta o subita, e che nessuno può inumare con volitivi atti unilaterali. Tanto meno può esser inumato il vissuto che di tale storia è stato il controcanto: così come nessuno può seppellire l'antifascismo e l'antinazismo, nessuno può seppellire - tanto meno ufficialmente - l’anticomunismo di Silone e Nicola Chiaromonte, di Koestler o Solzenicyn. La loro testimonianza resta come qualcosa di vivo, utile per il presente e il futuro. Lo stesso Napolitano dice, nella sua limpida autobiografia, che è un argomento comodo quello secondo cui non ci sarebbe bisogno di «rivangare il passato», perché comunismo e fascismo sarebbero «già stati condannati dalla storia»: «Il passato non può esser rimosso, se si vuole che risultino comprensibili l'evoluzione e la trasformazione attraverso cui siamo passati, e credibile l'approdo cui siamo giunti» (Dal Pci al socialismo Europeo, Laterza 2005, p. 329.) Chi non voglia rimuovere il passato guarderà all'elezione di Napolitano con orgoglio giustificato, ma senza l'ansia di chiudere il Novecento e i suoi lasciti inquieti, di sotterrare non solo il proprio passato ma anche quello dei non comunisti o anticomunisti. L’impazienza del chiudere genera equivoci, balbuzie nel pensiero, come sovente accade quando d’un colpo le azioni di ieri son rimosse e la parola fine cade dall'alto. Genera equivoci sulla narrazione di sé e degli altri, su quel che è successo ieri e che potrà succedere domani, sulla storia che Napolitano-Presidente legittima o non legittima. In fondo, solo il domani potrà dire se il presente fu invaso dal vissuto fino a esserne prigioniero. Se invece ci si può emancipare del passato scoprendo che era interamente nelle nostre mani viverlo in un modo o un altro, come necessità fatale o come difficile libertà. A partire dal momento in cui s'abbandona la via di Sartre - L'inferno sono gli altri, dice un protagonista di «A Porte Chiuse» - la storia diventa quello che è: un insieme chiassoso di possibilità, messe davanti al libero arbitrio di ciascuno.
Questa consapevolezza non sempre è presente nelle parole pronunciate negli ultimi giorni. Dice ad esempio Piero Fassino sull'Unità dell'11 maggio che l'elezione al Quirinale «riconosce il valore, l'autorevolezza, il rigore e il coraggio politico di Napolitano. Ma riconosce anche la storia del principale partito della sinistra italiana e di quel movimento di cui Giorgio è stato dirigente autorevolissimo. Si può dire che è stata definitivamente superata ogni forma di preclusione e di pregiudizio politico». In realtà non è la storia complessiva del partito ad esser riconosciuta, ma la storia di quello che è stato un filo sottilissimo nella sua matassa: un filo tendenzialmente liberale in economia, desideroso di far propria l'esperienza socialdemocratica, che Napolitano lungo gli anni ha incarnato. La storia non sarebbe quella che è se il partito l'avesse guidato Napolitano invece di Berlinguer, se i dirigenti che oggi rappresentano i Ds fossero figli del suo riformismo anziché di Berlinguer. Se i Ds avessero dato ragione a Bobbio anziché a Togliatti, nei primi anni 50, quando Bobbio invitò il Pci a smettere la contrapposizione fra libertà borghesi e libertà socialiste. Se avessero dato ragione a Antonio Giolitti piuttosto che al partito, nel ‘56 in occasione dell'insurrezione ungherese. Colpisce che la prima visita di Napolitano sia stata proprio a Giolitti, ieri, quasi che a quest’ultimo venisse resa storicamente ragione.
