29 aprile, 2006

Giannelli 29 Apr

Il Manifesto 29 Apr

28 aprile, 2006

Repubblica.it 28 Apr ore 20:30

Dobbiamo contarci e ci conteremo, figurarsi se mi agito

Fabrizio Rondolino su La Stampa web 28 Apr

Quel sindacalista che una notte si barricò per trattare i collegi
Si narra che nella lontana primavera del 1996, quando il neonato Ulivo doveva decidere come distribuire fra partiti e partitini i collegi "sicuri", quelli "marginali" e quelli persi in partenza, Franco Marini per due giorni e una notte non si sia mai mosso da una stanza del secondo piano di Botteghe Oscure - dove allora aveva sede il Pds -, proprio accanto a quella di D'Alema. L'allora segretario del Partito popolare aveva per dir così occupato gli uffici del suo collega della Quercia, intenzionato ad andarsene, come effettivamente avvenne, soltanto ad accordo chiuso e a candidature decise. L'aneddoto sembra perfetto per riassumere il carattere e la tenacia di Marini: abruzzese, sindacalista e democristiano, e tra poco (si spera per lui) anche presidente del Senato.
Il coronamento
La sua elezione coronerebbe degnamente una carriera, e per dir così completerebbe una personale lunga marcia nelle istituzioni: cresciuto nella Cisl “movimentista” e “gruppettara” di Pierre Carniti (di cui, ha scritto Massimo Franco, fu poi «l'erede e insieme il liquidatore»), si ritroverebbe infine seconda carica dello Stato. Ma Marini, come usava nella Prima repubblica, non è uomo da ambizioni personali: o meglio, le ambizioni hanno un senso (e una chance) se si collocano all'interno di un disegno politico. Così, la sua elezione significherebbe che la maggioranza uscita dalle elezioni, ancorché risicata, è compatta: e lo è non per ragioni personali (a chi importa se Andreotti è più trendy?) ma per ragioni, appunto, squisitamente politiche. E' un ragionamento molto semplice: se Marini non viene eletto, Prodi non ha la maggioranza a Palazzo Madama. Punto.
Se per D'Alema la politica è geometria e scienza esatta, per Marini, tutt'al contrario, è prassi, divenire continuo, adattamento. Forse i due sono andati (e vanno) d'accordo perché coltivano un'idea della politica così distante, eppure ugualmente forte. Nel pragmatismo di Marini non c'è soltanto l'orma della destra cislina, di cui fu leader, o il ricordo di una laurea in giurisprudenza: c'è anche un qualche imprinting andreottiano. Curioso che proprio i due si fronteggino stamattina: perché alla politica, di fatto, Marini arrivò con Andreotti, di cui fu ministro del Lavoro nel suo ultimo governo, e che poi sostituì come capolista nel Lazio alle elezioni del '92 (Andreotti nel frattempo era diventato senatore a vita): raccolse poco più di 100 mila preferenze, contro le 329 mila raccolte dal «divo Giulio» cinque anni prima. Ma, va detto, era al debutto. Oggi Marini ostenta sicurezza: «Ci dobbiamo contare e ci conteremo».
Conversando con i giornalisti, ieri pomeriggio, il candidato dell'Unione sosteneva di non essere affatto «agitato» per la votazione: «Uno abituato come me ad essere votato, uno che ha partecipato a tante votazioni... Come faccio ad essere agitato?». E c'è da credergli: Marini è (in pubblico, s'intende) un animale a sangue freddo. Come responsabile organizzativo, è stato di fatto il costruttore del Partito popolare all'indomani della dissoluzione politico-giudiziaria della Dc; ne è diventato segretario nel '97 e poi, da presidente, è stato tra i primi post-dc a rompere il tabù identitario e a lanciarsi nell'avventura della Margherita. Di cui è diventato rapidamente, e di nuovo grazie al lavoro organizzativo, un pilastro fondamentale. La solidità politica di Marini, che ricorda senz'altro qualche aspro paesaggio abruzzese, è anche la chiave della sua battaglia per Palazzo Madama.
No talk show
Per stile, per tradizione e per carattere Marini è uomo di silenzi pubblici e di incontri privati: la politica è per lui cosa troppo seria per affidarla ad un talk show. Poche, dunque, le esternazioni mirabolanti e le concessioni alla politica spettacolo. A meno che, naturalmente, una qualche trattativa in corso non richieda di picchiare il pugno sul tavolo. Giusto un anno fa, quando lui e Rutelli erano contrari alla lista unica dell'Ulivo, i prodiani fecero girare l'ipotesi di una "lista Prodi", cioè di una scissione della Margherita. Marini sembrò perdere le staffe: «Ora basta - disse al Corriere -. Se qualcuno continua a minacciare la scissione, allora io dico che si ridiscute tutto. E sottolineo tutto»
Tradotto significava: o Prodi rinuncia alla lista, o rinuncia alla leadership. Si sa come è andata: la lista unitaria si è fatta alla Camera ma non al Senato. Per Prodi, politicamente, una mezza sconfitta; per Marini, storico difensore del ruolo profondamente democratico dei partiti, una vittoria. Così lavora, e così ragiona, il sindacalista approdato alla politica: ma in questo procedere passo dopo passo il “sindacalismo” è soltanto una tecnica, uno strumento, e qualche volta persino un vezzo. Marini è infatti un politico puro: e se sarà presidente del Senato, lo sarà grazie a questo.

