DieciAprile2006
Per lasciare traccia della giornata.... e delle settimane successive.
15 giugno, 2006
14 giugno, 2006
Le poltrone aumentano ma cala il consenso
Eugenio Scalfaro 11 Giu
Dirò una cosa spiacevole. Spiacevole per me che la scrivo e, suppongo, anche per molti di quelli che la leggeranno: il governo Prodi sta dando, almeno per ora, un'immagine di sé scomposta, sciancata, mediocre. Analoghe sensazioni suscita la maggioranza parlamentare che dovrebbe sostenerlo e che sembra invece intenta a seminare sulla sua strada petardi e bombe-carta con effetti deleteri non tanto sulla linea politica quanto sul consenso popolare. Il quale sta scemando in misura preoccupante.
Che i problemi da affrontare fossero di difficile soluzione si sapeva. Dunque non è una sorpresa. In politica economica il lascito ereditato da cinque anni scriteriati impone scelte ardue quanto necessarie, la cui responsabilità non ricade né su Prodi né su Padoa-Schioppa né su Bersani. La politica estera si muove su un sentiero altrettanto stretto e impone lucidità ed equilibrio che per fortuna non fanno difetto a chi ha il compito di gestirla. Così altre decisioni che riguardano la giustizia, la scuola, l'immigrazione, il "welfare", i penitenziari, la bioetica.
Ciò che si rimprovera a questo governo ad un mese dal suo insediamento non è dunque l'erto percorso che deve intraprendere, ma l'esitazione che sembra averlo colto fin dai suoi primissimi passi, quasi sia restio a mettersi in cammino per timore di dover prendere decisioni sgradite a questa o quella parte della lunga coalizione di partiti dalla quale è sostenuto. Come chi, dovendo tuffarsi in acqua da un alto trampolino, tema di compiere quel salto che non può più oltre rimandare ma al quale non sa decidersi, deludendo il pubblico radunatosi per assistere a quell'esibizione e indotto ai fischi anziché agli applausi.
Quest'esitanza nel fare, oltre a deludere e irritare la pubblica opinione pregiudizialmente favorevole, ridà fiato e vigore agli avversari, li ricompatta e li motiva ad un antagonismo radicale che rende ancor più sfibrante un percorso di per sé accidentato. Emergono spinte centrifughe nella coalizione di governo, si accentua la nefasta gara mai sopita alla visibilità dei partiti, la corsa agli incarichi, l'affanno delle mediazioni infinite. Continua l'aumento della falange di sottosegretari, le liti sullo spacchettamento delle competenze ministeriali, le dispute su temi che il programma di governo pretendeva d'aver risolto una volta per tutte. Questo il quadro desolante che rischia di dissipare una parte del credito e delle aspettative riposte in Prodi e nella sua squadra, ancora così poco coesa da far temere l'avverarsi delle peggiori previsioni.
Temo che i protagonisti politici del centrosinistra non si rendano ben conto dei rischi crescenti di una situazione così fragile. Temo che se non supereranno rapidamente il crinale che li sovrasta, non riusciranno più a procedere nell'ardua scalata di cui conoscevano l'erta pendenza. E perciò li esorto, nel loro interesse e soprattutto nell'interesse del paese il quale non attende altro che d'esser governato con equità, con senno e conoscenza dei problemi, a rompere gli indugi e impedire esibizioni esiziali per una maggioranza così esigua. Non si è ancora sentita una mano ferma e non si è percepito un pensiero illuminato. Si continua a parlare di verifiche da parte di questo o di quel partito scontento. Ma una cosa debbono invece temere i dirigenti del centrosinistra: che la verifica sia chiesta a tutti loro da chi ha loro dato consenso e ora dubita dei risultati. Non c'è molto tempo a disposizione, anzi ce n'è assai poco.
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Dicevamo che le maggiori difficoltà oggettive riguardano la politica economica e la politica estera aggiungendo che per fortuna queste due postazioni sono ben presidiate. Facciamo dunque il punto di queste ardue partite cominciando da quella in corso tra il ministro dell'Economia, le autorità europee e la vasta platea dei lavoratori, degli imprenditori e del mercato.
