12 maggio, 2006

La vittoria dello sconfitto

Giordano Bruno Guerri su Il Giornale 12 Mag

La proclamazione di Giorgio Napolitano come undicesimo presidente della Repubblica è stata un momento storico surreale: tre sconfitti dalla Storia celebravano sorridenti la propria vittoria nella cronaca. Franco Marini, reduce di un partito disciolto nelle carte bollate giudiziarie, ma presidente del Senato, guardava con soddisfazione il comunista Fausto Bertinotti proclamare l'ascesa al Quirinale di un ex comunista il cui merito maggiore appare - oggi - essere sempre stato sconfitto anche nel suo stesso partito.
Non è di certo un caso se ieri proprio i giornali della sinistra più pura e dura si sono distaccati dai cori melensi e osannanti che in questi casi si levano da quasi tutta la stampa. Sul Manifesto Valentino Parlato ha colpito con rara ferocia e efficacia, con due righe di sintesi sul neopresidente: «Non condivido tutte le sue idee, ma alcune le ha e ci tiene». Su Liberazione Piero Sansonetti rileva che Napolitano «Non fu tra i primi, sicuramente, ad abbandonare il mito sovietico»: né abbastanza puro né abbastanza duro, insomma. L'entusiasmo si spreca, invece, nella sinistra più moderata e tra chi, nella grande stampa, la fiancheggia.
Fra tutti, surreale come la scena che abbiamo appena ricordato, c'è l'editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera. Mieli sostiene che «se» nel 1972 Napolitano fosse stato nominato alla guida del Pci al posto di Berlinguer, quel partito «avrebbe abbandonato le stesse insegne del comunismo ben prima del 1989» e «l'unità della sinistra si sarebbe potuta fare molto prima». La conclusione di questa storia fatta con i se è che l'elezione di Napolitano rappresenta «Un premio e un risarcimento a quella parte minoritaria del Pci che già quarant'anni fa seppe guardare lontano (e vide giusto)». Insomma, un premio e un risarcimento per chi, passata metà della vita sposando un'idea sbagliata, ha passato l'altra metà battuto e ribattuto dai suoi stessi compagni di partito. I quali l'altro ieri l'hanno imposto alla massima carica dello Stato non perché gli riconoscessero il merito di avere avuto ragione, ma perché è la destra a riconoscergli il merito di avere almeno provato a cambiarli.
Se volessimo spingere all'estremo del paradosso la tesi di Mieli, potremmo ugualmente sostenere che i successori di Mussolini potevano essere Giuseppe Bottai o Dino Grandi se non addirittura, meglio ancora, Leandro Arpinati. Ma è - ripeto - un paradosso. Per niente paradossale invece è quest'altra tesi, che dovrebbe essere la più giusta e logica conclusione dell'analisi di Mieli: se proprio si doveva premiare chi aveva visto giusto ma non ce la fece, oggi al Quirinale avremmo uno degli ex comunisti che non aspettò i dintorni del 1989 per capire, ma che si staccarono dal Pci nel 1956. Ce ne sono di ancora vivi, anche se dimenticati e senza potere alcuno proprio in virtù di quella scelta coraggiosa e avanzata, democratica e occidentalista nel momento giusto, non trent'anni dopo.
Quanto a Berlusconi, cui Mieli rimprovera di non avere sostenuto la candidatura di Napolitano, ci sarebbe piaciuto trovare sul Corriere della Sera la saggia riflessione che abbiamo invece dovuto leggere sul Riformista, a firma di Piero Melograni: il quale, mentre assisteva alla nomina del nuovo presidente della Repubblica, pensava «alle sciocchezze tanto spesso ripetute in Italia da coloro i quali hanno sostenuto in tempi recenti che lo strapotere di Berlusconi e delle sue televisioni avrebbe soffocato la democrazia portando a un nuovo fascismo». Non è un caso che Melograni sia uno di quelli usciti dal Pci nel 1956. Oggi, un mancato presidente della Repubblica.