Berlusconi: "Mi dimetto dopo il voto" Fi, scoppia il caso Tremonti

Repubblica.it 28 Apr

Il premier conferma: "Eletti i presidenti delle Camereandrò via" e insiste "Ho nuove prove di brogli"BerlusconiIl ministro uscente non sarà capo dei deputati forzisti
"Dopo il voto sui presidenti delle Camere andrò al Quirinale per dimettermi. Ma i vincitori morali delle elezioni siamo noi". Prima in consiglio dei ministri, poi davanti ai nuovi parlamentari di Forza Italia, Silvio Berlusconi si è lasciato andare ad una sorta di commiato. Oggi inizia la XV legislatura e il suo governo sta per esaurirsi. Ma promette battaglia. Ha annunciato "una opposizione durissima", in primo luogo al Senato, e soprattutto ha puntato per l'ennesima volta l'indice contro i presunti brogli.
"Ho tutta una serie di nuove prove documentate", ha detto il premier, che potrebbe esporre le sue rimostranze anche al capo dello Stato: "Le proiezioni del Viminale ci davano in vantaggio di più di 100 mila voti, ma poi tutti quei voti sono scomparsi dai verbali. Dove sono andati a finire?". Il Cavaliere ha convocato mercoledì scorso una riunione ad hoc per esaminare il caso e valutare se rivolgersi alla procura della Repubblica. Anche perché, dicono a Forza Italia, "nelle circoscrizioni estere i voti sarebbero stati addirittura assegnati a caso".
"Siamo un paese da terzo mondo - si è sfogato Berlusconi -. Altro che tutori delle legalità, governerà chi non ha diritto di governare". Al Colle, comunque, si rivolgerà sicuramente il leghista Roberto Calderoli che aveva già bocciato un'interpretazione della legge sul conteggio delle liste singole. A suo giudizio, ci sono stati "errori macroscopici" che imporrebbero a Ciampi di "scendere in campo prima di eleggere i presidenti delle due Camere che sono già in partenza illegittimi".
Il presidente del Consiglio uscente, quindi, è convinto di essere non solo il "vincitore morale" ma anche "il vincitore reale, i numeri sono dalla nostra parte". Gianfranco Fini, davanti ai ministri riuniti a Palazzo Chigi, gliel'ha riconosciuto: "Sei stato un grande condottiero". Il Cavaliere ha ringraziato ma non ha risparmiato una battuta: "Qualcuno non ci ha creduto fino in fondo e qualcuno non ha voluto la riforma della par condicio". Poi ha snocciolato gli ultimi sondaggi: "Se si votasse ora saremmo sei punti avanti, io ho il 60% di gradimento e Forza Italia il 30%". L'obiettivo, dunque, è "chiudere la parentesi di Prodi nel più breve tempo possibile".
Come ha ammonito Fini, "ci sentiamo temporaneamente all'opposizione". Per il capo forzista, "non si può non rendere conto al 50%" e per questo "le giornate di venerdì e sabato (oggi e domani-ndr) saranno fondamentali". E allora tutti i parlamentari dovranno rimanere in aula "dalla mattina alla sera, tanto quelli non riusciranno ad approvare nulla".
Intanto Berlusconi muove i primi passi per riorganizzare il suo partito e la Casa delle libertà. Ha riconfermato i capigruppo a Montecitorio e a Palazzo Madama creando frizione con Giulio Tremonti che sperava di poter succedere a Elio Vito alla guida dei deputati forzisti. Dopo l'estate, poi, Forza Italia verrà chiamata al congresso nazionale straordinario. L'obiettivo resta il partito unico del centrodestra. Un'opzione che sembra aver ottenuto il via libera di Alleanza nazionale ma non quello dei centristi dell'Udc.

