13 maggio, 2006

Che illusione la ripresa senza riforme

Tito Boeri su La Stampa 13 Mag

E’ cresciuta più del previsto l’economia italiana nel primo trimestre del 2006, portando con sé anche un forte incremento delle entrate da imposte indirette. Ma non illudiamoci né sulla ripresa, né sul miglioramento dei conti pubblici. Il Paese è in declino. La misura di questo stato della nostra economia è la caduta di quella che, nel gergo degli economisti, si chiama crescita del prodotto potenziale, il ritmo a cui un’economia può crescere per lunghi periodi di tempo. Non può essere certo un trimestre fortunato (lo era stato anche il secondo trimestre del 2005, poi terminato a crescita zero) né un grottesco titolo del «Foglio» a decretare la fine del declino.
Sarebbe un errore gravissimo per il governo che entrerà in carica la prossima settimana ripetere l'errore dell'esecutivo che l'ha preceduto: illudersi che possano venire tempi migliori senza riforme strutturali della nostra economia. I dati resi noti in questi giorni dall'Istat semmai non concedono alcun alibi al nuovo governo. Permettono, infatti, di non dovere passare tempo a ricercare consenso attorno a misure tampone, riducono le pressioni per varare una manovra aggiuntiva nel 2006. Tutti gli sforzi potranno essere riposti nel mettere in atto quegli interventi di liberalizzazione dei mercati di cui si fa ampio cenno nel programma dell'Unione. Si potranno anche avviare subito tavoli di confronto, fissando per questi un tempo limite, dettato dallo stato di emergenza della nostra economia, entro cui giungere ad un accordo.
Cento giorni devono bastare per siglare con gli enti locali un nuovo patto di stabilità interno volto a contenere la spesa pubblica, per concordare con le parti sociali la revisione dei coefficienti di trasformazione utilizzati nel calcolo delle pensioni future (altra «patata bollente» lasciata in omaggio dal passato esecutivo) e le misure contro il precariato e per accelerare il decollo della previdenza integrativa. E’ interesse del governo varare al più presto questi provvedimenti perché il dividendo di crescita di queste riforme è destinato a manifestarsi solo fra qualche anno.
Affinché paghino alla prossima tornata elettorale, queste riforme devono essere fatte subito. Anche la maggioranza risicata al Senato di cui può godere la nuova maggioranza non può essere un alibi per una strategia attendista. Al contrario, il governo può riuscire a spostare sulle proprie posizioni settori della minoranza, migliorando i propri numeri al Senato, solo nei prossimi 18 mesi. Per farlo dovrà mostrare a tutti la propria voglia di fare e innovare. Neppure la cosiddetta spaccatura in due del Paese (fisiologica in ogni regime bipolare) impedisce le riforme. Al contrario, il centro-sinistra può sfruttare il fatto di avere raccolto consenso soprattutto fra giovani e lavoratori dipendenti per attaccare le posizioni di rendita che sono presenti in molti servizi, nel lavoro autonomo e nelle libere professioni e per cercare di avere orizzonti lunghi, dedicando la giusta attenzione ai problemi della scuola e dell'università.
L'elettorato di riferimento del nuovo governo si sentirebbe tradito se la scelta per il ministero dell’Istruzione e dell’Università dovesse essere una volta di più dettata da criteri residuali, nel tentativo di accontentare qualche componente della maggioranza rimasta poco rappresentata nelle trattative sulla composizione dell'esecutivo. Non si può affidare la ricerca e il capitale umano delle generazioni future a chi intende salvaguardare lo status quo, a dispetto della profonda crisi dell'università e della scuola italiana.
Per tutti questi motivi il governo potrà e dovrà, per sopravvivere, avere orizzonti lunghi, molto più lunghi dell’esecutivo che l’ha preceduto. La stessa operazione sul cuneo fiscale, il taglio delle tasse sul lavoro, su cui Prodi si è molto impegnato, potrà servire a stimolare l'economia solo se anticamera di riforme che guardino molto più in là. Altrimenti sarà come offrire una sola boccata d'ossigeno a chi sta nuotando a cento metri di profondità. Senza riforme strutturali il taglio del cuneo sarà come una delle tante svalutazioni competitive condotte negli Anni Settanta e Ottanta e che sono servite solo a celare l’incapacità della nostra classe dirigente di pensare al futuro del nostro Paese.

Giannelli 13 Mag

12 maggio, 2006

La vittoria dello sconfitto

Giordano Bruno Guerri su Il Giornale 12 Mag

La proclamazione di Giorgio Napolitano come undicesimo presidente della Repubblica è stata un momento storico surreale: tre sconfitti dalla Storia celebravano sorridenti la propria vittoria nella cronaca. Franco Marini, reduce di un partito disciolto nelle carte bollate giudiziarie, ma presidente del Senato, guardava con soddisfazione il comunista Fausto Bertinotti proclamare l'ascesa al Quirinale di un ex comunista il cui merito maggiore appare - oggi - essere sempre stato sconfitto anche nel suo stesso partito.
Non è di certo un caso se ieri proprio i giornali della sinistra più pura e dura si sono distaccati dai cori melensi e osannanti che in questi casi si levano da quasi tutta la stampa. Sul Manifesto Valentino Parlato ha colpito con rara ferocia e efficacia, con due righe di sintesi sul neopresidente: «Non condivido tutte le sue idee, ma alcune le ha e ci tiene». Su Liberazione Piero Sansonetti rileva che Napolitano «Non fu tra i primi, sicuramente, ad abbandonare il mito sovietico»: né abbastanza puro né abbastanza duro, insomma. L'entusiasmo si spreca, invece, nella sinistra più moderata e tra chi, nella grande stampa, la fiancheggia.
Fra tutti, surreale come la scena che abbiamo appena ricordato, c'è l'editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera. Mieli sostiene che «se» nel 1972 Napolitano fosse stato nominato alla guida del Pci al posto di Berlinguer, quel partito «avrebbe abbandonato le stesse insegne del comunismo ben prima del 1989» e «l'unità della sinistra si sarebbe potuta fare molto prima». La conclusione di questa storia fatta con i se è che l'elezione di Napolitano rappresenta «Un premio e un risarcimento a quella parte minoritaria del Pci che già quarant'anni fa seppe guardare lontano (e vide giusto)». Insomma, un premio e un risarcimento per chi, passata metà della vita sposando un'idea sbagliata, ha passato l'altra metà battuto e ribattuto dai suoi stessi compagni di partito. I quali l'altro ieri l'hanno imposto alla massima carica dello Stato non perché gli riconoscessero il merito di avere avuto ragione, ma perché è la destra a riconoscergli il merito di avere almeno provato a cambiarli.
Se volessimo spingere all'estremo del paradosso la tesi di Mieli, potremmo ugualmente sostenere che i successori di Mussolini potevano essere Giuseppe Bottai o Dino Grandi se non addirittura, meglio ancora, Leandro Arpinati. Ma è - ripeto - un paradosso. Per niente paradossale invece è quest'altra tesi, che dovrebbe essere la più giusta e logica conclusione dell'analisi di Mieli: se proprio si doveva premiare chi aveva visto giusto ma non ce la fece, oggi al Quirinale avremmo uno degli ex comunisti che non aspettò i dintorni del 1989 per capire, ma che si staccarono dal Pci nel 1956. Ce ne sono di ancora vivi, anche se dimenticati e senza potere alcuno proprio in virtù di quella scelta coraggiosa e avanzata, democratica e occidentalista nel momento giusto, non trent'anni dopo.
Quanto a Berlusconi, cui Mieli rimprovera di non avere sostenuto la candidatura di Napolitano, ci sarebbe piaciuto trovare sul Corriere della Sera la saggia riflessione che abbiamo invece dovuto leggere sul Riformista, a firma di Piero Melograni: il quale, mentre assisteva alla nomina del nuovo presidente della Repubblica, pensava «alle sciocchezze tanto spesso ripetute in Italia da coloro i quali hanno sostenuto in tempi recenti che lo strapotere di Berlusconi e delle sue televisioni avrebbe soffocato la democrazia portando a un nuovo fascismo». Non è un caso che Melograni sia uno di quelli usciti dal Pci nel 1956. Oggi, un mancato presidente della Repubblica.