Se il partito nato dal Pci facesse davvero tutt'uno con Napolitano, se avesse fatto una scelta governativa fin dal ‘93, quando Ciampi incluse nel proprio governo tre ministri Pds e subito li perse per strada, non esisterebbe l'anomalia di una formazione che pur essendo la più forte nel centrosinistra (e l'erede del comunismo meno dogmatico in Europa) non può presentare un proprio candidato alla guida dell'Italia. Un'anomalia che visibilmente pesa ancora nelle menti dei Ds, che li angustia segretamente, che spiega la loro riluttanza a sciogliersi in un partito più vasto come proposto da Arturo Parisi fin dal 2000. È quest'anomalia che converrebbe oggi pensare con profondità, anziché dichiararla sepolta grazie all'evento esterno rappresentato dalla nomina di Napolitano. Chi la seppellisce in tal modo sembra infatti dire una cosa precisa: che l'anomalia fu ed è senza fondamento alcuno, che di conseguenza siamo di fronte a una sorta di riparazione storica se non di rivincita. Che l'anomalia è frutto di una lunghissima assurda conventio ad excludendum, che impedì al principale partito della sinistra di partecipare con funzioni di governo alla cosa pubblica. Questa conventio va oggi rimeditata, altrimenti genererà (e non solo nei Ds, ma per contagio nell'insieme dei coalizzati) il risentimento di chi accampa per il proprio partito diritti di risarcimento e riparazioni, e non concentra tutti gli sforzi sulla creazione di un riformismo forte, condiviso tra formazioni diverse, deciso ad affermarsi nell'azione del governare e non nella lotta per esaltare il potere di questo o quel partito, questa o quella corrente, questo o quel capo-delegazione nel governo.
Nei fatti la conventio ad excludendum non fu una violenta preclusione verso il Pci. A differenza della Germania, dove comunismo e fascismo furono messi fuori legge con un atto di forza, l'Italia ebbe il coraggio dopo la guerra di tenere aperte le porte, sia pure severamente. Stava ai Ds di varcare quella soglia o non varcarla. Forlani nel 1997 disse una cosa interessante: «Non posso dire che non ci fosse la possibilità di un'alternativa e di un'alternanza. La conventio ad excludendum di cui si è tanto parlato in realtà non c'era. Se nella competizione tra le grandi forze politiche (...) fosse prevalsa elettoralmente la componente di sinistra, guidata ed egemonizzata dal Partito comunista, credo personalmente che avremmo avuto in Italia reazioni e contrasti, ma il Partito comunista sarebbe andato al potere».
La conventio fu dunque ad auto-excludendum, non ad excludendum. Fu il Pci a non voler prendere le distanze dall'Urss, a non scoprire l'importanza del governare, a non conciliarsi con l'economia di mercato, a rifiutare la via riformista della socialdemocrazia e per molto tempo dell'europeismo. E non convince quel che dice lo storico Piero Melograni, secondo cui l'elezione di Napolitano è il «coronamento» di una politica - di Togliatti, Amendola, Terracini, - «necessariamente contrassegnata da doppiezze» e costrizioni (Il Riformista, 11 maggio, il corsivo è mio). Non convince quando constata che se oggi grazie a Napolitano quelle doppiezze son superate, «anche le scelte compiute anni or sono da Togliatti, Amendola, Terracini e alcuni altri insieme con loro, potranno dirsi storicamente giustificate».
Che le cose stiano così lo conferma Napolitano stesso, nell'autobiografia. Quando ricorda l'intervista di Berlinguer a Eugenio Scalfari (28 luglio '81), e l'accento messo sulla diversità del Pci e le preclusioni che lo colpivano. È vero che la discriminazione andava denunciata, scrive il nuovo capo dello Stato: «Ma si poteva sbloccarlo attraverso la rivendicazione di una funzione di guida da parte di quel partito e la delegittimazione di tutte le altre forze politiche?». O quando denuncia il «difetto di fondo» del comunismo italiano, e cioè l'incapacità di divenire partito di governo e di capire le ragioni della preclusione: «Naturalmente era facile denunciare come causa della "democrazia bloccata" il permanere di una conventio ad excludendum nei confronti del Pci. Ma per quanto si potesse bollare questa preclusione come arbitraria, (...) sarebbe stato ormai necessario riconoscerne il fondamento nel persistente ancoraggio (...) al campo ideologico e internazionale guidato dall'Unione Sovietica» (p. 119). La conventio aveva un suo fondamento, il Pci ne era protagonista attivo e non già vittima passiva: questa la verità per cui Napolitano si è battuto fino alle estreme conseguenze e su un ben difficile terreno (fino alle estreme conseguenze del ragionare critico e però restando nel partito; dedicando un'intera esistenza a questo vivere sull'orlo). Il Pci non era vittima neppure della Guerra fredda, che radicalizzò la diffidenza verso i comunismi occidentali e che aveva, anch'essa, una sua legittima ragion d'essere. Ripensare la conventio ad excludendum vuol dire capire il pavimento che abbiamo sotto i piedi - la cronaca del mondo su cui poggia il nostro presente - e costruire con coerenza su una storia che mescola necessità e libertà, costrizioni e responsabilità. Vuol dire mettersi nelle condizioni di chi vive al bivio, e di fronte a sé vede più strade percorribili.