Andreotti la sentenza e la Bongiorno

Emanuele Macaluso su Il Foglio 27 Apr

L'avvocato Giulia Bongiorno, neodeputata di An, con un'intervista al Corriere ha replicato alla mia column dedicata a Giulio Andreotti. Io non ho mai detto che l'ex presidente del Consiglio non ha rispettato, anche durante il processo, le istituzioni. Ho detto il contrario. Ma ho anche affermato che la proposta di candidarlo è venuta dal Cavaliere, il quale, di fronte al risultato elettorale proclamato dalla Cassazione, rifiuta di riconoscere il vincitore. Il silenzio di Andreotti su un fatto che intorbida il clima politico alla vigilia delle elezioni dei presidenti del Senato, della Camera e della Repubblica, non è giustificato né giustificabile.
Ancora. La sentenza della Corte d'Appello di Palermo (confermata dalla Cassazione), che io ho definito equivoca e piratesca, la Bongiorno invece la difende: gli va bene ciò che vi è scritto su Andreotti, sul suo rapporto con la mafia sino al 1980. Un rapporto considerato reato di associazione a delinquere, prescritto. Potrei dire: contenta lei, contenti noi. E' la logica avvocatesca, rivendicata come la sola atta a leggere processi e sentenze. Errore. Atti giudiziari come quelli di cui si parla fanno parte della storia politica del paese.

Giannelli 27 Apr

26 aprile, 2006

Micro-maggioranza e macro-opposizione!!

Giuliano Ferrara su Il Foglio

...
L’unica speranza è che la vecchia talpa del compromesso scavi una bella buca sotto le velleità rinfocolatrici della nuova micro-maggioranza e della nuova macro-opposizione, e ci butti dentro tutto questo popolo di narcisisti noiosi e culturalmente imbarazzanti, questo vasto branco di impresentabili che obbligano a un caos senza felicità e senza speranza, in una perversa routine del giorno del giudizio, le forze serie e mature, ma vili, molto vili, e nascoste, molto nascoste, che pure abitano questo paese.