Avremo entro luglio (questa ormai è cosa certa) una manovra dell'ordine di 7-10 miliardi per raddrizzare i conti riportando il deficit al 4 per cento e adottando nel contempo provvedimenti di stimolo alla crescita e alla competitività. E avremo un Dpef (Documento di programmazione economica) quinquennale che dia all'Europa e ai mercati traguardi certi per l'intera legislatura. Ma c'è disputa tra le parti sociali sul reperimento delle risorse e sulla ripartizione delle misure che incentivino la crescita.
Padoa-Schioppa sembra orientato ad applicare l'alleggerimento del cuneo contributivo ad alcuni settori di imprese escludendone altri. La Confindustria si batte invece per un taglio contributivo generalizzato e in maggior parte riservato alle imprese. I sindacati a loro volta chiedono il sostegno dei redditi più deboli per rilanciare la domanda interna.
A questo punto è opportuna una prima osservazione: se la manovra di luglio è prevedibile entro una dimensione massima di 10 miliardi (che non sono poca cosa coi tempi che corrono) essa sarà almeno per due terzi assorbita dal raddrizzamento del deficit e dal rifinanziamento dei cantieri dell'Anas e delle Ferrovie. Per le misure destinate a incrementare la crescita lo spazio oscilla dunque tra i 2 e i 4 miliardi, non di più. Il taglio del cuneo contributivo di 5 punti per tutto il sistema delle imprese è dunque escluso in partenza nella manovra-bis, visto che il valore di quel taglio è stimato a 10 miliardi.
Va dunque collocato nella Finanziaria del 2007 e non nella manovra di luglio, se vogliamo essere realistici. Se però si vuole - e a nostro avviso si deve - dare un segnale in positivo alla politica della crescita contemporaneamente a quella del raddrizzamento del deficit, il terreno sul quale operare non è tanto il cuneo contributivo quanto le imposte sul lavoro. Con 2-4 miliardi disponibili non si può fare di più, ma l'alleggerimento sui redditi bassi non sarebbe trascurabile.
Quando poi, nella prossima Finanziaria, si dovrà affrontare il problema della competitività, allora il criterio di generalizzare quella misura sembra il più corretto per non segmentare l'offerta. A quel punto sarebbe ragionevole ritoccare al rialzo le aliquote Irpef sui redditi più elevati, modificando il secondo modulo della riforma fiscale Tremonti che dissipò 6 miliardi di entrate senza ottenere alcuna ripercussione positiva sull'economia.
La manovra d'emergenza di luglio non potrà affrontare il tema del debito pubblico, che peraltro si colloca in prima linea nelle preoccupazioni di Bruxelles e della Banca centrale europea. Esso è reso ancor più preoccupante dalla riclassificazione in corso presso le autorità europee di alcune poste del nostro bilancio e in particolare di alcune cartolarizzazioni di debiti comunali e regionali che, se ricomprese nel debito pubblico italiano, lo aggraverebbero di almeno un punto di Pil portandolo decisamente al 110 per cento con effetti negativi sui "rating" e sui mercati.
Questo sarà - noi pensiamo - uno dei temi principali del Dpef, strettamente connesso a quello di altre grandezze finanziarie: avanzo primario, onere del debito in una fase di tassi di interesse in aumento. In Padoa-Schioppa i mercati e l'Europa hanno piena fiducia. Ma è chiaro che il nostro ministro dell'Economia avrà bisogno del sostegno politico di tutto il governo. Lì non ci sarà posto per voci dissonanti, tutti debbono essere ascoltati ma alla fine ci dev'essere uno che prende le decisioni a nome dell'intero governo.
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Sembrano addensarsi nubi sui rapporti del governo con l'Amministrazione Usa a proposito del ritiro del nostro contingente militare dall'Iraq. Nessuna questione - così sembra - sul rimpatrio del contingente, ma (dice il Dipartimento di Stato) Washington desidera che una missione di civili italiani resti a Nassiryia per portare avanti il programma di aiuti per la ricostruzione di quella provincia. Il Dipartimento di Stato ipotizza una presenza di 60 italiani civili e di 300 italiani militari che veglino sulla loro sicurezza. Sembrerebbe una questione di dettaglio, invece nelle ultime ore è diventata una sorta di ipoteca sui rapporti politici complessivi tra Usa e Italia. Non barattabile, dice Washington, con la nostra presenza in Afghanistan.