La prima strada consiste nel continuare a pensare nel proprio intimo che quasi sempre l'inferno sono e furono gli altri. L'atteggiamento che i Ds hanno avuto in queste settimane verso Giuliano Amato, la maniera in cui lo hanno usato per anni come compagno e gran garante della svolta riformista, gli hanno chiesto di divenire vicepresidente dei socialisti europei, per poi guardarlo come un estraneo e mollarlo, non è solo un gesto grandemente inelegante. È un arroccamento grave, poco promettente. Chi nei Ds s'è lasciato sfuggire che «Amato non è dei nostri» ha parlato, non si sa quanto consapevolmente, il vecchio linguaggio del legame consanguineo, esoterico, che regna all'interno del partito eletto, portatore del senso della storia e del suo finalismo.
La seconda strada è la scelta di riprendere l'idea di Parisi, di costruire un partito diverso, che dal passato sia libero e non meramente liberato. Non la contrizione è richiesta, non l'oblio triste di sé né il sacrificio di quel che ieri fu nobile. La via è quella che consiglia la costruzione di un soggetto nuovo che abbia gruppi dirigenti veramente ibridati, non fatti da consanguinei ma da affinità elettive edificate su comuni volontà riformiste. La via è quella di chi non divide più, nella sinistra, tra chi è dei nostri e chi ha lo sciagurato destino di non esserlo, per legame di sangue e interiore vocazione.

In difesa del dalemismo puro

Stefano Menichini su Europa 14 Mag

Chissà se è vero, come scrive Fabrizio Rondolino sulla Stampa, che D’Alema non ha mai perso di vista la legge secondo la quale in politica occorre allearsi coi forti per limitare l’interdizione dei deboli. Fosse così, una fatale distrazione avrebbe indotto il presidente dei Ds a incamminarsi per il Quirinale affiancato da Giuliano Ferrara e Oliviero Diliberto: ottime persone ma, come s’è visto, dotate di forze insufficienti all’ardua missione. Un po’ come affidare ad arditi giovanotti il compito di riformare il capitalismo in Italia.

Entrando nella legislatura che darà i natali al Partito democratico, è doveroso considerare tutte le ipotesi di assetto che vengono proposte. Compresa appunto quella – come si dice? informata – dell’ex portavoce dalemiano poi transitato alla fiction scritta e televisiva e al reality adulterato.
Tornando al suo mestiere di analista politico dopo queste esperienze, Rondolino conserva intatta anzi accresciuta la preziosa dote della fantasia. E, non essendosi fatto traviare dalla poco togliattiana adesione alla Rosa nel pugno, rinnova l’antica fascinazione verso i patti di acciaio e gli uomini al timone.
Il nuovo esordio battezza dunque «l’asse Prodi- D’Alema», puer forte e malizioso destinato a lasciare il segno sulla legislatura e a condurre fin dagli inizi governo e Partito democratico. Sarà davvero così? Non è secondario saperlo. Tra l’altro, si risolverebbe così l’assillo che ciclicamente tiene ipnotizzate le migliori menti del giornalismo politico: che cosa farà Massimo D’Alema? È nota la vulgata secondo la quale la politica italiana sia in questa stagione riassumibile nella titanica lotta tra i due presidenti dei Ds e dei Dl. Nel qual caso Europa sarebbe da considerarsi giornale altamente sospetto di faziosità.