La strategia del tanto peggio

Federico Geremicca su La Stampa 26 Apr

Non c’è organismo monetario internazionale che, esaminando la situazione italiana, non ripeta un ritornello che le persone responsabili dovrebbero aver ormai mandato a memoria: il nostro Paese ha di fronte problemi economici seri e complessi, da affrontare con il massimo della celerità. Questo e non altro, per esser chiari, hanno ribadito in questi giorni tanto il Fondo monetario che la Bce. Ma mentre Romano Prodi, «premier entrante», sembra aver chiari - fino a prova contraria - il quadro pesante e la necessità di agire in fretta, Silvio Berlusconi, «premier uscente», pare perseguire l’unico obiettivo di tenere sulla corda il leader dell’Unione, ritardando il più possibile l’insediamento del nuovo governo.
Sarebbe ipocrita fingere scandalo di fronte al tentativo di una parte politica di lucrare sulle difficoltà dell’avversario: a parti invertite, in fondo, è quel che il centrosinistra ha fatto fino a un paio di settimane fa. Non è il caso di indignarsi, quindi, se l’unica strategia del Cavaliere sembra risiedere nella speranza che qualcosa a Prodi vada storto, puntando sul vantaggio d’immagine che potrebbe ricevere da nuove polemiche sull’assegnazione di questa o quella poltrona (la disputa tra D’Alema e Bertinotti docet). Eppure viene un momento - e si perdoni la retorica - in cui gli interessi di parte dovrebbero esser messi da un canto, a vantaggio del superiore interesse del Paese.
A quindici giorni dal voto e ad una settimana dalla proclamazione ufficiale dei risultati, Silvio Berlusconi non ha ancora riconosciuto la vittoria della coalizione che lo ha fronteggiato. Si tratta di una circostanza inedita e grave, ma sostanzialmente ininfluente: può confermare o modificare il giudizio di ognuno sul «premier uscente» (fa bene? fa male?) ma non certo influire sul corso delle cose. Diverso, invece, è il caso della tenace azione messa in campo per ritardare il più possibile la nascita del nuovo governo. Qui entra in gioco qualcosa di più serio dell’accesa rivalità tra due leader: ne va di mezzo, infatti, la tempestività di azioni di governo ritenute - in Italia e all’estero - decisive per il rilancio del Paese. E’ per questo che, senza andare troppo oltre, la strategia del leader della Casa delle libertà può esser serenamente definita irresponsabile.
Per questo è senz’altro un buon segnale la presa di distanze che gli alleati maggiori hanno marcato rispetto alla nota con la quale ieri Forza Italia ha contestato al capo dello Stato presunte accelerazioni circa i tempi di formazione del nuovo esecutivo: segnala, se non altro, che non tutti hanno smarrito senso di responsabilità e lume della ragione. Forse di più: potrebbe essere la spia del fatto che anche nel centrodestra finalmente maturano preoccupazioni per un vuoto di potere che rischia di produrre danni e per un clima politico da raffreddare rapidamente (come auspicato nuovamente ieri dal presidente Ciampi) in funzione di una qualche forma di dialogo. Del resto, sono situazioni così - in cui le differenze si trasformano in odio, e l’odio in violenza - a favorire episodi vergognosi, come quello andato in scena ieri a Milano: dove la signora Letizia Moratti è stata insultata e di fatto espulsa dal corteo del 25 aprile mentre spingeva la carrozzella sulla quale sedeva il papà, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti. La colpa della Moratti? Essere ministro di Silvio Berlusconi. Inaccettabile. E la conferma che la barbarie, come si vede, è ormai lontana solo un passo...

