14 maggio, 2006

Tangentopoli e "Piedi puliti"

Giuseppe D'Avanzo su Repubblica.it 14 Mag

Viene da chiedersi se davvero possiamo dire di aver capito che cosa sta accadendo con l'italianissima storia del "calcio truccato". Che crolla, come sempre accade, perché il livello della corruzione ha superato la soglia di massima tollerabilità e non garantisce più alcun beneficio agli attori, anche se vincenti. Il giocattolo si è così finalmente rotto. Era da tempo soltanto un autoinganno. I tifosi non credevano più ai risultati delle partite. Il mercato sapeva che i valori di una società di calcio quotata in Borsa erano contraffatti. Come ingannevoli erano l'antidoping, le compravendite, i contratti, le retribuzioni, i profitti.
Il football nazionale era una gigantesca giostra del contraffatto con un solo merito: era trasparente come acqua di fonte. Da tempo, non c'era nulla di occulto in questa finzione. Tutti sapevano tutto. Si sapeva chi erano i giocatori capaci di vendere una partita; gli arbitri che sanno addomesticarla; i medici che non disprezzano il dopaggio; i dirigenti che possono influenzare una stagione intera e quelli che possono manipolare una società o un giocatore o un arbitro o soltanto un guardalinee; quale presidente avrebbe dovuto portare i libri contabili in tribunale perché clamorosamente fallito. La trasparenza, che dovrebbe essere la fragilità di un sistema opaco, è stata al contrario una forza perché (come è chiaro nelle intercettazioni) ha obbligato chiunque incrociasse gli affari di calcio a farsene complice, protettore, corresponsabile. Anche soltanto con il silenzio. Per evitare la distruzione del giocattolo, si sono però nel tempo compromessi mercato mobiliare, diritto societario, sistema bancario, medicina sportiva, ordine pubblico, autorità di controllo pubblica o privata e forse la testa dei più giovani. Di certo, ogni principio di legalità. Eppure, se si ascolta in giro, si può avere la sensazione di trovarsi soltanto alla prese con i maneggi di una combriccola di lestofanti.
Con qualche minaccia, molte manovre truffaldine, confidando nell'avidità di alcuni e nella pavidità di altri, la ghenga mette le mani sulle leve della giostra che abbaglia 35 milioni di italiani che scoprono improvvisamente di essere stati davvero raggirati come polli.