Forattini 12 Mag

L’uomo che sopravvisse alla prima Repubblica

Luigi La Spina su La Stampa 12 Mag

La straordinaria carriera di un servitore dello Stato gentile come un nobiluomo e furbo come un levantino.
Anche lui era un emigrante e aveva la valigia di cartone. Quando arrivò dalla natìa terra pugliese a Roma, negli anni del primo dopoguerra, amava soprattutto due spettacoli: quello del teatro, che frequentava come assiduo claqueur, e quello delle aule parlamentari, che spiava dall’alto delle tribune. Figlio di un bibliotecario di provincia, poteva soddisfare così gratuitamente le sue passioni, alle quali è rimasto sempre fedele. Alla prima ha coltivato anche un figlio che è diventato attore, alla seconda ha dedicato la sua vita. Don Gaetano, di cui per primo il padre intuì la sua massima virtù, soprannominandolo «Prudenziano», è il tipico uomo di Stato italiano. La nostra storia unitaria ha ereditato, in fondo, solo due vere burocrazie, quella sabauda e quella borbonica, poiché la migliore di tutte, quella del Lombardo-Veneto, era austriaca. Gifuni l’ha ereditate insieme, fondendo l’obbedienza militar-diplomatica della prima con la sapienza umana, fantasiosa ed accattivante, della seconda. Meridionale lo è fino alle midolla, con i più tipici clichè del luogo comune: circondato da amuleti e da rossi cornetti, è accanitamente superstizioso, nella più alta tradizione del suo filosofo prediletto, Benedetto Croce. Sempre coperto da palandrane nere e candide sciarpe, teme gli spifferi d’aria e ama, invece, quelli politici che racconta con arguzia da vero teatrante. Ha il terrore dell’aereo, avendo avuto il suo battesimo dell’aria solo dopo i cinquant’anni.
Come racconta in un brillante ritratto Massimo Franco, nel libro «Il re della Repubblica», è gentile come un nobiluomo del Sud, abile e furbo, come un mercante levantino, saggio e scettico, come un napoletano di Eduardo. Su queste doti, coniugate con il supremo talento di incantatore di uomini e di navigatore tra pandette e codicilli, ha costruito in cinquant’anni la più straordinaria carriera di servitore dello Stato che l’Italia repubblicana abbia finora conosciuto.
Lo studente di provincia
Il suo viaggio all’interno di quei palazzi che osservava con giovanile stupore di provinciale studente universitario, comincia, dopo una brevissima esperienza all’Unioncamere e alla Confindustria, al Senato. E’ questa, in realtà, la sua vera casa. A Palazzo Madama segue la grande tradizione dei suoi maestri Nicola Picella e Franco Bezzi, entrambi segretari generali e ne diviene dominus assoluto. Un aneddoto, poco conosciuto, è rivelatore. Quando Fanfani, nel 1987, lo nomina ministro per i Rapporti col Parlamento, per tre mesi di governo balneare, don Gaetano riesce a non far nominare nessuno al suo posto di segretario generale del Senato. Terminato il suo compito ministeriale, ritorna a Palazzo Madama con la sua macchina di servizio e al portiere che lo saluta chiede: «Spadolini è in sede?». Assicuratosi della presenza del presidente del Senato, sale nel suo ufficio e, senza avvertirlo, comincia tranquillamente a lavorare, come se quei tre mesi non ci fossero stati. Né alcuno, dal supremo vertice di Palazzo Madama fino all’ultimo senatore, osa ricordargli un’assenza che, in realtà, evidentemente non era mai stata avvertita.
La stima di Scafaro
Fu proprio la conoscenza e la stima che il ministro dell’Interno di quel breve gabinetto Fanfani, Oscar Luigi Scalfaro, ebbe per don Gaetano a consentirgli l’approdo al Quirinale. Alla Presidenza della Repubblica, Gifuni compie una vera e propria metamorfosi: conservando la gentilezza e la diplomazia dell’antico «Prudenziano», sfodera una fermezza e una abilità che non aveva ancora potuto dimostrare. Crolla quella prima Repubblica alla quale sembrava non potesse sopravvivere una figura felpata come la sua. Ma lui dimostra di poter reggere anche i ferrei tempi della seconda. Sfoglia con Berlusconi il calendario delle ipotetiche elezioni anticipate del ‘95 e poi favorisce l’avvento del governo Dini, il famoso «ribaltone». Fronteggia con Scalfaro, a suon di silenzi eloquenti e di fragorosi «signor no», le accuse di Mancuso e quelle sui fondi del Sisde. Quando le polemiche non si rivolgono al Presidente della Repubblica, ma direttamente a lui, come la campagna dell’«Espresso», nel 1999, sugli eccessivi emolumenti al segretario generale e agli altri funzionari del Quirinale, respinge l’offensiva con l’assoluto mutismo: sa che la risposta alimenta lo scandalo e il turnover degli avvenimenti è il suo migliore alleato.Con Ciampi, infine, don Gaetano inaugura la sua terza metamorfosi: da combattente a «cuscinetto» tra Quirinale e Palazzo Chigi, dove ritorna un difficile inquilino, quel Berlusconi che del famoso calendario non sembra essersi dimenticato. La coppia Gifuni-Letta, in realtà, gestisce lo Stato negli ultimi cinque anni: sorveglia e corregge il testo delle leggi, piazza gli uomini nei principali gangli del potere, guida gli apparati burocratici nei più delicati affari della Repubblica. E forse era inevitabile che lo sfratto dai due palazzi arrivasse, pure lui, in coppia.

Articoli del Prof. Stefano Ceccanti

Pagina con la raccolta di numerosi articoli scritti dal Prof. Stefano Ceccanti, Professore di Diritto costituzionale italiano e comparato, su Il Riformista.

Scritti recenti di Giorgio Amendola

Qui e qui si possono leggere recenti scritti di Giorgio Amendola.

Moderati deberlusconizzati

Claudio Rinaldi su L'Espresso 12 Mag

C'erano una volta due leader ambiziosi. Si chiamavano Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini. Nel luglio del 1994, quando il primo governo Berlusconi varò il cosiddetto decreto salva-ladri, non esitarono a imporne il ritiro: ragionavano con le loro teste, allora. Poi si nascosero all'ombra del vulcanico Silvio, nell'illusione di poterne sfruttare le risorse in vista della successione, e lì sono rimasti acquattati per anni. Nel 2001 pagarono a caro prezzo quella scelta di subordinazione, con Forza Italia che da sola conquistò oltre il doppio dei voti raccattati da An e Udc messe insieme. Nella legislatura appena finita i due sono tornati ad azzardare qualche gesto di autonomia. Timidissimo. Il no all'abolizione della par condicio e poco altro. Ma ora? Che cosa intendono fare delle loro pallide esistenze, ora che le elezioni del 9-10 aprile hanno creato nuovi rapporti di forza all'interno della destra? La domanda riguarda il futuro della democrazia italiana, non i possibili sviluppi di un paio di carriere. Sulle spalle di Casini e di Fini grava una pesante responsabilità nazionale, quella di sottrarre quasi metà dell'elettorato al dominio di un autocrate che dei consensi rastrellati ha sempre fatto un pessimo uso. Si tratta per loro, anche se l'espressione è orribile, di avviare la deberlusconizzazione: senza proclami ineleganti, certo, ma in concreto. Ed è in questa primavera-estate del 2006 che i due, se ci sono, devono battere un colpo. Per almeno tre ragioni.

1. La prima è che proprio adesso Berlusconi sta confermando di avere, accanto a molte qualità, anche i vizi assurdi di un bambino. Di un bambino capriccioso. Per esempio: con che faccia il 26 aprile ancora si ostinava, attraverso Sandro Bondi, a dichiarare che l'Unione "non ha vinto regolarmente le elezioni"? Prima che eversivo, il suo rifiuto di ammettere la sconfitta era ed è ridicolo. E il guaio è che nella vita dell'uomo la rimozione delle realtà sgradite rappresenta una costante: neanche nel 1996 Berlusconi riconobbe di avere perso. Oggi va dicendo, senza lo straccio di una prova, che i brogli della sinistra gli rubarono un milione e 705 mila voti. Sulla sua tragicomica immaturità il 'Financial Times', un giornale fuori dalle piccole mischie nostrane, ha scritto il 21 e il 22 aprile parole definitive: il premier uscente è "un cattivo perdente che tiene il broncio", e se insiste è perché "crede che la truculenza pagherà". Puerile anche la minaccia, poi caduta, di ritardare al massimo le dimissioni da Palazzo Chigi. Dei requisiti di uno statista, nessuna traccia. Come possono Casini e Fini rimanere intrappolati in un giardino d'infanzia dove i giochi sono truccati e non divertono nessuno?
2. Va poi detto che Forza Italia, benché il suo capo indulga a un trionfalismo smodato, è stata duramente punita dagli elettori. Molti moderati, seguendo il consiglio dato da Paolo Mieli nel 'Corriere della sera' dell'8 marzo, l'hanno abbandonata a beneficio di An e Udc: alla Camera il partito-azienda ha perso ben 52 dei 189 seggi guadagnati nel 2001, cioè il 27,5 per cento. Una decimazione brutale. Rispetto alla quale un perdurare dello strapotere berlusconiano nella destra costituirebbe una contraddizione inspiegabile, il contrario dell'"opposizione intelligente" che Fini ha appena promessa. Peggio ancora se le chiacchiere sul fantomatico partito unico ricominciassero sotto la regia esclusiva del Cavaliere, e con Nando Adornato che compila verbali pretenziosi.3. È lo stesso Berlusconi infine a confessare, senza volerlo, che il suo ruolo di leader di una coalizione si è indebolito di brutto. Si rilegga il comunicato forzista del 25 aprile, che invitava Carlo Azeglio Ciampi a consultare i partiti uno per uno: "La legge elettorale proporzionale ha introdotto una spiccata individualità delle singole forze politiche e dei loro gruppi parlamentari...". Se Casini e Fini volessero mettersi in proprio più di quanto finora non abbiano potuto, dunque, sarebbero autorizzati a farlo. Che cosa aspettano?Del resto la loro emancipazione dal despota, resa finalmente possibile dall'avvento di un governo Prodi, avrebbe ancora più senso nella remota ipotesi di un governo di larghe intese. In tal caso il passo indietro di Berlusconi, come insegna un precedente illustre, sarebbe scontato. Un atto dovuto. Chi non ricorda le elezioni del 18 settembre 2005 in Germania? Anche Gerhard Schröder aveva governato per anni; anche lui era massacrato dai sondaggi; anche lui ha compiuto una vigorosa rimonta grazie a una campagna efficace; anche lui ha sfruttato con abilità la paura delle misure fiscali ventilate dai suoi avversari; anche lui ha perso di strettissima misura, con la sua Spd forte di 222 seggi al Bundestag contro i 225 della Cdu-Csu. Dopo una poco dignitosa melina, però, ha dovuto cedere la poltrona di cancelliere ad Angela Merkel. Contemporaneamente ha lasciato la politica; e con la complicità di Vladimir Putin, che è un amichetto di Berlusconi, si è messo a fare soldi. Contento lui, contenti tutti. Agli storici alleati del Cavaliere, sia chiaro, nessuno chiede clamorose abiure. Se preferiscono fingere che la Casa delle libertà sia quella di prima, padronissimi. Ma tocca a loro, mentre la stagione berlusconiana si chiude fra meschine ripicche e tentati colpi bassi, aprire per i moderati italiani un futuro più degno. L'instaurazione di un confronto corretto con il centro-sinistra può essere un buon inizio; purché Prodi e i suoi non commettano l'esiziale errore di fare gli schizzinosi, di pensare che a destra soltanto Berlusconi va preso sul serio.