Scaricando da ogni responsabilità la Margherita (partito a discreto tasso di simpatia dalemiana, fino a ieri) e sfruttando anglismi come pedigree e know how – li abbiamo entrambi – garantiamo che l’assillo, qui, più che la sconfitta del dalemismo è la sua tutela dall’estinzione. Addirittura, il suo rilancio, in una versione meno caricaturale di quella paleo-craxiana che viene affidata agli spin doctor e ai porta parola.
I rischi di estinzione in verità sono bassi, però ci sono, come si scorge nelle pieghe di uno scontro correntizio che – almeno fino all’ultimissimo confronto tra presidente e segretario – vedeva il dalemismo arretrare dovunque, nei Ds e fuori. A proposito di quella famosa esaltazione della forza, sempre di più in realtà essa si affida all’immaterialità del carisma e dell’acume intellettuale, che D’Alema ha più di altri, ma che non gli evitano di perdere la decisiva Puglia nelle elezioni né di contare sulle dita di due mani gli eletti di riferimento in parlamento.
Viceversa, di dalemismo concreto ci sarebbe gran bisogno. Dovrebbe permeare molto di più il partito di cui D’Alema è presidente e quello nuovo che vorrà co-fondare, magari riportandolo sulle posizioni dello scontro con il conservatorismo sindacale di soli sette anni fa (oggi su quella linea troviamo, malizia della storia, Walter Veltroni). E dovrebbe imprimere una svolta alla politica estera italiana e della sinistra, grazie a quell’atlantismo che per D’Alema premier fu insieme convinzione politica e momento di maturazione esistenziale (pazienza per i supporters Diliberto e manifesto).Noi puntiamo assai su questo dalemismo di ritorno, più che credere a inediti assi d’acciaio e d’equilibrio con Prodi. Quanto alle vicepresidenze del consiglio, esse sono – come giustamente scrive l’ispirato Rondolino – «medagliette ». Con la vetrina di trofei che può esibire, abbiamo immaginato che D’Alema le avrebbe lasciate agli altri, non avendone alcun bisogno. O no? Dicono di no. Forse no.

E adesso serve un governo che sappia governare

Eugenio Scalfari su Repubblica.it 14 Mag

I Presidenti passano, la Repubblica resta. Ma c'è presidente e presidente anche perché quello previsto dalla nostra Costituzione è una figura a parte rispetto agli altri Paesi fondatori della Comunità europea. Altrove infatti il capo dello Stato è una figura esclusivamente rappresentativa. Non ha alcun potere effettivo se non quello di presenziare e registrare con la sua presenza gli accadimenti pubblici di rilievo. Le firme che appone in calce ai documenti di Stato sono "dovute", punto e basta.
Fa eccezione la Costituzione gollista tuttora in vigore in Francia, dove il capo dello Stato ha prerogative "presidenziali" e dispone direttamente del governo tutte le volte in cui la maggioranza parlamentare sia dello stesso colore di quella presidenziale. Quando ciò non avviene c'è coabitazione tra governo e presidenza della Repubblica alla quale restano comunque le attribuzioni riguardanti la politica estera e quella della Difesa.
Il caso italiano è intermedio tra quello francese e i capi di Stato puramente e rigorosamente notarili degli altri Paesi europei. Il nostro infatti non ha alcun potere diretto ed esclusivo (salvo la grazia, la nomina dei senatori a vita e quella d'una quota dei componenti della Corte Costituzionale). Infatti non ha responsabilità politica. Ma detiene tuttavia alcuni poteri "indiretti" che esercita in vario modo: può rinviare leggi ad un secondo esame parlamentare, può negare la firma su decreti-legge, coordina i vari organi costituzionali, presiede il Consiglio della magistratura e quello di Difesa, garantisce il rispetto della Costituzione.
Si tratta dunque d'una figura complessa, le cui attribuzioni consentono un'interpretazione e quindi una notevole dose di discrezionalità. Per questo diciamo che c'è presidente e presidente. C'è stato chi ha schiacciato di più un pedale invece d'un altro, chi più si è attenuto al modello notarile e chi ha accentuato quello presidenzialista entro i limiti che la Costituzione consente.
