12 maggio, 2006

Moderati deberlusconizzati

Claudio Rinaldi su L'Espresso 12 Mag

C'erano una volta due leader ambiziosi. Si chiamavano Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini. Nel luglio del 1994, quando il primo governo Berlusconi varò il cosiddetto decreto salva-ladri, non esitarono a imporne il ritiro: ragionavano con le loro teste, allora. Poi si nascosero all'ombra del vulcanico Silvio, nell'illusione di poterne sfruttare le risorse in vista della successione, e lì sono rimasti acquattati per anni. Nel 2001 pagarono a caro prezzo quella scelta di subordinazione, con Forza Italia che da sola conquistò oltre il doppio dei voti raccattati da An e Udc messe insieme. Nella legislatura appena finita i due sono tornati ad azzardare qualche gesto di autonomia. Timidissimo. Il no all'abolizione della par condicio e poco altro. Ma ora? Che cosa intendono fare delle loro pallide esistenze, ora che le elezioni del 9-10 aprile hanno creato nuovi rapporti di forza all'interno della destra? La domanda riguarda il futuro della democrazia italiana, non i possibili sviluppi di un paio di carriere. Sulle spalle di Casini e di Fini grava una pesante responsabilità nazionale, quella di sottrarre quasi metà dell'elettorato al dominio di un autocrate che dei consensi rastrellati ha sempre fatto un pessimo uso. Si tratta per loro, anche se l'espressione è orribile, di avviare la deberlusconizzazione: senza proclami ineleganti, certo, ma in concreto. Ed è in questa primavera-estate del 2006 che i due, se ci sono, devono battere un colpo. Per almeno tre ragioni.

1. La prima è che proprio adesso Berlusconi sta confermando di avere, accanto a molte qualità, anche i vizi assurdi di un bambino. Di un bambino capriccioso. Per esempio: con che faccia il 26 aprile ancora si ostinava, attraverso Sandro Bondi, a dichiarare che l'Unione "non ha vinto regolarmente le elezioni"? Prima che eversivo, il suo rifiuto di ammettere la sconfitta era ed è ridicolo. E il guaio è che nella vita dell'uomo la rimozione delle realtà sgradite rappresenta una costante: neanche nel 1996 Berlusconi riconobbe di avere perso. Oggi va dicendo, senza lo straccio di una prova, che i brogli della sinistra gli rubarono un milione e 705 mila voti. Sulla sua tragicomica immaturità il 'Financial Times', un giornale fuori dalle piccole mischie nostrane, ha scritto il 21 e il 22 aprile parole definitive: il premier uscente è "un cattivo perdente che tiene il broncio", e se insiste è perché "crede che la truculenza pagherà". Puerile anche la minaccia, poi caduta, di ritardare al massimo le dimissioni da Palazzo Chigi. Dei requisiti di uno statista, nessuna traccia. Come possono Casini e Fini rimanere intrappolati in un giardino d'infanzia dove i giochi sono truccati e non divertono nessuno?
2. Va poi detto che Forza Italia, benché il suo capo indulga a un trionfalismo smodato, è stata duramente punita dagli elettori. Molti moderati, seguendo il consiglio dato da Paolo Mieli nel 'Corriere della sera' dell'8 marzo, l'hanno abbandonata a beneficio di An e Udc: alla Camera il partito-azienda ha perso ben 52 dei 189 seggi guadagnati nel 2001, cioè il 27,5 per cento. Una decimazione brutale. Rispetto alla quale un perdurare dello strapotere berlusconiano nella destra costituirebbe una contraddizione inspiegabile, il contrario dell'"opposizione intelligente" che Fini ha appena promessa. Peggio ancora se le chiacchiere sul fantomatico partito unico ricominciassero sotto la regia esclusiva del Cavaliere, e con Nando Adornato che compila verbali pretenziosi.3. È lo stesso Berlusconi infine a confessare, senza volerlo, che il suo ruolo di leader di una coalizione si è indebolito di brutto. Si rilegga il comunicato forzista del 25 aprile, che invitava Carlo Azeglio Ciampi a consultare i partiti uno per uno: "La legge elettorale proporzionale ha introdotto una spiccata individualità delle singole forze politiche e dei loro gruppi parlamentari...". Se Casini e Fini volessero mettersi in proprio più di quanto finora non abbiano potuto, dunque, sarebbero autorizzati a farlo. Che cosa aspettano?Del resto la loro emancipazione dal despota, resa finalmente possibile dall'avvento di un governo Prodi, avrebbe ancora più senso nella remota ipotesi di un governo di larghe intese. In tal caso il passo indietro di Berlusconi, come insegna un precedente illustre, sarebbe scontato. Un atto dovuto. Chi non ricorda le elezioni del 18 settembre 2005 in Germania? Anche Gerhard Schröder aveva governato per anni; anche lui era massacrato dai sondaggi; anche lui ha compiuto una vigorosa rimonta grazie a una campagna efficace; anche lui ha sfruttato con abilità la paura delle misure fiscali ventilate dai suoi avversari; anche lui ha perso di strettissima misura, con la sua Spd forte di 222 seggi al Bundestag contro i 225 della Cdu-Csu. Dopo una poco dignitosa melina, però, ha dovuto cedere la poltrona di cancelliere ad Angela Merkel. Contemporaneamente ha lasciato la politica; e con la complicità di Vladimir Putin, che è un amichetto di Berlusconi, si è messo a fare soldi. Contento lui, contenti tutti. Agli storici alleati del Cavaliere, sia chiaro, nessuno chiede clamorose abiure. Se preferiscono fingere che la Casa delle libertà sia quella di prima, padronissimi. Ma tocca a loro, mentre la stagione berlusconiana si chiude fra meschine ripicche e tentati colpi bassi, aprire per i moderati italiani un futuro più degno. L'instaurazione di un confronto corretto con il centro-sinistra può essere un buon inizio; purché Prodi e i suoi non commettano l'esiziale errore di fare gli schizzinosi, di pensare che a destra soltanto Berlusconi va preso sul serio.