Forza Silvio, cambia tutto

Renato Farina su Libero 12 Mag

Il miracolo non è bastato. Adesso il Cavaliere deve metter mano a Forza Italia.
Qualcuno dovrebbe avvertire i leader politici del centrodestra, e soprattutto lui, il Number One. Abbiamo perso. Le elezioni (truccate, imbrogliate, falsificate da una legge cretina) hanno consegnato il Paese ai prodiani. Hanno preso tutto, meno le nostre teste. Ma teniamole libere dal rimpianto. È vero: abbiamo perso ai rigori, e forse l'ultimo non era valido. Ma la Coppa se la sono messa in bacheca loro. Finché il Cavaliere e noi tutti non realizziamo di aver preso una batosta, ci trascineremo tra lacrime e illusioni. Essere vincitori morali è molto bello, ma insistere sul concetto rischia di trasformarci in visionari. In fondo anche il comunismo e il nazismo sono andati su in modo poco elegante, ma non serviva dire: non vale. Silvio, tu sei il nostro mito, non trasformarti nel nostro mitomane. Dovrai traslocare da Palazzo Chigi, portar via foto e bandierine, un altro darà la forma delle sue chiappe alla poltrona presidenziale. Non se lo merita, ma va così il mondo. continua...

Se nella CDL comanda Calderoli

Emanuele Macaluso su Il Riformista 12 Mag

è bene ricordarlo: RobertoCalderoli è statoministro per le riforme nelgoverno Berlusconi. Il qualeha ripetutamente dettoche, quel governo, gli italianilo rimpiangeranno. An-che perché, aggiungiamonoi, c’era il ministro Calderoli.Il quale, come uomo digoverno, si presentò in tv emostrò agli italiani la magliacon le vignette antislamiche,provocando la reazionenon solo del mondoarabo ma di tutte le personecivili. Calderoli è lo stessoministro che si adoperònel fare quella legge elettoraleche poi definì una porcata.Più recentemente, dopol’elezione del presidentedella Repubblica, ha dichiaratoche non riconosceGiorgio Napolitano comecapo dello Stato. Un’affermazionedi stampo eversivo.
Tuttavia il capo della Casa delle libertà, una coalizioneche rappresenta lametà degli elettori, è condizionatonelle decisioni politichepiù impegnative porcata.Più recentemente, dopol’elezione del presidentedella Repubblica, ha dichiaratoche non riconosceGiorgio Napolitano comecapo dello Stato. Un’affermazionedi stampo eversivo.Tuttavia il capo dellaCasa delle libertà, una coalizioneche rappresenta lametà degli elettori, è condizionatonelle decisioni politichepiù impegnative.

Giannelli 12 Mag

11 maggio, 2006

Comunismo coi pannoloni

Vittorio Feltri su Libero 11 Mag

Napolitano rappresenta un'ideologia vecchia e fallimentare ma mai rottamata. Bene ha fatto il centrodestra a non rendersi complice della penosa elezione del paravento di Prodi
Non ho brindato e sapevo che non lo avrei fatto. Era noto che sarebbe passato un uomo della Quercia per ovvi motivi. I politici, poveracci, dicono sempre con sussiego di non avere a cuore le poltrone; in realtà non pensano ad altro. Provate a sfilargli la cadrega su cui posano gli onorevoli glutei. In questa logica i diessini erano creditori nei confronti dell'Unione: il seggiolone della Camera è andato al gemellino di Fidel Castro, Fausto Bertinotti in Prodi; il seggiolone del Senato è andato a Franco Marini, democristiano d'antico pelo marsicano. Rimaneva giusto il Quirinale, al cui inquilino la Costituzione affida il ruolo di rappresentare gli italiani.

Il maggior pretendente era D'Alema, a mio trascurabile giudizio il migliore dei peggiori. Ma i suoi compagnuzzi lo hanno fregato. Lo stimano ma lo temono perché non è un inutile né utile idiota; ecco perché lo hanno scartato. Le altre valutazioni erano e sono pretestuose. Prodi, ricambiato, detesta il compagno Massimo; però non poteva chiudere la strada del Colle ai diessini, avrebbe rischiato di avere nemico il socio più importante della maggioranza.
E allora con Rutelli e altri dell'area cattoqualunquista ha studiato bene la pratica. Si è chiesto: chi c'è nella Quercia che potrebbe fregare D'Alema e al tempo stesso accontentare la massa rossa? Pensa e ripensa che a pensare impazzo, tel lì il salvatore, la Cariatide che fa al caso nostro: Giorgio Napolitano, comunista dal 1946 o addirittura dal 1945, una specie di Andreotti senza gobba né verniciatura metallizzata. Senatore a vita per meriti misteriosi, già presidente di Montecitorio, già ministro dell'Interno, non ha lasciato traccia di sé, se si esclude la legge Turco-Napolitano (secondo, perfino nella denominazione di un provvedimento privo di senso). continua...

Se Casini strizza l’occhio

Marcello Sorgi su La Stampa 11 Mag

L'elezione di Giorgio Napolitano a Presidente della Repubblica è davvero una buona cosa per l'Italia: dopo il settennato esemplare di Ciampi, era difficile delineare una successione che per biografia, autorevolezza e qualità della persona, si presentasse subito ai cittadini come un segno di continuità, e fosse in grado di accompagnare una fase nuova della difficile transizione italiana. Oltre a segnare, con l’ingresso del primo post-comunista al Quirinale, un fatto storico.

Anche lo scontro che ha preceduto l'elezione è stato contenuto: e se la maggioranza schierata a sostegno di Napolitano non è stata amplissima, coincidendo sostanzialmente con la forza parlamentare del centrosinistra, molto più largo è stato il consenso al nuovo Capo dello Stato, che due leader su quattro del centrodestra, Casini e Fini, sono stati a un passo dal votare, e a cui lo stesso Berlusconi ha voluto indirizzare un messaggio rispettoso.
La partita vera s'è svolta, di nuovo, all'interno delle coalizioni, che si sono divise e ricomposte al loro interno, misurandosi sulle diverse candidature, e scambiandosi segnali destinati, forse, a segnare politicamente l'inizio della legislatura. Le ipotesi erano due: candidare ed eleggere Massimo D'Alema con la spinta dei due maggiori partiti, Forza Italia e Ds, e l'appoggio degli altri; oppure trovare una candidatura - che poteva essere Amato, Marini o Monti, e poi, dopo la rinuncia di D'Alema, è stato Napolitano - concordata tra i due centri degli schieramenti e in particolare tra i due leader Rutelli e Casini. Alla fine né l'una né l'altra delle strategie ha prevalso, ma è la seconda che ha condizionato di più l'elezione, favorendo da parte del centrosinistra l'accettazione del veto su D'Alema e la conseguente caduta della candidatura, e spingendo l'intero centrodestra a una neutralità, più che a una vera opposizione, a Napolitano.
Una legge non scritta di tutte le corse al Quirinale s'è così riproposta anche nell'elezione dell'undicesimo Presidente: la maggioranza che elegge il nuovo Capo dello Stato può coincidere o collidere con quella che sorregge il governo, o in qualche caso anticiparne i cambiamenti. Se a Segni toccò il compito di frenare un passaggio troppo brusco al centrosinistra, Saragat, dopo di lui, ne fu il guardiano, mentre Pertini, eletto dal larghissimo fronte dei partiti della solidarietà nazionale, pilotò, assistendolo, il ritorno del Pci all'opposizione.
Poi da Scalfaro a oggi, non è un mistero, garantire insieme l'unità nazionale e la governabilità del Paese è diventato un compito più gravoso per i Presidenti della Repubblica. Il bipolarismo, d'altra parte, ha mutato l'equilibrio tra premier e Capo dello Stato a favore del primo; limitando la libertà d'azione del secondo. Se insomma sono i cittadini, con il loro voto, a decidere chi deve governare e chi deve stare all'opposizione, il Presidente, più che scegliere la formula di governo, deve essere pronto a fare da ammortizzatore delle fibrillazioni interne delle coalizioni, sorvegliando nel contempo che il confronto tra gli schieramenti non superi il livello di guardia. Rivelatosi drammaticamente negli anni di Ciampi, questo è il problema che s'è riproposto alla vigilia dell'elezione di Napolitano. Una parte della Casa delle libertà - Berlusconi, Forza Italia e in parte la Lega - ha lasciato intendere di esser pronta a favorire l'elezione di D'Alema in cambio di una disponibilità espressa a un'accelerazione dei mutamenti istituzionali in direzione di una forma di governo presidenziale e di un diverso equilibrio tra potere politico e magistratura. L'altra parte del centrodestra - Fini e Casini - s'è opposta, denunciando nell'intervista rilasciata da Fassino al Foglio per spingere la candidatura di D'Alema un segnale di disponibilità a questo progetto. Si è arrivati, quindi, all'aggancio tra Rutelli e i due esponenti dissidenti della Casa delle libertà, alla conseguente rinuncia di D'Alema (da lui stesso voluta in prima persona, con forte senso di responsabilità), e all'indicazione di Napolitano. La chiusura di Bossi, pur senza bloccare del tutto l'operazione, è stata determinante per il centrodestra. E il Presidente alla fine è stato eletto con i soli voti dello schieramento uscito vincitore dalle elezioni.
Quel che resta da capire è il peso, o lo strascico, di queste manovre iniziali, su una legislatura appena aperta, con un governo che deve ancora formarsi. Per Prodi, va da sé, la nascita, o la rinascita, di un asse Berlusconi-D'Alema come quello di dieci anni fa sarebbe stata più insidiosa dell'approdo a cui si è arrivati ieri. Ma anche se in nessun caso, né in Berlusconi e neppure negli occhieggiamenti di Casini e Fini verso il centrosinistra, si sono viste tentazioni trasformiste, inciuci o minacce di ribaltone, qualcosa è successo. E a nessuno potrà sfuggire, neppure al nuovo Presidente della Repubblica. A destra, chi voleva votare (o convincere Berlusconi a votare) per D'Alema, puntava a un equilibrio della legislatura costruito di nuovo sui due leader. Chi invece voleva votare Napolitano (e sotto sotto, magari, ha spinto qualcuno dei suoi a farlo), ha detto chiaramente che prima di tutto, nei prossimi cinque anni, punta ad emanciparsi dal Cavaliere.

