I giudici e il clamore
Sergio Romano su Corriere.it 14 Mag
La magistratura che scopre gli scandali
Ciò che mi ha maggiormente colpito nello scandalo del football è il sentimento, molto comune, che certi intrighi e imbrogli non siano casi isolati, ma indice di un malcostume diffuso. Insomma, siamo indignati, scandalizzati e arrabbiati, ma non sorpresi. Se queste impressioni sono fondate (e temo lo siano), la vicenda è più grave di quanto non sembri.
Questo non è un semplice scandalo, come possono accaderne anche nei Paesi meglio governati. È la dimostrazione, soprattutto dopo le vicende bancarie degli scorsi mesi, che Tangentopoli e i 14 anni passati dall'arresto di Mario Chiesa non hanno intaccato le cattive abitudini di alcuni settori della società. Pensavamo che le indagini di Mani pulite avrebbero avuto ricadute positive per tutta la vita nazionale. Credevamo che la proliferazione dei codici etici nella prima metà degli anni Novanta fosse qualcosa di più di uno dei tanti esercizi in cui il Paese rivela i suoi vizi peggiori: retorica, ipocrisia, conformismo. Ma scopriamo che le cattive abitudini, in certi ambienti, non sono cambiate. Quanto più una corporazione è potente, corteggiata e adulata dal Paese e dalla politica, tanto più sembra convinta di poter violare la legge e aggirare le regole.
Non è lo scandalo che preoccupa: è la combinazione di cinismo, sentimento d'impunità e indifferenza a qualsiasi principio morale che traspare dalla vicenda. Di chi è la colpa? Dei controllori che non controllano? Di una classe dirigente amorale? Di una opinione pubblica in cui l'indignazione è sporadica, sussultoria, inconstante?
Nello scandalo del football vi è un altro aspetto inquietante. Quando scoppiò Tangentopoli la reazione della magistratura fu, a dir poco, anomala. I procuratori si impadronirono del circuito mediatico e lo alimentarono con fughe, interviste, indiscrezioni. Le procure cominciarono a contendersi la materia delle indagini. Alcuni magistrati si abituarono a vivere nel cerchio di luce dei riflettori e dettero l'impressione di amare il loro nuovo ruolo. Mi dissi allora che queste anomalie erano forse giustificate da una esigenza: aprire un varco, grazie al consenso della pubblica opinione, nel muro di cinismo e di omertà che copriva il rapporto tra la politica e gli affari. Ma i magistrati avrebbero dovuto essere i primi a rendersi conto che bisognava tornare, dopo la «libera uscita» di quel momento eccezionale, alle antiche virtù del mestiere: il silenzio, la discrezione e una forte distanza di sicurezza dal mondo della politica.
Ciò che sta accadendo in questi giorni sembra dimostrare che lo stile di Mani pulite sopravvive. Siamo letteralmente sommersi da notizie di cui ignoriamo la paternità. E stiamo assistendo a una competizione fra le procure che ricorda gli anni di Tangentopoli. Esiste una istituzione che può affrontare autorevolmente questo problema: il Consiglio superiore della magistratura. Ma la sua maggiore preoccupazione in questi anni è stata quella di rivendicare l'indipendenza della magistratura. È giusto. Ma non sarebbe altrettanto giusto chiedersi, almeno in qualche caso, quale uso si faccia di tale indipendenza?
Ancora una osservazione. I risultati di questo grande clamore giudiziario sono inevitabilmente inferiori alle attese: qualche condanna cassata in appello, qualche detenzione cautelativa seguita da proscioglimento, qualche archiviazione. E così, dopo avere suscitato una appassionata sete di giustizia, la magistratura alimenta un'altra ricorrente patologia italiana: la sindrome dell'insabbiamento. E nuoce, in ultima analisi, a se stessa.
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