Giannelli 26 Apr

25 aprile, 2006

Giannelli 25 Apr

24 aprile, 2006

Down with dictatorship long live free Italy

Bertinotti detta già l’agenda del governo

Il Riformista 24 aprile 2006
Niente sacrifici, unico taglio a Mediaset
In assenza di una parola certa da parte di Romano Prodi, i vari Eugenio Scalfari e Sergio Romano che tentavano opportunamente di spiegare, e soprattutto di capire, cosa farà o cosa dovrebbe fare il governo unionista nei prossimi cento giorni, hanno avuto finalmente soddisfazione. Solo che a rispondere alle loro sollecitazioni è stato Fausto Bertinotti. Come sostengono loro stessi, gli unionisti una maggioranza ce l’hanno; è robusta alla Camera, flebile al Senato, ma ce l’hanno. Al punto che in privato, a Portofino, persino il Cavaliere avrebbe ammesso ironicamente: «Dureranno cinque anni e forse più: il potere unisce, non divide». Per Prodi, invece, il centrosinistra governerà un lustro sì, ma «non per una questione di potere. Il fatto è che abbiamo vinto le elezioni, e vincendo le elezioni abbiamo il diritto e il dovere di governare. La cosa più importante sarà farlo al servizio e nell’interesse di tutto il Paese». Stabilito “chi” governerà l’Italia, resta però da capire “come” la si governerà. Bertinotti, evidentemente non pago della conquista di Montecitorio, si è messo già a stilare l’agenda del governo. Ospite della trasmissione di Lucia Annunziata, il diabolico Fausto ha parlato più da segretario di Rifondazione comunista che da presidente della Camera, più da capo del governo che da uomo delle istituzioni. Bertinotti ha infatti esternato su tutto lo scibile politico, dai due ministeri che il Prc chiede di guidare, al tentativo di dialogo con Hamas, passando per i posti «importanti» che verranno riconosciuti ai Ds nel governo.

Giannelli 24 Apr

23 aprile, 2006

«Caro Prodi è la soluzione sbagliata»

De Mita su Il Mattino 23 Apr

Non gli piace come è stata gestita la vicenda della presidenza della Camera. Per il Quirinale reputa di attualità il metodo che ha ancora il suo nome e che portò, con larga maggioranza, all’elezione di Cossiga. Sulla formazione del governo dà qualche «suggerimento» a Prodi, ma per quanto lo riguarda smorza le voci su una possibile destinazione al ministero delle Riforme. L’ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita dice di preferire, nella Margherita e nell’Ulivo, il ruolo consueto di chi «aiuta a far riflettere».

Onorevole De Mita, come giudica il passo indietro di D’Alema e il via libera a Bertinotti per la presidenza della Camera?
«Credo che quando un problema si risolve, e ne crea altri, non è una buona soluzione. Mi pare che stavolta sia così: scandalizzarsi perchè all’interno di una coalizione esistono potenziali opzioni diverse significa non rendersi conto che la realtà è questa, in una coalizione. Ma i contrasti vanno prevenuti, le decisioni preparate, le soluzioni motivate. Temo che quando i problemi si risolvono quasi per incanto più che una soluzione rischiano di contenere una difficoltà. Voglio augurarmi che non sia così, vorrei sperare che non sia così».

Ha intravisto nella vicenda un’indecisione di Prodi, che ora ringrazia D’Alema? Lei teme forse una reazione a catena?
«Non giudico, rifletto ad alta voce. Sono un osservatore». Bertinotti alla Camera è Rifondazione alla Camera. Una novità epocale. «Nei confronti di Bertinotti ho simpatia, mi auguro che viva la funzione con la sua intelligenza e la sua responsabilità. Ma mi verrebbe da osservare che un contributo alla coesione della coalizione non credo possa essere dato dal condizionamento di una Camera che si guida, quanto da una funzione che si svolge. E guidare un gruppo come quello di Rifondazione probabilmente sarebbe stato un contributo alla coalizione, da parte sua, molto più efficace».

E D’Alema? E il dibattito su una sorta di «soluzione risarcitoria», magari al governo?
«A D’Alema si attribuiscono tanti difetti. Io, invece, vorrei sottolineare due suoi gesti, non di responsabilità ma di grande intelligenza politica. Di quando s’è dimesso da presidente del Consiglio e di adesso, che rinuncia ad un’aspirazione non solo legittima per le qualità della persona ma in rappresentanza della maggiore forza della coalizione. E se si immagina di andare avanti per compensazioni quantitative all’inizio c’è l’illusione che il mercanteggiamento sia una risorsa per risolvere i problemi. Invece è un percorso che, presto o tardi, incrocia difficoltà insormontabili. Le coalizioni vivono, ed hanno lunga durata, quando la mediazione non fa riferimento a questa logica».