Il Manifesto 11 Mag

Giannelli 11 Mag

Tornerà la politica Europeista

Emanuele Macaluso su Il Riformista 11 Mag

Sulla candidatura di Napolitano e sulla sua elezione ho espresso, su questo e altri mezzi di comunicazione, la mia opinione. Oggi, su tale avvenimento, vorrei sottolineare un solo aspetto. Napolitano è una delle personalità da anni impegnate nella battaglia europeista.
Nel suo recente libro autobiografico, Giorgio ha ricordato l'opera meritoria di De Gasperi come costruttore dell'unità europea, con forti accenti critici sui ritardi con cui il Pci - anche grazie ad Altiero Spinelli, poi candidato del Pci, e a Giorgio Amendola - si collocò come forza europeista. L'Europa sta attraversando un momento di crisi di identità, non solo perché la Costituzione di cui si voleva dotare è stata respinta dal referendum in Francia e altrove. Ma anche perché alcuni governi, fra cui l'Italia, hanno avuto una politica equivoca sul processo di integrazione.
E non c'è dubbio che su questo tema cruciale si sia verificata una divaricazione seria tra la linea di Berlusconi e quella di Ciampi. Credo - ecco ciò che mi preme sottolineare - che con Prodi al governo e Napolitano al Quirinale, la politica europeista possa riguadagnare quota. E' un fatto di grande rilievo, che avrà ripercussioni non solo in Italia.

10 maggio, 2006

Giannelli 10 Mag

09 maggio, 2006

Il Manifesto 9 Mag

Il Cavaliere al bivio

Massimo Giannini su Repubblica.it 9 Mag

Ben scavato, vecchia talpa.
A voler usare la metafora marxiana, si può dire che l'intelligente operazione politica lanciata dal centrosinistra con la candidatura di Napolitano al Quirinale sta per essere coronata dal successo. È quasi certo che domani il senatore a vita diessino diventerà presidente della Repubblica. Ma la novità dell'ultima ora è che l'ascesa al Colle del leader migliorista del vecchio Pci potrebbe avvenire addirittura oggi pomeriggio a larga maggioranza (i due terzi del Parlamento) grazie ai voti determinanti del centrodestra. Manca solo un via libera definitivo di Berlusconi.
La svolta, se c'è davvero, è ancora del tutto ipotetica. L'uomo di Arcore è abituato a cambiare idea in meno di un'ora. Figuriamoci cosa può succedere in un'intera notte. Con mezzo partito forzista che schiuma ancora di rabbia anti-comunista, e con la Lega che ha già predisposto il rito dell'estrema unzione per la Cdl. Ma se il terzo scrutinio di oggi dovesse riflettere le indicazioni emerse dal lunghissimo vertice del Polo di ieri sera, il prodigio si potrebbe compiere davvero. Per non perdere la faccia di fronte al mondo dopo aver negato pubblicamente l'esistenza di una "pregiudiziale anti-Ds", Fini e Casini sono quasi riusciti a convincere il Cavaliere a votare Napolitano, con tanto di maggioranza qualificata. Il prezzo da pagare, con una scelta contraria, è il più alto in politica: l'assoluta irrilevanza. Il ragionamento dei leader di An e Udc non fa una piega: "L'esperimento-Ciampi lo dimostra: meglio farlo subito, concorrendo all'elezione e cointestandosi il settennato insieme al centrosinistra".
Il Cavaliere si è quasi convinto. Ma all'ultimo momento, sul tavolo del vertice del Polo Umberto Bossi ha calato il solito asso di bastoni. "Se votate Napolitano, sappiate che per noi la Cdl è morta e sepolta". Di fronte all'ennesimo ricatto del Senatur, Berlusconi si è impaurito, e la trattativa si è nuovamente arenata. La notte porterà consiglio. Ma nel frattempo, un primo e parzialissimo bilancio politico di quanto sta accadendo si può già trarre. L'Unione può uscire rafforzata da questa prova. La sua mossa è riuscita. La candidatura di Napolitano ha ricompattato la coalizione. Ha restituito piena dignità alla Quercia. Ha riposto negli archivi della storia l'"interdetto comunista". Ha dimostrato che la maggioranza uscita vincitrice dal voto del 9-10 aprile non vuole imporre un "candidato di sfondamento", ma per la più alta magistratura repubblicana sa indicare un uomo delle istituzioni, una personalità di garanzia. Soprattutto, ha gettato lo scompiglio nelle file avversarie.

Ha fatto saltare gli equilibri interni alla Casa delle Libertà. Il Polo rischia di uscire a pezzi da questa contesa. Nel centrodestra si ripropone il mortale dualismo che ha marchiato a fuoco l'intera legislatura. Berlusconi e Bossi contro Fini e Casini. Ma mai come oggi, il Cavaliere è di fronte a un bivio. Deve scegliere, a partire dal test decisivo del voto sul Quirinale, tra due diversi modelli di destra. Da una parte c'è l'"intifada azzurra". Il no senza se e senza ma a qualunque candidato "che abbia il cuore a sinistra". La campagna rutilante e donchisciottesca contro i cosacchi immaginari che esistono nella sua mente, e purtroppo anche in quella di un pezzo di società italiana, da lui stesso astutamente alimentata a pane e insicurezza. La minacciosa e sovversiva jacquerie fiscale, che in una babele di linguaggi e di messaggi lo spinge a barattare l'elezione di un presidente con l'esazione delle tasse. Dall'altra parte c'è il "soccorso azzurro". L'idea che una scelta responsabile possa contribuire a trovare una via d'uscita bipartisan dalla palude italiana di questi giorni. La prospettiva di una piena e mutua legittimazione dei due schieramenti, non più assoggettati alla tragica ipoteca del Novecento. Il riconoscimento di una sconfitta elettorale che non è stata una disfatta, e che a maggior ragione obbliga il soccombente a stare in campo con la forza della politica, non con la disperazione dell'ideologia. Questo è l'incrocio che il Cavaliere si trova adesso sulla sua strada. Finora non ha scelto. Ha oscillato tra i due percorsi possibili.
Oggi gli è difficile imboccare il secondo, dicendo sì a Napolitano, dopo aver preso una folle rincorsa verso il primo, nel delirante comizio di domenica scorsa al Palafiera di Milano. Ma per l'uomo di Arcore cambiare rotta, stravolgendo gli schemi e facendo saltare i tavoli, non è mai stato un problema. A condizione che, almeno una volta, liberi se stesso e i suoi alleati dal furore della sequenza ideologica Pci-Pds-Ds, e dal terrore che dietro ogni quinta si nasconda lo spettro di D'Alema. Si tratta di capire, ancora una volta e come è già accaduto in questi lunghi cinque anni di governo, se il Cavaliere si fa scudo della Lega per tenere a bada An e Udc. Se usa la clava di Bossi per menare fendenti su Fini e Casini, frustrando le ambizioni ereditarie dell'uno e le mire neo-centriste dell'altro.
Si tratta di capire se punta scientemente a subire a ogni costo un Capo dello Stato votato solo dalla sinistra, per far lucrare a un'opposizione in assetto di guerriglia permanente un dividendo propagandistico di corto respiro. Oppure se è pronto a contribuire a una scelta di elevato profilo istituzionale, per ricostruire su questo atto fondativo un centrodestra moderno e bipolare con un progetto politico di lungo periodo. Come l'opposizione di ieri non poteva e non doveva essere cementata solo dall'odio antiberlusconiano, così l'opposizione di oggi non può e non deve essere amalgamata solo dal livore antidalemiano. L'Unione è tutto fuorché un'invincibile armata. Ma la talpa sta scavando. Stavolta il Cavaliere può dare una mano - prima di tutto a se stesso, e poi anche all'Italia - per uscire dal tunnel.