È un curioso modo di ragionare, questo dell'Amministrazione americana. Noi abbiamo deciso di ritirare il contingente militare. L'abbiamo deciso, anzi ribadito, in questi giorni. Il ministro D'Alema l'ha spiegato in dettaglio al legittimo governo iracheno ottenendone l'accordo. Washington ne prende atto e non si oppone (del resto non ne avrebbe titolo alcuno). Ma vuole, fermissimamente vuole, una presenza di 60 civili e 300 militari italiani a Nassiryia. Che cos'è, un'impuntatura? Un dispetto? Un atto di sfregio al governo di centrosinistra?
Stupiscono alcune voci giornalistiche che definiscono non chiara la nostra posizione sull'Iraq scorgendovi tracce del carattere storicamente "capitolardo" dell'Italia, da Caporetto all'8 settembre. Diciamo intanto che nella storia militare italiana non ci fu solo Caporetto. Ci furono tre anni nelle melmose trincee del Carso e dell'Ortigara, ci furono 600 mila morti e un milione di feriti in quelle trincee, un massacro senza nome e senza precedenti. L'8 settembre poi fu l'ingloriosa conclusione d'una ingloriosa guerra dove tuttavia non mancò la voglia degli italiani di battersi, in Grecia, in Russia, a el Alamein.
Mancarono i mezzi, il carburante, i cannoni, i carri armati, le scarpe, i cappotti, e mancò soprattutto la strategia degli alti comandi. Non c'era né poteva esserci la motivazione morale d'una guerra, voluta per avere "una manciata di morti" da far valere al tavolo di una pace supposta vittoriosa per il nazifascismo.
Tutto questo non c'entra niente con l'Iraq. Il centrosinistra da tre anni giudica un disastro la guerra irachena e un errore averci spedito truppe di pace coinvolte inevitabilmente nella guerra. Ha deciso di ritirare il contingente militare. Lo farà entro l'autunno, con quattro mesi di preavviso a partire. Vuole essere presente con aiuti economici e tecnici. Non spetta all'alleato americano stabilire quanti e dove debbano essere i civili italiani e quanti i militari addetti alla loro sicurezza. Non risulta che analoghi vincoli siano stati posti alle imprese tedesche, francesi, russe che operano in Iraq nella totale assenza di truppe di quei paesi. Noi siamo diversi? Perché siamo diversi? Una risposta dovrebbe pur esser data.
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Resta il tema Afghanistan. Tema complesso perché la situazione in quel paese è in fase di rapido deterioramento. A Kabul c'è un governo poco più che fantasma. I Taliban sono sempre più presenti e riorganizzati sia nelle province di confine col Pakistan sia ai confini con l'Iran, dove la guerriglia ingrossa a vista d'occhio.
È giusto non ritirare i nostri soldati dall'Afghanistan, posti sotto bandiera Onu e quindi costituzionalmente in regola. Ma è altrettanto giusto ridiscutere le finalità della missione e di conseguenza le relative regole di ingaggio dei militari presenti su quel teatro.
Allo stato dei fatti noi non contiamo quasi nulla in Afghanistan: forniamo manovalanza militare e basta. Trattandosi di una missione Onu è nostro diritto-dovere partecipare all'elaborazione di strategie e di tattiche operative. E politiche. Purtroppo da qualche tempo, ovunque vadano, le truppe americane eccitano il malcontento e l'ostilità delle popolazioni locali. In particolare in territori dell'area islamica. Qualche ragione ci sarà. È degli eventuali errori che dobbiamo parlare. Non per ritirarci, ma per restare con dignità e utilità.
