28 aprile, 2006

Dobbiamo contarci e ci conteremo, figurarsi se mi agito

Fabrizio Rondolino su La Stampa web 28 Apr

Quel sindacalista che una notte si barricò per trattare i collegi
Si narra che nella lontana primavera del 1996, quando il neonato Ulivo doveva decidere come distribuire fra partiti e partitini i collegi "sicuri", quelli "marginali" e quelli persi in partenza, Franco Marini per due giorni e una notte non si sia mai mosso da una stanza del secondo piano di Botteghe Oscure - dove allora aveva sede il Pds -, proprio accanto a quella di D'Alema. L'allora segretario del Partito popolare aveva per dir così occupato gli uffici del suo collega della Quercia, intenzionato ad andarsene, come effettivamente avvenne, soltanto ad accordo chiuso e a candidature decise. L'aneddoto sembra perfetto per riassumere il carattere e la tenacia di Marini: abruzzese, sindacalista e democristiano, e tra poco (si spera per lui) anche presidente del Senato.
Il coronamento
La sua elezione coronerebbe degnamente una carriera, e per dir così completerebbe una personale lunga marcia nelle istituzioni: cresciuto nella Cisl “movimentista” e “gruppettara” di Pierre Carniti (di cui, ha scritto Massimo Franco, fu poi «l'erede e insieme il liquidatore»), si ritroverebbe infine seconda carica dello Stato. Ma Marini, come usava nella Prima repubblica, non è uomo da ambizioni personali: o meglio, le ambizioni hanno un senso (e una chance) se si collocano all'interno di un disegno politico. Così, la sua elezione significherebbe che la maggioranza uscita dalle elezioni, ancorché risicata, è compatta: e lo è non per ragioni personali (a chi importa se Andreotti è più trendy?) ma per ragioni, appunto, squisitamente politiche. E' un ragionamento molto semplice: se Marini non viene eletto, Prodi non ha la maggioranza a Palazzo Madama. Punto.
Se per D'Alema la politica è geometria e scienza esatta, per Marini, tutt'al contrario, è prassi, divenire continuo, adattamento. Forse i due sono andati (e vanno) d'accordo perché coltivano un'idea della politica così distante, eppure ugualmente forte. Nel pragmatismo di Marini non c'è soltanto l'orma della destra cislina, di cui fu leader, o il ricordo di una laurea in giurisprudenza: c'è anche un qualche imprinting andreottiano. Curioso che proprio i due si fronteggino stamattina: perché alla politica, di fatto, Marini arrivò con Andreotti, di cui fu ministro del Lavoro nel suo ultimo governo, e che poi sostituì come capolista nel Lazio alle elezioni del '92 (Andreotti nel frattempo era diventato senatore a vita): raccolse poco più di 100 mila preferenze, contro le 329 mila raccolte dal «divo Giulio» cinque anni prima. Ma, va detto, era al debutto. Oggi Marini ostenta sicurezza: «Ci dobbiamo contare e ci conteremo».
Conversando con i giornalisti, ieri pomeriggio, il candidato dell'Unione sosteneva di non essere affatto «agitato» per la votazione: «Uno abituato come me ad essere votato, uno che ha partecipato a tante votazioni... Come faccio ad essere agitato?». E c'è da credergli: Marini è (in pubblico, s'intende) un animale a sangue freddo. Come responsabile organizzativo, è stato di fatto il costruttore del Partito popolare all'indomani della dissoluzione politico-giudiziaria della Dc; ne è diventato segretario nel '97 e poi, da presidente, è stato tra i primi post-dc a rompere il tabù identitario e a lanciarsi nell'avventura della Margherita. Di cui è diventato rapidamente, e di nuovo grazie al lavoro organizzativo, un pilastro fondamentale. La solidità politica di Marini, che ricorda senz'altro qualche aspro paesaggio abruzzese, è anche la chiave della sua battaglia per Palazzo Madama.
No talk show
Per stile, per tradizione e per carattere Marini è uomo di silenzi pubblici e di incontri privati: la politica è per lui cosa troppo seria per affidarla ad un talk show. Poche, dunque, le esternazioni mirabolanti e le concessioni alla politica spettacolo. A meno che, naturalmente, una qualche trattativa in corso non richieda di picchiare il pugno sul tavolo. Giusto un anno fa, quando lui e Rutelli erano contrari alla lista unica dell'Ulivo, i prodiani fecero girare l'ipotesi di una "lista Prodi", cioè di una scissione della Margherita. Marini sembrò perdere le staffe: «Ora basta - disse al Corriere -. Se qualcuno continua a minacciare la scissione, allora io dico che si ridiscute tutto. E sottolineo tutto»
Tradotto significava: o Prodi rinuncia alla lista, o rinuncia alla leadership. Si sa come è andata: la lista unitaria si è fatta alla Camera ma non al Senato. Per Prodi, politicamente, una mezza sconfitta; per Marini, storico difensore del ruolo profondamente democratico dei partiti, una vittoria. Così lavora, e così ragiona, il sindacalista approdato alla politica: ma in questo procedere passo dopo passo il “sindacalismo” è soltanto una tecnica, uno strumento, e qualche volta persino un vezzo. Marini è infatti un politico puro: e se sarà presidente del Senato, lo sarà grazie a questo.