Staino 9 Mag

Il governo non sta al Quirinale

Federico Orlando su Europaquotidiano.it 9 Mag

Tra le cose invereconde che sono successe in Italia in questi giorni – i giornali della Chiesa che dicono chi può e chi non può salire al Quirinale, come Francesco Giuseppe diceva quale cardinale poteva uscir papa dal conclave e quale no; il presidente di un grande gruppo finanziario che scambia il Quirinale per il garante della sua azienda televisiva; il giornale del nuovo presidente della camera che lancia l’idea di un’amnistia ad personam per consentire a un deputato condannato per corruzione di giudici di non scontare la pena; una pletora di parlamentari dell’ex maggioranza e di ex alte cariche dello Stato in processione a Rebibbia per inchinarsi a quel condannato, martire della giustizia; un ex presidente del consiglio che invita i suoi elettori allo sciopero fiscale se al Quirinale andrà un capo dello Stato “col cuore a sinistra” –, tra tutte queste cose invereconde, dicevamo, accadute in poche ore nella plaga centroafricana in cui talvolta si trasforma l’Italia, la stregoneria più eclatante l’hanno impastata due sciamani laici, Ferrara e Fassino, generando, altro che Antinori, il «programma di governo del presidente della repubblica». Proprio così, programma di governo del presidente della repubblica. Come dire: la chimera interdetta ai laboratori di genetica, un presidente un po’ presidente, un po’ premier, un po’ legislatore, un po’ riformatore costituente, un po’ pegno della maggioranza all’opposizione.

Come ha scritto l’ambasciatore Romano, non l’elezione di un presidente della repubblica ma una riforma costituzionale. La torre di Babele della terza repubblica.
Per favorire l’elezione di un uomo “col cuore a sinistra”, i due ex compagni torinesi Fassino e Ferrara, che certamente non sono mai stati liberali ma sono il meglio o fra i migliori della cultura illiberale, hanno pensato di mettere in tasca a D’Alema una scartoffietta da leggere in parlamento, per convincere anche quelli col “cuore a destra” a votarlo. La scartoffia avrebbe impegnato il nuovo presidente della repubblica a garantire che non permetterà alla magistratura esondazioni nella politica, a favorire l’intesa maggioranza-opposizione nelle scelte di politica estera, a completare la riforma della Costituzione dopo il referendum eventualmente abrogativo di giugno, a sciogliere il parlamento e tornare alle urne quando un governo va in crisi.
Se gli italiani col cuore a sinistra o a destra, col cervello all’ammasso e con la colite spastica avessero accettato una simile prece pro eligendo presidente, il conclave apertosi ieri a Montecitorio ci avrebbe dato, insieme al nuovo pontefice Massimo, anche il nuovo ordinamento costituzionale: non un triregno ma un biregno, il doppio governo: quello eletto dal popolo, a palazzo Chigi, e quello eletto dal parlamento, al Quirinale.Formalmente come in Francia: cioè un presidenzialismo a metà, o semipresidenzialismo, con alcuni compiti di governo del presidente, altri del primo ministro (e altri ancora di chi dei due arriva primo e se li prende, come ai tempi delle gare podistiche fra Mitterrand e Jospin). In Italia avremmo dovuto accontentarci della vecchia massima contadina, chi si alza primo si veste. Infatti, in Francia i poteri semipresidenziali sono definiti in Costituzione, salvo, come s’è detto, le aree riservate al podismo.
In Italia nessuna norma presiederebbe a un simile uso bicipite o consolare del potere di governo: non nella Costituzione vigente, che affida il governo al governo e le garanzie al presidente della repubblica; non nella Costituzione riformata dalla destra (e sottoposta a referendum) che trasferisce tutti i poteri al superpremier assoluto, vanificando capo dello Stato e parlamento; non nella riforma definitiva ipotizzata nella scartoffia, essendo essa mera ipotesi, tutta da inverare in una presumibile e molto presunta Italia della buona volontà.
Non so se Ferrara e Fassino si rendessero conto, mentre scrivevano il nuovo “contratto con gli italiani”, del male che facevano all’amico Massimo trasformando il Quirinale da garante in promotore, come ricordava ieri l’ex presidente della Corte Valerio Onida. Quel che so, è che aver messo metaforicamente quel foglietto in tasca a D’Alema, è come aver messo un chilo di sale nella pietanza di chi ha già la pressione alta.D’Alema è un politico “puro”, per dirla in gergo. Probabilmente è tagliato più per il governo che per il Quirinale. Volerlo mandare sul Colle con un programma di governo significa o volerlo trasformare da velista in silurante, per mandare a fondo il governo, o esporlo all’accusa di attentato alla Costituzione, visto che il compito del presidente della repubblica non è quello di cambiare le regole ma quello di osservarle e farle osservare. Tant’è che giura non sulla Costituzione che verrà ma su quella che c’è. È solo questa che deve guidarlo, e nessun’altra.Insomma, il presidente della repubblica non è il presidente della bicamerale.Se confondesse, allora sì che ci sarebbe motivo di rivolta: ma non fiscale, come piacerebbe a Berlusconi e a certi suoi elettori, bensì istituzionale. E si chiama Alta Corte.
Ciò chiarito, D’Alema resta in campo per il Quirinale, così come Napolitano, a partire dal quarto scrutinio. Ma ci resta né per un antifisiologico spostamento del cuore dal centrosinistra al centrodestra né, tanto meno, per la scartoffia della captatio benevolentiae. Ci resta per le sue qualità di politico, per l’esigenza che tutti i non populisti sentono di ridare la politica ai politici per bene, per chiudere una volta per sempre con l’anticomunismo degli imbroglioni da fiera (con e senza bambini lessi), per ricordare ai monsignori che gli italiani decidono in autonomia chi vogliono come loro presidente, per integrare l’opera di ricostruzione economica e sociale del governo Prodi con un’interpretazione dinamica delle istituzioni: che le metta al passo con quell’opera di governo. Infine, per la capacità, di cui crediamo di dover far credito a D’Alema come a Napolitano, di sapersi liberare degli abiti di partito e indossare quelli istituzionali quando il ruolo cambia. Personalmente, li ho conosciuti e sostenuti (col mio semplice voto in parlamento) in quegli abiti, e guardandoli all’opera mi sono convinto di quanto avesse ragione il nostro vecchio Benedetto Croce che a noi ragazzi ignoranti e perciò perplessi (e non solo a noi) insegnava che non ci sarebbe stato più bisogno di un partito liberale quando tutti avessero accettato e praticato i principi e il metodo liberali.

Andrea's version 9 Mag

Sarà senz’altro Napolitano ed è una scelta molto coraggiosa, ma secondo me sarebbe stato più giusto votare Amato. Giuliano Amato, esatto. Perché è intelligente, perché è un laico attento ai temi di chi crede, perché ha una vasta esperienza tecnica, un’altrettanto vasta esperienza politica, perché è uomo di robuste letture, ma a ben vedere non tanto per questo.
Perché va in America ogni due per tre, perché antioccidentale non sarà mai, perché fu socialista e democratico, perché passò una notte memorabile a cercare di difendere la lira, e se poi non ci riuscì, pazienza, perché non strepita, non dà mai in escandescenze, perché ha passato dei mesi memorabili a cercare di difendere la Costituzione europea, e se poi non c’è riuscito, pazienza, perché ha consumato anni a difendere Craxi, e se poi proprio del tutto non ce l’ha fatta, pazienza, e perché infine, a un certo punto, si è messo al passo con D’Alema, e se in seguito ha ritenuto giusto voltargli le spalle, pazienza.
Ma nemmeno poi tanto per questo. Andava eletto Amato perché, se la politica è una gruviera tale da eleggere Napolitano, allora nel formaggio meglio il topo.

Il residente della Repubblica

Giuliano Ferrara su Il Foglio 9 Mag

Con Napolitano ci aspetta uno scirocco bestiale, anche d’inverno
Il metodo è appiccicoso, come lo scirocco, laddove il sistema, cioè il mutamento del sistema, è una brezzolina di primavera che a Roma non arriva mai. Noi l’avevamo detto, come si dice quando si è in angolo, groggy dopo una bella scazzottata al centro del ring, vicini al ko. Un’intesa si fa con il sistema Berlusconi annata 1997, si vota D’Alema presidente (della Bicamerale) contro Fini e Casini, senza paura di dover dare spiegazioni alle folle cieche dei comizi, sapendo che l’elettorato è un’altra cosa dai tifosi, vuole che il suo voto pesi nella politica, e che la politica dia innovazione di sistema, non grigia continuità di metodo. Si vota D’Alema e, come allora, ci si impadronisce dello schema di gioco di una intera legislatura, ché se poi le cose vanno bene, bene, se vanno male si provvede, mica c’è una strada sola. Ma intanto si sventa la manovra dei giochini e casini fini. I quali giochini sono cominciati subito, martedì 11 aprile alle ore 19, Palazzo Chigi, quando il capo di An ha lodato il Cav. per come aveva condotto la campagna elettorale e poi, di fronte alle sue parole in favore dell’unità nazionale, gli ha detto con un sottotesto in cui solo parte delle virgolette sono immaginarie: “Leggi il comunicato ufficiale, non ti allargare, la campagna elettorale è finita, ora la politica la faccio io con Pier”. E sai che spasso, sai che interesse.

