In difesa del dalemismo puro
Stefano Menichini su Europa 14 Mag
Chissà se è vero, come scrive Fabrizio Rondolino sulla Stampa, che D’Alema non ha mai perso di vista la legge secondo la quale in politica occorre allearsi coi forti per limitare l’interdizione dei deboli. Fosse così, una fatale distrazione avrebbe indotto il presidente dei Ds a incamminarsi per il Quirinale affiancato da Giuliano Ferrara e Oliviero Diliberto: ottime persone ma, come s’è visto, dotate di forze insufficienti all’ardua missione. Un po’ come affidare ad arditi giovanotti il compito di riformare il capitalismo in Italia.
Entrando nella legislatura che darà i natali al Partito democratico, è doveroso considerare tutte le ipotesi di assetto che vengono proposte. Compresa appunto quella – come si dice? informata – dell’ex portavoce dalemiano poi transitato alla fiction scritta e televisiva e al reality adulterato.
Tornando al suo mestiere di analista politico dopo queste esperienze, Rondolino conserva intatta anzi accresciuta la preziosa dote della fantasia. E, non essendosi fatto traviare dalla poco togliattiana adesione alla Rosa nel pugno, rinnova l’antica fascinazione verso i patti di acciaio e gli uomini al timone.
Il nuovo esordio battezza dunque «l’asse Prodi- D’Alema», puer forte e malizioso destinato a lasciare il segno sulla legislatura e a condurre fin dagli inizi governo e Partito democratico. Sarà davvero così? Non è secondario saperlo. Tra l’altro, si risolverebbe così l’assillo che ciclicamente tiene ipnotizzate le migliori menti del giornalismo politico: che cosa farà Massimo D’Alema? È nota la vulgata secondo la quale la politica italiana sia in questa stagione riassumibile nella titanica lotta tra i due presidenti dei Ds e dei Dl. Nel qual caso Europa sarebbe da considerarsi giornale altamente sospetto di faziosità.
Scaricando da ogni responsabilità la Margherita (partito a discreto tasso di simpatia dalemiana, fino a ieri) e sfruttando anglismi come pedigree e know how – li abbiamo entrambi – garantiamo che l’assillo, qui, più che la sconfitta del dalemismo è la sua tutela dall’estinzione. Addirittura, il suo rilancio, in una versione meno caricaturale di quella paleo-craxiana che viene affidata agli spin doctor e ai porta parola.
I rischi di estinzione in verità sono bassi, però ci sono, come si scorge nelle pieghe di uno scontro correntizio che – almeno fino all’ultimissimo confronto tra presidente e segretario – vedeva il dalemismo arretrare dovunque, nei Ds e fuori. A proposito di quella famosa esaltazione della forza, sempre di più in realtà essa si affida all’immaterialità del carisma e dell’acume intellettuale, che D’Alema ha più di altri, ma che non gli evitano di perdere la decisiva Puglia nelle elezioni né di contare sulle dita di due mani gli eletti di riferimento in parlamento.
Viceversa, di dalemismo concreto ci sarebbe gran bisogno. Dovrebbe permeare molto di più il partito di cui D’Alema è presidente e quello nuovo che vorrà co-fondare, magari riportandolo sulle posizioni dello scontro con il conservatorismo sindacale di soli sette anni fa (oggi su quella linea troviamo, malizia della storia, Walter Veltroni). E dovrebbe imprimere una svolta alla politica estera italiana e della sinistra, grazie a quell’atlantismo che per D’Alema premier fu insieme convinzione politica e momento di maturazione esistenziale (pazienza per i supporters Diliberto e manifesto).Noi puntiamo assai su questo dalemismo di ritorno, più che credere a inediti assi d’acciaio e d’equilibrio con Prodi. Quanto alle vicepresidenze del consiglio, esse sono – come giustamente scrive l’ispirato Rondolino – «medagliette ». Con la vetrina di trofei che può esibire, abbiamo immaginato che D’Alema le avrebbe lasciate agli altri, non avendone alcun bisogno. O no? Dicono di no. Forse no.
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