A giudizio di gran parte della pubblica opinione, il presidente che meglio si è tenuto nel giusto mezzo di queste diverse interpretazioni costituzionali è stato Ciampi. Proprio per questo ha riscosso per tutto il suo settennato un indice di popolarità che ha sfiorato l'unanimità e che ha fatto dire a molti che la pretesa spaccatura dell'Italia in due è una fandonia. Purtroppo le cose non stanno esattamente così e la spaccatura esiste ed è profonda. Ma c'è un minimo comune denominatore, rappresentato appunto dalla presidenza Ciampi e dal modello che egli lascia ai suoi successori.
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Nei giorni scorsi i giornali - e il nostro in particolare - hanno ricevuto numerose richieste da parte dei lettori di un giudizio sul nuovo presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. I giornali interagiscono con il loro pubblico, ne sono la voce, lo influenzano e ne sono influenzati.
È perciò normale che di fronte ad eventi di speciale importanza quel dialogo si ravvivi e sbocchi in un giudizio di merito. Ebbene, non dico nulla che già non sia noto: noi riteniamo ottima la scelta del nuovo capo dello Stato. Per molte ragioni. Anzitutto per la sua integrità morale e intellettuale. Poi perché, essendo stato dirigente di alto rango del Partito comunista, la sua presenza al Quirinale fa cadere definitivamente quella "conventio ad excludendum" degli epigoni del Pci dall'esercizio di funzioni pubbliche che ancora si annida in alcuni settori della politica italiana senza più alcuna ragione di esserci e certifica l'avvento d'una democrazia compiuta che almeno dal 1989 è stato uno degli obiettivi di chi ha a cuore il consolidamento delle nostre istituzioni.
Infine - e questa è per noi la motivazione principale del nostro giudizio - perché Giorgio Napolitano, per carattere, biografia politica e cultura, è il più vicino al modello Ciampi e alla sua interpretazione del ruolo presidenziale. Non sarà certo una copia del suo predecessore ma ne adotterà la misura, l'equilibrio e la vocazione a mantenere quella funzione al di sopra delle parti avendo di mira esclusivamente il pubblico interesse, l'ordinato esercizio del governo e dell'opposizione, lo stato di diritto e la forza viva e dinamica del dettato costituzionale. E perciò, con una frase che in questo caso non è rituale né retorica, diciamo "viva il presidente della Repubblica", garante di tutti al di sopra dello spirito di fazione.
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Resta ora il problema del governo. Problema cruciale poiché l'eredità che la passata legislatura lascia a quella testé iniziata è molto pesante e richiede cure urgenti e per certi aspetti contraddittorie nel settore dell'economia, del mercato del lavoro e nel delicatissimo campo delle comunicazioni. Prodi, a quanto si sa, sta risolvendo la composizione della lista dei ministri. Alcuni punti sono già acquisiti: ci sarà Padoa Schioppa all'Economia e D'Alema agli Esteri. È probabile ed auspicabile che le Finanze, accorpate all'Economia, siano affidate a persona di alta competenza e con la necessaria autonomia operativa: si tratta infatti di implementare le entrate dello Stato per far fronte alla necessità di rilanciare la crescita e al tempo stesso di raddrizzare il deficit e invertire la tendenza all'aumento del debito pubblico. Il lascito del precedente governo è molto negativo come appare dalle più recenti cifre fornite dalla Commissione di Bruxelles e dal Fondo monetario internazionale. La spesa corrente è passata dal 2001 al 2006 da una percentuale di 37,6 in rapporto al Pil al 40,5 con un aumento di 3 punti di Pil: aumento pesantissimo che va sicuramente bloccato e possibilmente ricondotto indietro.
Contemporaneamente l'avanzo primario al netto degli interessi sul debito è crollato nello stesso periodo dal 3,2 a meno 0,5. Le spese in conto capitali, cioè il complesso degli investimenti pubblici, è rimasto fermo nel quinquennio al 4,2 e questa è la prova più eloquente del mancato rilancio degli investimenti nelle infrastrutture ordinarie e straordinarie. Nel contempo il rapporto deficit/Pil, che misura il rispetto del patto europeo di stabilità, si è collocato nel 2005 al 4,1 e minaccia di arrivare - a parità di legislazione - al 4,5 nell'anno in corso. Alcune fonti non ufficiali ma molto attendibili prevedono che tale rapporto arriverà addirittura a superare il 5 per cento, livello estremamente elevato e tale da provocare interventi drastici da parte delle autorità europee.