Finisse con Napolitano al Quirinale, un successino diessino condito con le aspettative della multiforme lobby del metodo, i metodisti all’italiana, e grazie per le magnifiche rose, al Cav. torneranno buoni due nostri vecchi consigli del 1994, uno seguito e l’altro no: stringergli la mano alla Camera e mandare lui alla Commissione di Bruxelles invece di Emma, dea della gratitudine che gli ha fatto perdere le elezioni insieme ai suoi alleati maggiori, protagonisti della formidabile battaglia della mezza età. Ma a noi cosa tornerà buono? Per anni abbiamo dovuto mostrare platealmente in queste colonne il nostro puntiglioso disinteresse per la politica sciroccosa, e ci siamo edificati con temi effettivamente superiori cercando di educarci a pensare il mondo: erano gli anni delle verifiche, delle rinunce a battere lo stato fiscale, del tran tran mezzo solidarista e mezzo assistenzialista, del giro di valzer per tutti e per nessuno, primo violino Follini e flauto dolce il corrierista Tabacci. Si salvò solo un referendum extrapolitico. Pare che ci risiamo. Discuteremo del partito democratico e della tessera n°1, del partito dei moderati col trattino e senza trattino, ci toccheranno le carte dei valori e altre divagazioni politiciste senza politica, con un Cav. debole e annoiato come e più di noi.
Dice: ma un po’ di rispetto, no? Ma sì, rispettiamo tutti, per carità. Un presidente è pur sempre un presidente, anche se sia un residente della politica, un villeggiante della Repubblica che si dimenticò nella sua vita di tante cose: di rispettare i maestri come Giorgio Amendola, di rispettare le immunità parlamentari di fronte all’offensiva paragolpista dei magistrati codini, di rispondere a Craxi che chiamò in causa il suo moralismo post sovietico. Un coniglio bianco in campo bianco sullo stemma del Quirinale può bene starci. Peccato per Fassino, che aveva fatto sabato qui una proposta politica, e ora gli tocca dire che bisogna votare Napolitano perché ha un “rispetto sacrale” per le istituzioni. Tutta questa cerimoniosità pagana per istituzioni che andrebbero desacralizzate, scosse, cambiate. Invece potremmo rimediare uno scirocco bestiale, afa anche d’inverno.

Lo strano caso di Amato

Angelo Panebianco su Corriere.it 9 Mag

La Quercia e i nomi
In attesa di sapere se davvero oggi avremo il nuovo presidente della Repubblica con il concorso dell'opposizione, si può osservare che questa vicenda ha già rivelato cose significative. Ha rivelato l'esistenza di un veto diessino (non dichiarato) su Giuliano Amato, fino a poche settimane fa indicato da tutti come il naturale candidato dell'Unione per la presidenza, quello che anche il centrodestra avrebbe votato. Dopo avere sostenuto a lungo la candidatura unica di Massimo D'Alema, messi di fronte a una controproposta della Casa delle Libertà che indicava una rosa di nomi (fra i quali, appunto, Amato), i Ds hanno immediatamente replicato candidando Giorgio Napolitano, degnissima persona e anche dotato di un profilo istituzionale più che adeguato per ricoprire il ruolo.Ma Amato no. Lo hanno fatto scivolar via nel silenzio.
Sembra di capire, perché non è dei loro, non è un diessino. Questo è un fatto singolare. Amato, a tacere del resto, è l'attuale vicepresidente del partito socialista europeo, formazione della quale i Ds fanno parte. A ben quattordici anni da quando entrarono nell'Internazionale socialista e dopo una ormai lunga milizia nel partito socialista europeo, i diessini faticano tuttora a considerare «dei loro» un socialista il cui profilo politico-culturale, a ben guardare, non è poi così lontano da quello di Napolitano. Perché? I comportamenti fin qui tenuti danno la sensazione che i Ds si percepiscano come un «grande malato». Hanno ottenuto, come partito, un risultato elettorale poco entusiasmante. Si sono visti sottrarre la presidenza della Camera dall'abile e sornione Fausto Bertinotti. Come capita alle organizzazioni che si sentono minacciate hanno reagito freneticamente (una sorta di over-reaction, di reazione all'eccesso) pretendendo la Presidenza della Repubblica, come se le trattative per quell'ufficio, data la sua natura, non obbligassero a mettere in campo anche considerazioni diverse dall'interesse di partito.
È vero che i Ds, primo partito della coalizione, sono assai sacrificati, non avendo espresso il premier. Però, va loro ricordato che essi hanno dimostrato di essere i primi a credere tuttora nella persistenza del «fattore K». Non è questa l'unica ragione per la quale hanno riproposto, come nel 1996, l'anomalia di una coalizione il cui leader non è espressione del partito di maggioranza? Se la prossima volta presenteranno un loro uomo come candidato premier e vinceranno, non ci saranno le attuali difficoltà. Al fondo, sembra esserci lo stesso irrisolto problema che i Ds si trascinano dietro da un quindicennio, quello della loro identità. Un problema che non è stato risolto fino in fondo in quattordici anni (e sono tanti) di appartenenza all'Internazionale socialista. Un problema che rischia di affossare anche il progetto del partito democratico.
Non è questa, sia chiaro, la solita, ormai ridicola, richiesta di nuove abiure. Per giunta, ci sono aspetti che i Ds hanno ereditato dalla antica appartenenza (come, nei migliori di loro, la serietà personale e il realismo politico) apprezzati anche da quelli che, come chi scrive, non furono mai teneri col Pci. È invece questione di avere uno scatto di reni, abbandonare vecchi codici, non contare più solo su solidarietà personali nate in un'altra stagione politica. Senza di che, la questione dell'identità dei Ds rimarrà irrisolta danneggiando loro e noi tutti.
Angelo Panebianco

08 maggio, 2006

Repubblica.it 8 Mag ore 20

Ma per Silvio resta un ex Pci

Augusto Minzolini su La Stampa 8 Mag

Dietro al palco del Palalido Silvio Berlusconi, alla fine di una lunga discussione con gli altri leader del centro-destra, ha deciso di rindossare ieri mattina i panni dell’anti-politico.