È questa la materia venefica? Tutta qui, la muffa del sistema? Sembra crederlo anche Romano Prodi. Con una lettura avventurosa del garbuglio, il nuovo capo del governo chiede che Gianni Letta diventi il commissario straordinario della Federazione Calcio. Ragiona Prodi: "C'è un problema di regole, di senso di credibilità da recuperare. Gianni Letta ha conoscenza dello sport, delle regole della politica e della società". Cade l'umore. Letta è il braccio destro di Berlusconi, presidente onorario del Milan calcio. Avrebbe potuto anche esserlo di Moratti (Inter), Della Valle (Fiorentina), Franzo Grande Stevens (Juve), il discorso non sarebbe mutato di una virgola. La questione non è nei nomi dei protagonisti. È nel metodo e nella "cultura". Letta, in un conflitto di interessi evidente, sarebbe dovuto diventare "controllore": proprio lui, il miglior uomo di uno dei "controllati".
Finanche Prodi sembra non vedere allora la sostanza della questione che, in "Piedi puliti" (o come si chiamerà questa catastrofe), è l'assenza della competizione, quindi della concorrenza, in un mercato fasullo come un assegno a vuoto. Se l'Italia di Tangentopoli era un gigantesco cartello e "il metodo di lavoro" di un capitalismo senza mercato, l'Italia pedatoria di Moggi ha gli stessi sintomi patologici: drastici vincoli alla "concorrenza", controllo "politico", indebolimento dei meccanismi di autoregolamentazione e delle istituzioni di vigilanza.
Le malefatte di Moggi e compari ci sbattono in faccia quanto "ai livelli più infimi il tempo non passa mai". Nonostante gli anni trascorsi, le patologie del sistema e della nostra democrazia sono ancora tutte lì squadernate: insofferenza alle regole, diritto e diritti strappati, mancanza di senso dello Stato, patti oscuri tra capitalismo e governi, intreccio tra affarismo e politica, un'imprenditoria senza cultura del mercato e priva di un'etica della responsabilità, se si tiene a mente che a vario titolo sulla giostra si muovono alcuni tra i maggiori gruppi industriali del Paese (Fiat, Mediaset, Telecom, Tod's, Saras, Erg). E infine - ragione delle ragioni - il conflitto d'interessi. Un costume sociale. Una metastasi che penetra e lacera e distrugge il tessuto economico, politico, istituzionale. Finalmente (forse) si può e si deve raccontare così la parabola del "calcio truccato".
Il conflitto di interessi che cosa è, infatti, se non "un forte squilibrio a favore di uno degli attori"? Non è altro il mestiere di Moggi. È la "sapienza" d'uso di pratiche informali o illegali, fuori da ogni norma, regola o prassi capaci di creare - con il controllo degli arbitri e di alcune società più deboli, con l'acquiescenza della Federazione e della Lega, con la complicità dei giocatori e dei loro procuratori, in assenza della vigilanza di istituzioni e authorities - la prevalenza degli interessi di un ristretto pugno di club. La conseguenza di questa situazione, come in tutti i conflitti di interesse, è la sopraffazione. È quella prepotenza che "si manifesta in qualsiasi rapporto contrattuale, dai più elementari ai più complessi, ogni volta che uno dei due contraenti tratta da una eccessiva posizione di forza, e ne approfitta per imporre la sua volontà all'altro, oppure quando possiede molte più informazioni sull'oggetto della trattativa ed è in grado di nasconderle". (Guido Rossi, Il conflitto epidemico).
Ecco che cosa è accaduto al football italiano. Ecco il "miracolo" realizzato, nell'ammirazione generale, da Luciano Moggi. Il meccanismo perverso ha "istituzionalizzato" nel calcio, come già è "istituzionalizzato" nel sistema economico e finanziario, la disparità, distrutto il gioco (il mercato), intaccato non l'attività di qualche protagonista, ma di tutti gli attori. Come in un'epidemia, appunto. Volendo curare la malattia con il morbo che l'ha prodotta (i conflitti di interessi con un altro conflitto di interessi), Prodi sottovaluta la dimensione economica del calcio, "specchio" anche identitario per milioni di italiani, forse addirittura terapia omeopatica perché "desideri violenti, sfogati ritualmente, consolidano il tessuto comunitario". In più, il premier pare non interrogarsi (o ancora sottovalutare) quel laboratorio di patologie che è l'Italia. Restituire trasparenza al "gioco" e al suo sistema economico, ricostruire il rispetto di corretti principi di concorrenza "non è solo doveroso per la protezione delle parti e degli investitori, ma diventa anche questione di equità sportiva, beneficio per i "consumatori" di calcio perché successo economico e risultati sportivi vanno spesso di pari passo" (Mario Monti, quando era commissario europeo alla concorrenza). Come farlo? Senza un altro conflitto d'interessi senza dubbio, ma come e con che cosa? Quale che sia la risposta, la si potrà trovare soltanto se non si commettono gli errori del passato, se non ci si lascia prendere prigionieri da quel "revisionismo" che ha liquidato Tangentopoli come "rivoluzione politica" di "toghe rosse".
Una grossolana falsità che, riscrivendo la storia, ha legittimato una politica, non ha prodotto anticorpi, non ha ricostruito un sistema di regole la cui regressione, ancora oggi, secerne illegalismo e opacità producendo danni irreversibili (lo scandalo calcistico ne é una testimonianza). Dovrebbe essere un'analisi condivisa perché ovvia. Al contrario, oggi come allora, si odono le consuete litanie farfalline come se "la dipendenza dal sentiero tracciato", più che una maledizione, fosse un destino. Codici etici, autoregolamentazione, autoriforma, si dice. Li hanno promessi anche la politica e il capitalismo quattordici anni fa. Con quali esiti, abbiamo visto. In campo, oggi come allora, si vede al lavoro soltanto la mano - per definizione, cruenta e in qualche caso ingiusta - di una magistratura alle prese con il compito supplente e improprio di proteggere la moralità pubblica. Davvero, ancora una volta, qualcuno pensa di andare verso il futuro con la testa girata all'indietro?
(continua)