11 giugno, 2006
L'allergia italiana a Zapatero
Barbara Spinelli su La Stampa dell'11 Giu
Se c’è un nome che in Italia quasi non puoi pronunciare, senza sentirti come appesantito da ridicolo cappotto, è il nome di Luis Rodríguez Zapatero. È una sorta di allergia radicale, accanita, che in nessun paese europeo ha l'accaldata intensità italiana e su cui vale dunque la pena meditare. Zapaterista è diventato epiteto insultante, che macchia il destinatario indelebilmente. Zapaterismo è sinonimo di stile politico ignobile: più ignobile ancora d'una dottrina, un'ortodossia. Nel pantheon dei personaggi negativi, il premier spagnolo figura accanto a tipi poco raccomandabili che non gli somigliano punto: Che Guevara, Castro. Deriva zapaterista è stereotipo che potrebbe benissimo comparire nel Dizionario dei Luoghi Comuni di Flaubert: evoca gli impaurenti cosacchi a San Pietro, ha osservato con appropriata ironia Mario Pirani (Repubblica, 13-3-06). Più che un'allergia è una passione, quella che s'abbatte sul successore di Aznar. Per questo urge indagarne l'interna molla, l'irrazionalità, la genealogia: non solo per capire meglio la Spagna, ma per capire un po' meglio noi stessi e la nostra idea della democrazia minacciata.
Tre eventi hanno indisposto un gran numero di politici e intellettuali italiani, dando corpo allo stereotipo che ci impacchetta e ci incarta: la vittoria elettorale del leader spagnolo, successiva all'attentato dell'11 marzo 2004; la decisione - subito dopo - di ritirare le truppe dall'Iraq; la determinazione con cui Madrid resiste a clero e Vaticano in materia di diritti civili. Zapatero è divenuto simbolo del cedimento al terrorismo, del Tutti a Casa in politica estera, dell'anticlericalismo dogmatico. Ma c'è qualcosa di più che muove a sdegno, e che lo trasforma in fiamma. Zapatero irrompe nella discussione sul futuro della sinistra scompigliando discorsi e modelli cui pigramente ci siamo abituati. D'un tratto non è più Blair a rappresentare il socialismo nuovo, non ideologico. Tutti parlano di lui, anche Ségolène Royal a Parigi, ma nel frattempo c'è un altro riformismo possibile, che non consiste semplicemente nell'adottare, su questioni ritenute centrali dell'economia, politiche di destra. Zapatero indica quest'altra via - una via molto europeista d'altronde - cominciando col dire che la discriminante centrale non è l'economia ma la reinvenzione della politica e della democrazia. Un libro uscito nel 2006 da Feltrinelli spiega bene quest'alternativa: Zapatero - Il Socialismo dei Cittadini (curato da Marco Calamai e Aldo Garzia) è documento prezioso.
Il nuovo consiste nell'estendere i diritti e le libertà di individui o minoranze, accettando l'enorme varietà delle preferenze esistenziali in società rese insicure da disoccupazione, immigrazione, terrorismo. I soldi mancano per politiche sociali magnanime, agire sull'economia è divenuto tremendamente complicato a causa di vincoli e incompatibilità: meglio allora concentrarsi sulle riforme «a costo zero» - riforme civili più che economiche, dice Antonio Gutiérrez che oggi dirige la Commissione economica del Congresso dei deputati - che danno al cittadino la sensazione di essere ascoltato, rispettato anche quando la vita si fa per lui difficile. Zapatero ha fatto molto in questo campo: ha esteso i Pacs accettati da Aznar rendendo legali i matrimoni tra omosessuali, ha sveltito la legge sul divorzio, ha legalizzato 800 mila immigrati clandestini trasformandoli in cittadini con diritti e doveri fiscali, ha introdotto una legge sulla violenza contro le donne. A queste ha aperto uno spazio senza eguali in Occidente (il 50 per cento delle cariche governative). Ha anche fatto riforme che costano, come gli asili nidi e gli aiuti alle persone non autosufficienti per età o malattia (il cosiddetto quarto pilastro dello Stato sociale, essenziale in società che invecchiano, affiancato a educazione, salute, pensioni). Può darsi che le riforme siano state troppo frettolose: «Non si fa tempo a rispondere al contrattacco della destra e della Chiesa, che il governo già ha aperto un nuovo fronte riformatore», obietta Gutiérrez, che però sostiene Zapatero perché le sue sono pur sempre riforme volute da vaste maggioranze di spagnoli.