«Sbrigatevela voi - ha detto a Pierferdinando Casini e a Gianfranco Fini che gli erano accanto -. A me tutti questi giochi fatti di incroci, nomi e rose non piacciono. Sono tutte pratiche da politici professionisti. Io non mi ci ritrovo. Fate voi. L’importante è un solo dato: che noi D’Alema non lo vogliamo».
«Per cui andiamo a trattare, ma non facciamoci coinvolgere troppo se la trattativa non porta a nulla». Il Cavaliere specie in questa fase preferisce i giochi chiari e vuole avere le mani libere. Non vuole farsi coinvolgere in nessuna operazione, oppure ci vuole stare dentro solo se ne vale la pena. Anche perché ha davanti a sé una campagna elettorale larga come un’autostrada, specie se i ds vorranno imporre per il Colle il nome di Massimo D’Alema. La cosa più importante per lui è che nessuno possa dire che il presidente dei Ds abbia avuto un voto dal centro-destra, o un suo aiuto: non per nulla ieri in quel mezzo vertice che si è svolto a latere del comizio unitario per la campagna elettorale di Letizia Moratti a Milano è stato deciso che se si arriverà allo scontro nel voto sulla candidatura D’Alema i parlamentari della Cdl o non ritireranno la scheda o se la metteranno in tasca senza riporla nell’urna, proprio per evitare scherzi dai possibili franchi tiratori di casa. Di più: ieri il Cavaliere ha avuto un diverbio anche con un vecchio amico come Fedele Confalonieri che l’altra sera, ospite nella trasmissione di Fabio Fazio, era andato troppo in là nei complimenti a D’Alema. Mentre Gianfranco Rotondi che l’altro ieri aveva messo in giro la “vulgata” di un Berlusconi si è beccato un «deficente» da Fabrizio Cicchitto.
Poi, sul palco, proprio per allontare da sé l’ombra di qualsiasi «inciucio» il leader del centro-destra ha sparato bordate ad alzo zero. «La proposta per il Quirinale di un politico di un partito di sinistra - ha tuonato - è indecente, da emergenza democratica... Se non ci sentiremo rappresentati nelle istituzioni non pagheremo le tasse, faremo uno sciopero fiscale... Se andranno avanti per conto loro guiderò in prima persona un’opposizione che non si è mai vista in Italia».
Insomma, per essere convincente Berlusconi è andato anche oltre il dovuto. Poi, visto che nella mattinata era uscita un’agenzia di stampa che annunciava un suo «veto» ad Amato, Berlusconi, spinto da Fini e Casini, ha dato mandato al solito Gianni Letta di telefonare al dottor Sottile per comunicargli che non c’è mai stato da parte del centro-destra un «no» sul suo nome. Non basta, proprio per togliere gli ultimi “alibi” a chi continua a dire che i suoi «veti» su tutti i rappresentanti della sinistra, di fatto, sono un «inciucio» camuffato per favorire D’Alema, l’ex-premier ha dato il suo «O.k.» alla presentazione di una «rosa» di candidati per il Quirinale su cui il centro-destra potrebbe convergere: Giuliano Amato, Franco Marini, Lamberto Dini, Mario Monti. Nel vertice di ieri mattina ha solo posto una condizione: «Non diamo l’annuncio durante la manifestazione perché i nostri militanti debbono sapere che stiamo facendo un’opposizione dura». E l’ipotesi della «rosa» è stata accettata anche da Umberto Bossi che ha, però, corredato il suo assenso con una richiesta: «Dobbiamo fare un ulteriore tentativo su Ciampi».
Così è nata l’idea del vertice di ieri pomeriggio a Palazzo Chigi. Al tavolo si sono seduti per il centro-destra Letta, Casini e Fini. Per il centro-sinistra doveva essere lo stesso Romano Prodi, ma il Professore, saputo del “forfait” del cavaliere, ha inviato anche lui i suoi messi: Ricki Levi, Francesco Rutelli e Piero Fassino. E, come ogni sette anni, è cominciata un’altra fase della partita a scacchi per il Quirinale. Il primo a parlare è stato Fini che ha chiesto se l’Unione aveva altri nomi oltre a quello di D’Alema: «Essendo un capo partito troppo esposto - ha spiegato - il centro-destra non lo può accettare». Gli altri non hanno risposto e a quel punto il presidente di An ha fatto i nomi della “rosa” della Cdl nell’ordine: Amato, Dini, Marini e Monti. Fassino ha eccepito: «Non vedo ds: avete per caso un veto su ogni esponente diessino?». «No - è stata la risposta di Fini - se avete altri nomi fateli». E per mettere un’altra trappola sulla strada della trattativa il segretario della Quercia ha aggiunto: «Ma questa è la posizione condivisa da tutto il centrodestra?». A quel punto l’onere di replicare se lo è accollato Casini: «Sì, è la posizione dell’intero centro-destra. Anzi Berlusconi si è preso l’impegno di confrontarsi con la Lega su questi nomi».
Qui è finito il vertice tra i due poli e sono cominciate le grandi manovre che a tarda sera sono arrivate a Giorgio Napolitano, diessino, ma con un profilo istituzionale più marcato, visto che è senatore a vita ed è stato presidente della Camera. Ma il Cavaliere, che non ha mai capito che differenza passa tra un “migliorista” e un “comunista”, non accetterà. Le premesse non sono buone: «Noi - osservava ieri sera Fabrizio Cicchitto - ci siamo esposti su un nome come Amato che, nei fatti, ha una tessera ds visto che ha partecipato anche ai loro congressi. E loro ci rispondono con Napolitano come se nella loro testa per fare il presidente della Repubblica non basta essere un diessino, ma devi aver avuto la tessera del vecchio Pci. Tessera che, come si sa, Amato o gente come Giorgio Benvenuto, non hanno mai avuto. A quanto pare gente come loro dentro la Quercia sono trattati come figli di un Dio minore». E, a notte fonda, lo stesso Berlusconi a cena con Bossi ad Arcore, mentre il senatur annuiva, si è lasciato andare a questa riflessione: «Hanno un’idea delle istituzioni come quella delle lottizzazioni nel consiglio d’amministrazione Rai della prima Repubblica: e, a quanto pare, secondo il loro Cencelli, la casella del Quirinale deve andare un ex-pci».

La Quercia e i rischi di una diarchia di governo - La tentazione presidenzialista

Sergio Romano su Corriere.it 7 Mag

Confesso di non avere capito se l’Unione abbia fatto un passo indietro per meglio rilanciare la candidatura di Massimo D’Alema o voglia effettivamente discutere con l’opposizione la scelta della persona che dovrà diventare presidente della Repubblica. Ma per il momento, dopo avere letto le dichiarazioni di Piero Fassino al Foglio, dobbiamo presumere che il suo partito non abbia rinunciato a sostenere la candidatura del suo presidente. Il segretario dei Ds dice che è ora di chiudere la fase della «guerra». Si rende conto che una metà del Paese ha votato per l’opposizione e promette che il governo Prodi «si farà carico delle scelte di chi lo ha preceduto nel nome dell’interesse nazionale ». Non vuole una repubblica presidenziale ma sostiene che il capo dello Stato debba essere il garante di una fase nuova e gli assegna quattro compiti.
In primo luogo, se vi sarà crisi, dovrà sciogliere il Parlamento e chiedere al Paese di tornare alle urne. In secondo luogo, come presidente del Consiglio superiore della magistratura, dovrà «evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica». In terzo luogo dovrà favorire, sulle grandi questioni internazionali, «la massima intesa possibile ». In quarto luogo dovrà vigilare dal Colle affinché, dopo la bocciatura del referendum confermativo sulla riforma del governo Berlusconi, si «porti a conclusione una transizione costituzionale da troppi anni incompiuta ». Non è tutto. Per assumere pubblicamente questi impegni il candidato potrebbe presentare «ai mille grandi elettori, che da lunedì voteranno, una specie di programma presidenziale sul quale chiedere un consenso diffuso».
E’ un progetto interessante in cui Fassino fa qualche implicita ammissione. Riconosce, senza dirlo espressamente, che vi sono stati cortocircuiti fra giustizia e politica, che la sinistra non può fare da sola la politica estera e che il centrodestra ha avuto il merito di mettere all’ordine del giorno la riforma della Costituzione. Ma contraddice la premessa delle sue dichiarazioni. Quella che il segretario dei Ds ha delineato non è forse una «repubblica presidenziale» ma prefigura uno Stato alquanto diverso da quello in cui, con qualche ipocrisia, abbiamo vissuto negli ultimi cinquant’anni. Nessun candidato al Quirinale, sinora, ha chiesto voti sulla base di un programma. E nessun candidato, in particolare, si è impegnato a sciogliere il Parlamento in una specifica circostanza.
La «manovra antiribaltone», che il centrodestra vorrebbe inserire nella Costituzione, diventerebbe così parte integrante del programma presidenziale e darebbe al capo dello Stato un potere di controllo sul governo. Installato al Quirinale, infatti, D’Alema potrebbe aiutare Prodi a mantenere intatta la sua maggioranza (la prospettiva delle elezioni anticipate è un efficace deterrente contro i ricatti di palazzo) ma potrebbe anche orientare indirettamente la linea politica dell’esecutivo. Quella che Fassino propone, quindi, è una sorta di diarchia, vale a dire una sostanziale modifica del sistema politico come si è andato formando, sulla base della Costituzione, nella storia della Repubblica.
Il suo capo dello Stato sarebbe in alcuni casi il «presidente di tutti gli italiani» ma anche, contemporaneamente, il garante del governo in carica e il suo tutore (e tale sarebbe soprattutto se non venisse eletto con una larga maggioranza, ma dopo la terza votazione con il solo sostegno della sua parte). Insomma, quello di Fassino, che piaccia o meno, non è un programma politico: è una riforma costituzionale.

«No ad accordi che stravolgano la Costituzione»

Intervista da incorniciare e riprendere a futura memoria (n.b.)
Parla l'ex presidente della Corte Costituzionale.
Valerio Onida, ha saputo da poco che l'Unione ha candidato Giorgio Napolitano e può tirare un sospiro di sollievo.

«Un'intesa strategica, quella proposta da Piero Fassino su Il Foglio? No, sarebbe stata una riforma istituzionale in piena regola. E, a differenza di quella varata dal centrodestra, nemmeno approvata dal Parlamento. Per fortuna sembra che non avrà seguito, adesso che Massimo D'Alema pare non essere più in corsa per il Quirinale».
Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale, ha saputo da poco che l'Unione ha candidato Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica e finalmente può tirare un sospiro di sollievo. Il patto proposto nei giorni scorsi da Fassino a Silvio Berlusconi per spianare la strada a D'Alema nella gara per il Colle, l'aveva colto di sorpresa: la stesura di un programma concordato in quattro punti, la sua lettura dinanzi alle Camere riunite in seduta plenaria... L'idea che, pur di raggiungere un obiettivo di parte, nemmeno il centrosinistra stava esitando a usare strumentalmente le istituzioni, lo aveva davvero disorientato. «Avremmo rischiato di alterare profondamente gli equilibri istituzionali — afferma —. Sarebbero cambiati nei fatti il profilo e i poteri del Capo dello Stato, dando vita a una sorta di diarchia che avrebbe generato soltanto caos».
Ma cos'è che non la convinceva?
«Il presidente della Repubblica non può essere il fulcro di un patto politico e tantomeno l'estensore di un programma. La Costituzione gli assegna il ruolo di garante, non quello di protagonista. Non a caso, la sua elezione avviene a scrutinio segreto: si vota la persona, non un progetto di governo. L'esecutivo, al contrario, deve guadagnarsi la fiducia in modo palese».
Invece cosa sarebbe cambiato?
«Apparentemente nulla, nella sostanza moltissimo. Avremmo messo in piedi un sistema bicefalo, riedizione del modello francese, nel quale le competenze del primo ministro si sarebbero sovrapposte a quelle del Capo dello Stato. Aveva ragione Sergio Romano quando, sul Corriere, parlava di tentazione presidenzialista: ci saremmo ritrovati a fare i conti con una confusione di poteri senza precedenti».
Non le sembra d'essere troppo pessimista?
«No, illustro soltanto le naturali conseguenze della proposta avanzata da Fassino. Ad esempio, prendiamo in esame il primo punto, dove si dice che il presidente, in caso di crisi di governo, dovrebbe garantire il ritorno alle urne».
Qual è il problema?
«Semplice: si prefigura il modo in cui verrà esercitato il potere di scioglimento delle Camere che, al contrario, non può essere vincolato. Quella facoltà è stata assegnata al Capo dello Stato proprio perché deve essere esercitata con la massima discrezionalità, valutando la situazione politica del momento e gli interessi generali del Paese».
Almeno quelli sono accettabili?