Come valuta l’accordo su gruppi unici dell’Ulivo, al Senato oltre che alla Camera? «Io li vedo nella logica di rafforzamento del potere della coalizione. Sarebbe un errore immaginarli come luogo che anticipa un processo di ristrutturazione delle forze politiche, ritengo che possano essere soprattutto uno strumento di concorso alla creazione di coesione nell’alleanza. Perchè dobbiamo svolgere una sola funzione: far crescere la coesione a sostegno del governo, sperando che l’attività governativa sia tale da incrociare la solidarietà e l’unitarietà dei gruppi parlamentari. Le due cose sono interdipendenti: difficile sostenere qualcosa di cui non si è convinti ed è difficile convincere senza porre in essere atti persuasivi».

Scelta per il Quirinale. Siamo lontani da un’ipotesi di soluzione.
«Esiste il ”metodo De Mita”, tanto vituperato ma tanto invocato. Non è un modo per accontentare qualcuno, ma fa riferimento ad un’istituzione che è garanzia dell’unità e dell’ordine costituzionale del Paese. Il capo dello Stato non è il capo della maggioranza, va scelto con una maggioranza ampia e condivisa, rifuggendo l’ipotesi residuale prevista dai costituzionalisti della maggioranza alla quarta votazione. Un’investitura larga dà infatti autorevolezza a chi è eletto. E lo impegna, non nei confronti della maggioranza ma dell’unità del Paese».

Il dibattito sul partito democratico va avanti a grandi passi. Quali sono le sue previsioni?
«Se dovessimo dire solo ”sì” o ”no” qualsiasi risposta sarebbe sbagliata. É un processo da costruire a fronte della frammentazione delle forze politiche. Vedo che ci si pone il problema della risposta a una domanda di unità e non a questioni di organigrammi. Bene. Non si può dire di «no» alla partecipazione ad un discorso così. Il rischio è quello di diventare la stessa cosa? No, diventeremmo più solidali e più diversi, a patto di salvaguardare l’autonomia sul piano della proposta. Intanto preoccupiamoci di perseguire ampia solidarietà intorno al governo. Se la maggioranza nel centrosinistra cresce, la coesione nella Casa delle Libertà diminuisce. E rischiano di perdere qualche pezzo per strada».

Appunto, il governo. Da ex presidente del Consiglio ha ”indicazioni” per Prodi? «Come per tutte le scelte, il negoziato è necessario e probabilmente utile per capire. Ma la forza delle decisioni non sta nella spartizione quanto nel risultato che si consegue. La compagine di governo deve essere di alta qualità e coesa, il ruolo del presidente del Consiglio sul piano dell’autonomia delle scelte ha questa ragione. Nessun presidente può ignorare di dare rappresentanza alle forze che hanno contribuito a far crescere la coalizione. Non è un sofisma: il problema non è l’autorevolezza astratta ma mettere insieme la rappresentanza politica e la forza della coalizione, il recupero delle qualità personali nel ruolo di direzione dei ministeri ma anche la capacità di rappresentanza politica nelle istituzioni».

De Mita al ministero delle Riforme. Una voce più o meno concreta? Un’aspirazione? Una speranza?
«Da quando ho lasciato la presidenza del Consiglio nella mia testa è scomparsa l’aspirazione a partecipare ad organi esecutivi. Mi rimane, se il Padreterno vorrà, l’ambizione di riflettere e di concorrere a far riflettere. Perchè, checché se ne dica di questi tempi, in politica la cosa più concreta resta il pensiero».

Visti dai vicini di casa


La Padania 23 Apr

Libero 23 Apr

Giannelli 23 Apr

Il Manifesto 23 Apr

Bertinotti visto da Il Riformista