Precisamente questa novità indispettisce tanti politici e intellettuali italiani, anche a sinistra. Indispettisce lo spazio dato alla società civile e ai diritti, a scapito non solo della centralità dell'economia ma dei poteri partitici (Prodi stesso fu guardato con diffidenza da apparatchik e benpensanti di sinistra quando propose le primarie, fino al momento in cui le vinse alla grande). Indispettisce quella che per Zapatero è etica politica irrinunciabile: «Mantenere la parola data, fare quel che si dice e dire quel che si farà». Indispettisce, più ancora forse del ritiro dall'Iraq e della strategia latino-americana, l'autonomia dalla Chiesa. Resistere al Papa e alle Conferenze episcopali è inconcepibile, oggi in Italia. Tutti in Italia hanno bisogno di ottenere l'imprimatur da una forza esterna, tutti si sentono in qualche modo minorenni e illegittimi - non solo i Ds - e la Chiesa diventa tutore che non si osa contestare. Ogni riformista deve fare da noi concessioni sulla laicità: Zapatero problemi simili non ne ha. È alle correnti conciliari che egli s'appoggia, a teologi come Enrique Miret Magdalena che nel laico argomentare somiglia al nostro Enzo Bianchi. Solo che Miret Magdalena non è ingiuriato quando ricorda che lo Stato e l'Europa sono aconfessionali, e che fin dalla teologia cinquecentesca di Domingo De Soto o padre Molina «la legge civile è fatta per garantire la convivenza tra i cittadini, non per garantire la morale cattolica». In Spagna è pietra di scandalo che il Papa parli di silenzio di Dio a Auschwitz, e appena nove giorni dopo lasci che lo stesso concetto («eclissi di Dio») sia applicato dal Vaticano a unioni di fatto o matrimoni omosessuali. Non da noi.
Indispettisce infine il rapporto di Zapatero con il passato franchista. Il premier inaugura una politica della memoria che prima era assente, e questo accade nel preciso momento in cui in Italia la memoria accende risse, e la resistenza è ridimensionata. Tutte queste mosse irritano perché scombinano tesi apparentemente dissacranti, ma che in fondo hanno generato nuovi allineamenti. Molto è cambiato da noi ma il conformismo delle élite sembra immutato: è antico, tenace, Jean-François Revel lo denunciava già nel '58, nel libro Pour l'Italie. Per conformismo più che per convinzione si plaude oggi al Papa, e a valori europei uniformi. Per conformismo si dice che la sinistra è buona solo se fa politica di destra, e si scorge in Blair l'unico vero modello. Per conformismo si sostiene che l'etica in politica è qualcosa d'incongruo e risibile: gradito solo a girotondini, attori comici e zapateristi. Qualche giorno fa, replicando a un articolo che sospettava Prodi di ritirarsi dall'Iraq senza coscienza morale, D'Alema ha detto parole che in Italia hanno la freschezza delle dichiarazioni inedite: «La coerenza fra gli impegni che si assumono con i cittadini e le cose che si fanno è a mio avviso un aspetto cruciale del rapporto fra etica e politica» (Corriere della Sera, 30-5-06). È proprio questa l'etica di Zapatero, chiamata da noi deriva e a Madrid mantenimento della parola data. Il conformismo italiano mescola cattolicesimo e economicismo marxista. Neppure s'accorge che le sinistre estreme sono oggi marginali in Spagna, grazie alla preminenza di diritti e laicità sulla classica questione sociale.
In realtà Zapatero innova rispetto a Blair, anche se fa proprie molte sue accortezze economiche. Ha meditato la crisi della democrazia, della politica, e la sua terza via non è quella che aderisce al liberismo e al conservatorismo Usa rinunciando all'identità di sinistra. Come si evince nel libro di Calamai e Garzia, altri sono i riferimenti di Zapatero. Fra questi spicca Philip Pettit, lo studioso che ha teorizzato il repubblicanesimo e il socialismo dei cittadini (i suoi libri son pubblicati da Feltrinelli e dall'Università Bocconi). Nella parola socialdemocratico - dice Zapatero - è il democratico che prevale. Pettit propone un'idea di libertà né liberista né socialista: un'idea più esigente della libertà negativa (libertà dall'interferenza); e meno comunitarista della libertà positiva, che persegue fini collettivi o statali in nome di tutti.