Il leggero miglioramento congiunturale che si è registrato nel primo trimestre di quest'anno è indubbiamente un segnale positivo ma ancora labile e comunque insufficiente a far fronte al pesantissimo fardello finanziario ereditato dal precedente governo e alle esigenze urgenti di rilanciare la crescita e la competitività del sistema.
Da quest'ultimo punto di vista è noto che la parte imprenditoriale raccomanda che la legge Biagi non venga abolita, per dire che non si regredisca dalla flessibilità alla rigidità del mercato del lavoro. La polemica che alcuni giornali stanno montando su questo punto sembra però del tutto impropria. Prodi ha detto chiaramente e più volte ha ripetuto che la flessibilità di accesso al lavoro non verrà revocata. La lotta al precariato comincerà solo dopo i primi due anni di flessibilità e si baserà su una manovra graduale di incentivi e disincentivi per favorire lo sbocco verso contratti a tempo indeterminato che sono nell'interesse di tutti. In più bisognerà varare un sistema di ammortizzatori sociali che il libro bianco di Biagi presupponeva e che lo stesso governo Berlusconi aveva pattuito con Cisl e Uil nel cosiddetto patto Italia, ma che non fu mai attuato.
Dov'è dunque il problema? Questa è la politica del lavoro programmata dall'Unione e dal governo Prodi. Non l'abolizione della legge Biagi ma il suo completamento necessario e già previsto nel libro bianco del suo ispiratore. In più la semplificazione di alcune forme contrattuali che l'esperienza ha rivelato inutili o dannose.
Questo complesso di problemi che definire drammatico è dir poco, comporta un governo forte e coeso e una coalizione che guardi all'essenziale e lo persegua con limpida tenacia. Non c'è posto per rivalità di cortile e per visibilità di pura apparenza partitocratica. Da questo punto di vista Prodi ha una grande responsabilità. Gli strumenti per farsi valere non gli mancano, a cominciare dal dettato costituzionale che vede nel presidente del Consiglio la sola fonte di proposta dei ministri. Ma al di là dei poteri esclusivi che la Costituzione gli riconosce nella composizione del governo, milita a suo favore la drammaticità della situazione economica e l'urgenza di porvi riparo.
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Mi sembra soltanto giusto ricordare qui, in calce a questa nota, il contributo di saggezza politica offerto alla coalizione di maggioranza da Piero Fassino. Intanto per essere stato soprattutto lui a costruire la candidatura vincente di Giorgio Napolitano. Poi per la decisione dell'altro ieri, di restar fuori dal governo per occuparsi del partito e della costruzione, insieme al gruppo dirigente della Margherita, del futuro partito democratico.
Su questa prospettiva incombono molte perplessità e talune opposizioni. Se esse avessero il sopravvento lo sbocco unitario delle varie anime del riformismo verrebbe bloccato con grave danno per tutta la sinistra italiana. La decisione di Fassino di privilegiare quell'obiettivo lasciando ad altri le responsabilità di governo merita dunque di essere apprezzata. Così pure la presenza di D'Alema nel ministero a conclusione di una vicenda che può avergli causato qualche amarezza ma che si è conclusa comunque nel modo migliore per il paese. Chi concepisce la politica come pubblico servizio dovrebbe sentirsi appagato da questa consapevolezza ed è ciò che alla fine ci sembra essere avvenuto.
Mentre scrivo queste righe non so se Giuliano Amato accetterà l'offerta di far parte del ministero in una posizione di adeguato rilievo. Ci auguriamo che la sua presenza non manchi. Amato è stato ed è un talento politico che accoppia moralità e competenza, autorevolezza e dedizione al pubblico interesse. Ne ha dato molte volte la prova nel corso degli anni. Mai come oggi quelle qualità servono e vanno utilizzate.

