14 maggio, 2006

La questione comunista

Barbara Spinelli su La Stampa web 14 Mag

Si può capire il sollievo di Massimo Cacciari, il filosofo-sindaco che viene dall’esperienza del Pci: con la salita di Giorgio Napolitano al Quirinale la questione comunista viene superata, la storia del '900 si chiude: «Finalmente è finita!», esclama sul Corriere della Sera, dopo aver detto che anche l’anticomunismo, oggi, viene «ufficialmente sepolto». In realtà nulla si chiude nella storia, perché come raccolta di azioni e pensiero essa semplicemente c’è, è il duro pavimento cui aderisce l'anima dell'individuo, delle formazioni politiche, delle nazioni. L’idea che la storia cominci e finisca è una mitologica invenzione, che con il fluire delle azioni e la forza delle personalità ha poco a che vedere. È un'idea comparsa tardi, e legata al particolarissimo aspetto che la storia assume quando in essa si cerca una provvidenza, un senso fatale, un percorso diritto che va verso precisi e impersonali obiettivi.

Anche per il comunismo europeo e italiano le cose stanno così: è una storia che ogni cittadino ha alle spalle, per averla fatta o subita, e che nessuno può inumare con volitivi atti unilaterali. Tanto meno può esser inumato il vissuto che di tale storia è stato il controcanto: così come nessuno può seppellire l'antifascismo e l'antinazismo, nessuno può seppellire - tanto meno ufficialmente - l’anticomunismo di Silone e Nicola Chiaromonte, di Koestler o Solzenicyn. La loro testimonianza resta come qualcosa di vivo, utile per il presente e il futuro. Lo stesso Napolitano dice, nella sua limpida autobiografia, che è un argomento comodo quello secondo cui non ci sarebbe bisogno di «rivangare il passato», perché comunismo e fascismo sarebbero «già stati condannati dalla storia»: «Il passato non può esser rimosso, se si vuole che risultino comprensibili l'evoluzione e la trasformazione attraverso cui siamo passati, e credibile l'approdo cui siamo giunti» (Dal Pci al socialismo Europeo, Laterza 2005, p. 329.) Chi non voglia rimuovere il passato guarderà all'elezione di Napolitano con orgoglio giustificato, ma senza l'ansia di chiudere il Novecento e i suoi lasciti inquieti, di sotterrare non solo il proprio passato ma anche quello dei non comunisti o anticomunisti. L’impazienza del chiudere genera equivoci, balbuzie nel pensiero, come sovente accade quando d’un colpo le azioni di ieri son rimosse e la parola fine cade dall'alto. Genera equivoci sulla narrazione di sé e degli altri, su quel che è successo ieri e che potrà succedere domani, sulla storia che Napolitano-Presidente legittima o non legittima. In fondo, solo il domani potrà dire se il presente fu invaso dal vissuto fino a esserne prigioniero. Se invece ci si può emancipare del passato scoprendo che era interamente nelle nostre mani viverlo in un modo o un altro, come necessità fatale o come difficile libertà. A partire dal momento in cui s'abbandona la via di Sartre - L'inferno sono gli altri, dice un protagonista di «A Porte Chiuse» - la storia diventa quello che è: un insieme chiassoso di possibilità, messe davanti al libero arbitrio di ciascuno.
Questa consapevolezza non sempre è presente nelle parole pronunciate negli ultimi giorni. Dice ad esempio Piero Fassino sull'Unità dell'11 maggio che l'elezione al Quirinale «riconosce il valore, l'autorevolezza, il rigore e il coraggio politico di Napolitano. Ma riconosce anche la storia del principale partito della sinistra italiana e di quel movimento di cui Giorgio è stato dirigente autorevolissimo. Si può dire che è stata definitivamente superata ogni forma di preclusione e di pregiudizio politico». In realtà non è la storia complessiva del partito ad esser riconosciuta, ma la storia di quello che è stato un filo sottilissimo nella sua matassa: un filo tendenzialmente liberale in economia, desideroso di far propria l'esperienza socialdemocratica, che Napolitano lungo gli anni ha incarnato. La storia non sarebbe quella che è se il partito l'avesse guidato Napolitano invece di Berlinguer, se i dirigenti che oggi rappresentano i Ds fossero figli del suo riformismo anziché di Berlinguer. Se i Ds avessero dato ragione a Bobbio anziché a Togliatti, nei primi anni 50, quando Bobbio invitò il Pci a smettere la contrapposizione fra libertà borghesi e libertà socialiste. Se avessero dato ragione a Antonio Giolitti piuttosto che al partito, nel ‘56 in occasione dell'insurrezione ungherese. Colpisce che la prima visita di Napolitano sia stata proprio a Giolitti, ieri, quasi che a quest’ultimo venisse resa storicamente ragione.
Se il partito nato dal Pci facesse davvero tutt'uno con Napolitano, se avesse fatto una scelta governativa fin dal ‘93, quando Ciampi incluse nel proprio governo tre ministri Pds e subito li perse per strada, non esisterebbe l'anomalia di una formazione che pur essendo la più forte nel centrosinistra (e l'erede del comunismo meno dogmatico in Europa) non può presentare un proprio candidato alla guida dell'Italia. Un'anomalia che visibilmente pesa ancora nelle menti dei Ds, che li angustia segretamente, che spiega la loro riluttanza a sciogliersi in un partito più vasto come proposto da Arturo Parisi fin dal 2000. È quest'anomalia che converrebbe oggi pensare con profondità, anziché dichiararla sepolta grazie all'evento esterno rappresentato dalla nomina di Napolitano. Chi la seppellisce in tal modo sembra infatti dire una cosa precisa: che l'anomalia fu ed è senza fondamento alcuno, che di conseguenza siamo di fronte a una sorta di riparazione storica se non di rivincita. Che l'anomalia è frutto di una lunghissima assurda conventio ad excludendum, che impedì al principale partito della sinistra di partecipare con funzioni di governo alla cosa pubblica. Questa conventio va oggi rimeditata, altrimenti genererà (e non solo nei Ds, ma per contagio nell'insieme dei coalizzati) il risentimento di chi accampa per il proprio partito diritti di risarcimento e riparazioni, e non concentra tutti gli sforzi sulla creazione di un riformismo forte, condiviso tra formazioni diverse, deciso ad affermarsi nell'azione del governare e non nella lotta per esaltare il potere di questo o quel partito, questa o quella corrente, questo o quel capo-delegazione nel governo.