Per il repubblicanesimo può non sussistere interferenza ma può esserci dominio, ed è questo dominio - la paura è una delle sue armi - che occorre controbilanciare con leggi che prevengano sul nascere interferenze sia reali sia potenziali, spingendo gli individui a partecipare alla politica e a contare sullo Stato. Fondamentale, in Pettit, è la vigilanza dei cittadini: «l'eterna vigilanza» nei confronti delle autorità, delle istituzioni, delle degenerazioni tiranniche. Per questo è indispensabile il pluralismo dell'informazione e il rifiuto dei monopoli televisivi, in Pettit come in Zapatero. In una delle prime mosse, quest'ultimo ha restituito al servizio pubblico piena autonomia dal potere politico (un po' come chiesto dall'Usigrai, sindacato dei giornalisti Rai, in una lettera a Prodi del 5 giugno).
Un'altra cosa dice Zapatero, che spiega i pregiudizi italiani nei suoi confronti: «Le persone che meglio sanno esercitare il potere sono quelle che non lo amano». Chi lo ama troppo non ritiene che il mondo vada cambiato per il meglio, usando come alibi i passati errori del socialismo: ciò di cui ha orrore è il rischio, e chi rischia mette sempre in gioco il proprio potere.
Si dice che in un'economia dissestata la sinistra ha pochi margini, per forza. Che il terrorismo restringe diritti e libertà, per forza. Che non esiste quindi vero scontro destra-sinistra. Zapatero con tutte le sue precipitazioni dimostra che non è vero, che niente avviene fatalmente, che la politica è l'arte di creare isole di libertà nel mare della necessità. Isole che permettono ai Giusti di Borges - autore che Zapatero cita spesso, di cui si dichiara «estimatore fino all'ossessione» - di esistere: l'uomo giusto è «chi preferisce che abbiano ragione gli altri», i Giusti «che si ignorano stanno salvando il mondo». Il conformismo che affligge l'Italia politica ha come fine la conservazione del potere, più che l'emergere del giusto. Anche accettare un mondo interamente dominato dalla necessità è conformismo. Un conformismo meno diffuso nella società, che i rischi li teme ma non li respinge.
Per questo Zapatero è figura significante. Lui stesso racconta come adottò l'etica della parola data. Fu quando, il giorno della vittoria, sentì gli spagnoli gridare: No nos falles!- Non ci deludere! Lì capì - dice - che «il potere è nelle mani di chi il potere non ce l'ha». Che chi governa deve sempre dire: «Il potere non mi cambierà». Che per far rinascere la politica, la partecipazione dei cittadini, la loro responsabilità, occorre estendere diritti e democrazia. Non a dispetto del terrorismo e dell'economia, ma proprio perché viviamo tempi di terrorismo e di difficoltà economica.
Trovata l'intesa. Quindi si litiga
Enzo Biagi su Corriere.it dell'11 Giu
In autunno tutti a casa, ha detto il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, rispettando così le promesse fatte dal centrosinistra durante la campagna elettorale. D'altra parte era l'impegno, più o meno, preso anche dal governo Berlusconi il quale garantiva il rientro dei nostri soldati dall'Iraq entro l'anno. Posizioni, dunque, che si differenziano tutt'al più per pochi mesi. «Troppo sangue è stato versato» sono state le parole di Arturo Parisi, responsabile della Difesa, garantendo che tutto avverrà in condizioni di sicurezza e d'accordo con gli alleati e con gli iracheni. Ma il nostro è uno strano Paese e sembra impossibile, per chi sta all'opposizione, ammettere che le scelte fatte dal nuovo inquilino di Palazzo Chigi sono condivisibili e, soprattutto, simili alle loro almeno nella sostanza.
Niente da fare, e anche stavolta si è alzata la voce di Silvio Berlusconi che ha parlato di «resa al ricatto criminale ed evasione di responsabilità».Scusi, Cavaliere, ma lei e i suoi non avevate parlato agli italiani del disimpegno, certamente graduale ma sempre disimpegno, delle forze armate? La posizione italiana non è paragonabile a quella spagnola, quando il leader Zapatero, vinte le elezioni, decise il ritiro immediato delle sue truppe dal conflitto e lo completò in un mese e mezzo. Noi, mi pare con senso di responsabilità, avvieremo un programma di aiuti, sia per la popolazione civile sia per l'addestramento per il nuovo esercito iracheno. Neanche così va bene? Curioso che il presidente, il premier e il ministro degli Esteri di Bagdad abbiano caldamente apprezzato la visita e i discorsi di D'Alema: forse hanno capito che, se ce ne andiamo, potranno, piano piano, riprendersi il loro Paese.