Tangentopoli e "Piedi puliti"

Giuseppe D'Avanzo su Repubblica.it 14 Mag

Viene da chiedersi se davvero possiamo dire di aver capito che cosa sta accadendo con l'italianissima storia del "calcio truccato". Che crolla, come sempre accade, perché il livello della corruzione ha superato la soglia di massima tollerabilità e non garantisce più alcun beneficio agli attori, anche se vincenti. Il giocattolo si è così finalmente rotto. Era da tempo soltanto un autoinganno. I tifosi non credevano più ai risultati delle partite. Il mercato sapeva che i valori di una società di calcio quotata in Borsa erano contraffatti. Come ingannevoli erano l'antidoping, le compravendite, i contratti, le retribuzioni, i profitti.
Il football nazionale era una gigantesca giostra del contraffatto con un solo merito: era trasparente come acqua di fonte. Da tempo, non c'era nulla di occulto in questa finzione. Tutti sapevano tutto. Si sapeva chi erano i giocatori capaci di vendere una partita; gli arbitri che sanno addomesticarla; i medici che non disprezzano il dopaggio; i dirigenti che possono influenzare una stagione intera e quelli che possono manipolare una società o un giocatore o un arbitro o soltanto un guardalinee; quale presidente avrebbe dovuto portare i libri contabili in tribunale perché clamorosamente fallito. La trasparenza, che dovrebbe essere la fragilità di un sistema opaco, è stata al contrario una forza perché (come è chiaro nelle intercettazioni) ha obbligato chiunque incrociasse gli affari di calcio a farsene complice, protettore, corresponsabile. Anche soltanto con il silenzio. Per evitare la distruzione del giocattolo, si sono però nel tempo compromessi mercato mobiliare, diritto societario, sistema bancario, medicina sportiva, ordine pubblico, autorità di controllo pubblica o privata e forse la testa dei più giovani. Di certo, ogni principio di legalità. Eppure, se si ascolta in giro, si può avere la sensazione di trovarsi soltanto alla prese con i maneggi di una combriccola di lestofanti.
Con qualche minaccia, molte manovre truffaldine, confidando nell'avidità di alcuni e nella pavidità di altri, la ghenga mette le mani sulle leve della giostra che abbaglia 35 milioni di italiani che scoprono improvvisamente di essere stati davvero raggirati come polli.

È questa la materia venefica? Tutta qui, la muffa del sistema? Sembra crederlo anche Romano Prodi. Con una lettura avventurosa del garbuglio, il nuovo capo del governo chiede che Gianni Letta diventi il commissario straordinario della Federazione Calcio. Ragiona Prodi: "C'è un problema di regole, di senso di credibilità da recuperare. Gianni Letta ha conoscenza dello sport, delle regole della politica e della società". Cade l'umore. Letta è il braccio destro di Berlusconi, presidente onorario del Milan calcio. Avrebbe potuto anche esserlo di Moratti (Inter), Della Valle (Fiorentina), Franzo Grande Stevens (Juve), il discorso non sarebbe mutato di una virgola. La questione non è nei nomi dei protagonisti. È nel metodo e nella "cultura". Letta, in un conflitto di interessi evidente, sarebbe dovuto diventare "controllore": proprio lui, il miglior uomo di uno dei "controllati".
Finanche Prodi sembra non vedere allora la sostanza della questione che, in "Piedi puliti" (o come si chiamerà questa catastrofe), è l'assenza della competizione, quindi della concorrenza, in un mercato fasullo come un assegno a vuoto. Se l'Italia di Tangentopoli era un gigantesco cartello e "il metodo di lavoro" di un capitalismo senza mercato, l'Italia pedatoria di Moggi ha gli stessi sintomi patologici: drastici vincoli alla "concorrenza", controllo "politico", indebolimento dei meccanismi di autoregolamentazione e delle istituzioni di vigilanza.