Nei fatti la conventio ad excludendum non fu una violenta preclusione verso il Pci. A differenza della Germania, dove comunismo e fascismo furono messi fuori legge con un atto di forza, l'Italia ebbe il coraggio dopo la guerra di tenere aperte le porte, sia pure severamente. Stava ai Ds di varcare quella soglia o non varcarla. Forlani nel 1997 disse una cosa interessante: «Non posso dire che non ci fosse la possibilità di un'alternativa e di un'alternanza. La conventio ad excludendum di cui si è tanto parlato in realtà non c'era. Se nella competizione tra le grandi forze politiche (...) fosse prevalsa elettoralmente la componente di sinistra, guidata ed egemonizzata dal Partito comunista, credo personalmente che avremmo avuto in Italia reazioni e contrasti, ma il Partito comunista sarebbe andato al potere».
La conventio fu dunque ad auto-excludendum, non ad excludendum. Fu il Pci a non voler prendere le distanze dall'Urss, a non scoprire l'importanza del governare, a non conciliarsi con l'economia di mercato, a rifiutare la via riformista della socialdemocrazia e per molto tempo dell'europeismo. E non convince quel che dice lo storico Piero Melograni, secondo cui l'elezione di Napolitano è il «coronamento» di una politica - di Togliatti, Amendola, Terracini, - «necessariamente contrassegnata da doppiezze» e costrizioni (Il Riformista, 11 maggio, il corsivo è mio). Non convince quando constata che se oggi grazie a Napolitano quelle doppiezze son superate, «anche le scelte compiute anni or sono da Togliatti, Amendola, Terracini e alcuni altri insieme con loro, potranno dirsi storicamente giustificate».
Che le cose stiano così lo conferma Napolitano stesso, nell'autobiografia. Quando ricorda l'intervista di Berlinguer a Eugenio Scalfari (28 luglio '81), e l'accento messo sulla diversità del Pci e le preclusioni che lo colpivano. È vero che la discriminazione andava denunciata, scrive il nuovo capo dello Stato: «Ma si poteva sbloccarlo attraverso la rivendicazione di una funzione di guida da parte di quel partito e la delegittimazione di tutte le altre forze politiche?». O quando denuncia il «difetto di fondo» del comunismo italiano, e cioè l'incapacità di divenire partito di governo e di capire le ragioni della preclusione: «Naturalmente era facile denunciare come causa della "democrazia bloccata" il permanere di una conventio ad excludendum nei confronti del Pci. Ma per quanto si potesse bollare questa preclusione come arbitraria, (...) sarebbe stato ormai necessario riconoscerne il fondamento nel persistente ancoraggio (...) al campo ideologico e internazionale guidato dall'Unione Sovietica» (p. 119). La conventio aveva un suo fondamento, il Pci ne era protagonista attivo e non già vittima passiva: questa la verità per cui Napolitano si è battuto fino alle estreme conseguenze e su un ben difficile terreno (fino alle estreme conseguenze del ragionare critico e però restando nel partito; dedicando un'intera esistenza a questo vivere sull'orlo). Il Pci non era vittima neppure della Guerra fredda, che radicalizzò la diffidenza verso i comunismi occidentali e che aveva, anch'essa, una sua legittima ragion d'essere. Ripensare la conventio ad excludendum vuol dire capire il pavimento che abbiamo sotto i piedi - la cronaca del mondo su cui poggia il nostro presente - e costruire con coerenza su una storia che mescola necessità e libertà, costrizioni e responsabilità. Vuol dire mettersi nelle condizioni di chi vive al bivio, e di fronte a sé vede più strade percorribili.
La prima strada consiste nel continuare a pensare nel proprio intimo che quasi sempre l'inferno sono e furono gli altri. L'atteggiamento che i Ds hanno avuto in queste settimane verso Giuliano Amato, la maniera in cui lo hanno usato per anni come compagno e gran garante della svolta riformista, gli hanno chiesto di divenire vicepresidente dei socialisti europei, per poi guardarlo come un estraneo e mollarlo, non è solo un gesto grandemente inelegante. È un arroccamento grave, poco promettente. Chi nei Ds s'è lasciato sfuggire che «Amato non è dei nostri» ha parlato, non si sa quanto consapevolmente, il vecchio linguaggio del legame consanguineo, esoterico, che regna all'interno del partito eletto, portatore del senso della storia e del suo finalismo.
La seconda strada è la scelta di riprendere l'idea di Parisi, di costruire un partito diverso, che dal passato sia libero e non meramente liberato. Non la contrizione è richiesta, non l'oblio triste di sé né il sacrificio di quel che ieri fu nobile. La via è quella che consiglia la costruzione di un soggetto nuovo che abbia gruppi dirigenti veramente ibridati, non fatti da consanguinei ma da affinità elettive edificate su comuni volontà riformiste. La via è quella di chi non divide più, nella sinistra, tra chi è dei nostri e chi ha lo sciagurato destino di non esserlo, per legame di sangue e interiore vocazione.