Le malefatte di Moggi e compari ci sbattono in faccia quanto "ai livelli più infimi il tempo non passa mai". Nonostante gli anni trascorsi, le patologie del sistema e della nostra democrazia sono ancora tutte lì squadernate: insofferenza alle regole, diritto e diritti strappati, mancanza di senso dello Stato, patti oscuri tra capitalismo e governi, intreccio tra affarismo e politica, un'imprenditoria senza cultura del mercato e priva di un'etica della responsabilità, se si tiene a mente che a vario titolo sulla giostra si muovono alcuni tra i maggiori gruppi industriali del Paese (Fiat, Mediaset, Telecom, Tod's, Saras, Erg). E infine - ragione delle ragioni - il conflitto d'interessi. Un costume sociale. Una metastasi che penetra e lacera e distrugge il tessuto economico, politico, istituzionale. Finalmente (forse) si può e si deve raccontare così la parabola del "calcio truccato".
Il conflitto di interessi che cosa è, infatti, se non "un forte squilibrio a favore di uno degli attori"? Non è altro il mestiere di Moggi. È la "sapienza" d'uso di pratiche informali o illegali, fuori da ogni norma, regola o prassi capaci di creare - con il controllo degli arbitri e di alcune società più deboli, con l'acquiescenza della Federazione e della Lega, con la complicità dei giocatori e dei loro procuratori, in assenza della vigilanza di istituzioni e authorities - la prevalenza degli interessi di un ristretto pugno di club. La conseguenza di questa situazione, come in tutti i conflitti di interesse, è la sopraffazione. È quella prepotenza che "si manifesta in qualsiasi rapporto contrattuale, dai più elementari ai più complessi, ogni volta che uno dei due contraenti tratta da una eccessiva posizione di forza, e ne approfitta per imporre la sua volontà all'altro, oppure quando possiede molte più informazioni sull'oggetto della trattativa ed è in grado di nasconderle". (Guido Rossi, Il conflitto epidemico).
Ecco che cosa è accaduto al football italiano. Ecco il "miracolo" realizzato, nell'ammirazione generale, da Luciano Moggi. Il meccanismo perverso ha "istituzionalizzato" nel calcio, come già è "istituzionalizzato" nel sistema economico e finanziario, la disparità, distrutto il gioco (il mercato), intaccato non l'attività di qualche protagonista, ma di tutti gli attori. Come in un'epidemia, appunto. Volendo curare la malattia con il morbo che l'ha prodotta (i conflitti di interessi con un altro conflitto di interessi), Prodi sottovaluta la dimensione economica del calcio, "specchio" anche identitario per milioni di italiani, forse addirittura terapia omeopatica perché "desideri violenti, sfogati ritualmente, consolidano il tessuto comunitario". In più, il premier pare non interrogarsi (o ancora sottovalutare) quel laboratorio di patologie che è l'Italia. Restituire trasparenza al "gioco" e al suo sistema economico, ricostruire il rispetto di corretti principi di concorrenza "non è solo doveroso per la protezione delle parti e degli investitori, ma diventa anche questione di equità sportiva, beneficio per i "consumatori" di calcio perché successo economico e risultati sportivi vanno spesso di pari passo" (Mario Monti, quando era commissario europeo alla concorrenza). Come farlo? Senza un altro conflitto d'interessi senza dubbio, ma come e con che cosa? Quale che sia la risposta, la si potrà trovare soltanto se non si commettono gli errori del passato, se non ci si lascia prendere prigionieri da quel "revisionismo" che ha liquidato Tangentopoli come "rivoluzione politica" di "toghe rosse".
Una grossolana falsità che, riscrivendo la storia, ha legittimato una politica, non ha prodotto anticorpi, non ha ricostruito un sistema di regole la cui regressione, ancora oggi, secerne illegalismo e opacità producendo danni irreversibili (lo scandalo calcistico ne é una testimonianza). Dovrebbe essere un'analisi condivisa perché ovvia. Al contrario, oggi come allora, si odono le consuete litanie farfalline come se "la dipendenza dal sentiero tracciato", più che una maledizione, fosse un destino. Codici etici, autoregolamentazione, autoriforma, si dice. Li hanno promessi anche la politica e il capitalismo quattordici anni fa. Con quali esiti, abbiamo visto. In campo, oggi come allora, si vede al lavoro soltanto la mano - per definizione, cruenta e in qualche caso ingiusta - di una magistratura alle prese con il compito supplente e improprio di proteggere la moralità pubblica. Davvero, ancora una volta, qualcuno pensa di andare verso il futuro con la testa girata all'indietro?
(continua)