«Che dal Quirinale giunga una spinta diretta a ristabilire un clima di serenità nei rapporti fra giustizia e politica, mi pare ovviamente auspicabile, considerate le difficoltà degli ultimi anni. Da questo punto di vista il Capo dello Stato, anche nelle vesti di presidente del Csm, può fare molto».
L'ultimo passaggio riguarda la riforma costituzionale: dopo il referendum confermativo, il presidente s'impegnerebbe a favorire un'ampia intesa destinata a concludere la lunga fase di transizione istituzionale.
«Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a una sostanziale confusione di ruoli. Il Capo dello Stato non è chiamato a favorire, e tantomeno a guidare, un processo di riforma. A lui tocca garantire l'assetto istituzionale così come è disegnato nella Carta. Un assetto istituzionale, lo ripeto. E non un programma»
Tantomeno un «partito personale», che nascerebbe fatalmente dall'accordo tra i gruppi che hanno aderito al patto.
«Certo. E ciò sarebbe ancora più inquietante. Comunque non dovrebbe mai esistere un "partito del Presidente", cioè una forza politica che rappresenti la base del suo potere e che possa tendere a trasferirne o a imporne la volontà nei circuiti decisionali dell'attività parlamentare e di governo».
Un leader con la stazza «partitica» di D'Alema cambierebbe questa prassi storica. O no?
«Probabilmente sì. Non è un caso se, dal '48 ad oggi, non è mai stato eletto un grande leader di partito. Ci provarono Forlani e Fanfani, all'epoca della Dc, e andò male a entrambi. L'incarico è stato affidato quasi sempre a persone provviste senza dubbio di una storia politica importante, ma che quando sono state elette non rappresentavano un "pezzo" determinante del potere partitico del momento. Erano esponenti di gruppi minori o anche della Democrazia cristiana, che era la forza di maggioranza relativa, ma non s'identificavano quasi mai con la leadership di quel partito».
Un po' come potrebbe essere Giorgio Napolitano se venisse eletto: un profilo politico di grande rilievo, ma certamente non il numero uno della gerarchia ds.
«Sì, in questo senso la designazione di Napolitano segue la tradizione e cancella il surplus d'innovazione, chiamiamolo così, che emergeva dalla proposta di Piero Fassino. Bisognerà vedere adesso come evolverà la situazione».
Sembra tramontata tuttavia, almeno per il momento, la stagione dei «tecnici». E questo nonostante il grande settennato di Ciampi. Strano, vero?
«Qui non si tratta di pensare che in cima al Colle ci debba essere necessariamente un "tecnico", altrimenti si viene meno alle caratteristiche di cui parlavo prima. Credo, però, importante che non venga indicato un capo di partito. La Costituente ha definito il Capo dello Stato un "magistrato di persuasione e di influenza". Il suo ruolo non va esercitato in virtù di un "peso politico", ma di un'autorevolezza personale e della capacità di rappresentare l'unità nazionale».

Giannelli 8 Mag

Il metodo Ciampi

Barbara Spinelli su La Stampa web 7 Mag

Carlo Azeglio Ciampi, che lascia il Quirinale rimpianto dagli italiani e da tutti i partiti, non è stato particolarmente indulgente con la maggioranza che sotto la guida di Berlusconi ha governato il Paese per cinque anni. Ha respinto alcune leggi cui l’ex presidente del Consiglio teneva molto. Si è allarmato quando ha visto che non c'era vero pluralismo nell'informazione, soprattutto televisiva, e con un appello austero ha chiesto alle Camere di chinarsi su quella che considerava non una piccola, ma una grande malattia. Ha invitato i politici e anche i giornalisti a non pasticciare, a darsi una legge interiore che fosse indipendente dalle convenienze di questo o quello schieramento: a essere insomma laici, separando il proprio potere dagli altri poteri.
La parola ricorrente dei suoi moniti è stata, lungo gli anni: «Dovete sempre avere diritta la spina dorsale». Infine, ha combattuto per una politica europeista che la maggioranza condivideva con notevole riluttanza: sulla Costituzione, sull’unione politica del continente, l’Italia doveva secondo lui stare accanto ai governi più europeisti della Comunità e non accanto a quelli - come l’Inghilterra - che s’adoperano per impedire un autentico potere federale. E tuttavia la sua figura è già oggi rimpianta, quasi fosse un unicum che difficilmente si ripeterà ma che converrà imitare.
È rimpianto il modo consensuale in cui fu eletto (il cosiddetto metodo Ciampi). È rimpianta la sua maniera di essere e di fare, una volta nominato capo di Stato. È rimpianta l'autonomia che il Quirinale si è conquistata, grazie alle consuetudini che ha instaurato. Un’autonomia che va intesa letteralmente, come capacità di un'istituzione o un individuo di dare a se stesso un nòmos, una legge più forte e durevole delle leggi contingenti che dominano i rapporti fra maggioranza e opposizione. Ciampi non ha picconato né debilitato gli equilibri politici che aveva di fronte, pur sapendo il più delle volte che non erano affatto equilibri ma squilibri. Si è collocato su un altro piano: in un Paese diviso, dove il bipolarismo esiste ma non è ancora legittimato, ha agito secondo la filosofia - interamente proiettata sul futuro, sul dover essere - del come se. Ha operato come se esistesse qualcosa che in fondo univa le forze politiche, nonostante le brutali contrapposizioni d'ogni giorno. Come se fosse possibile incarnare un voler essere insieme degli italiani.
Come se esistesse, al di là dello spirito di querelle e di calunnia, quella «società stretta» che Leopardi considerava un bene auspicabile ma irraggiungibile dall'Italia dei campanili, delle corti di re stranieri, della cultura smagatamente anti-romantica del cinismo, degli individui senza coscienza della communitas e della libertà non servile. Non stupisce che il capo di Stato sia divenuto un riferimento - addirittura un modello - anche per l'opposizione. Gli italiani l'hanno aiutato in questa fabbricazione d'autonomia: nel corso di un settennio, essi sono stati attratti da due figure che non s'assomigliavano affatto - l'icona di Berlusconi, quella del Presidente - in maniera profondamente contraddittoria ma proprio per questo feconda. Di questa autonomia del Colle c'è oggi non solo nostalgia anticipata, ma desiderio diffuso. C'è desiderio di quest'alterità, di questo simultaneo essere distanza e vicinanza.
C'è attesa di una visione dell'Italia e del mondo che con l'ex governatore della Banca d'Italia è andata oltre gli schieramenti, e ha mostrato di essere radicata, costante, indipendente dal quotidiano affaccendarsi di ministri, di capi partito. C'è ammirazione per un'idea speciale dello spazio e del tempo, non coincidente con spazi e tempi del politico ordinario. Il pensiero e l'agire di Ciampi non son mai sembrati cuciti sui cinque anni d'una legislatura, e neppure sui sette della presidenza. Egli ha dato l'impressione di soppesare calcoli e parole cercando un'adeguazione con i prossimi venti-cinquant'anni. Questa è la vera unità di misura per le democrazie che oggi sono in crisi, e per stati nazione che stanno perdendo le vecchie sovranità e sono chiamati a recuperarle attraverso un sovrannazionale potere europeo condiviso.
Non è detto che i politici abbiano rimpianto e desiderio proprio di questo, quando all'unisono elogiano Ciampi e il metodo che l'ha portato al Colle. Ma di certo per gli italiani il Presidente è stato questo: un punto di riferimento che va oltre spazi e tempi fissati dalle normali scadenze della politica. Fu così all'epoca del terrorismo, quando capo dello Stato era Pertini. È così in Paesi dove la Repubblica non è presidenziale ma il capo dello Stato ha un peso rilevante sui costumi, come in Germania. Tutti i candidati alla successione sono legittimati a esserlo, certo. Ma tutti dovrebbero avere questo profilo, non domani ma fin da oggi: un profilo impregnato da quello che fin qui hanno detto, scritto, meditato, fatto. È importante e preziosa la disponibilità di gran parte dell'opposizione a cercare un personaggio simile. Sarà importante che lo sforzo di trovare un'analoga soluzione si faccia strada anche nella nuova maggioranza.
Naturalmente il capo dello Stato è anche frutto di calcoli partitici, di giudizi sulla tenuta della presente maggioranza. Se possibile, il suo nome scaturirà inoltre da intese trasversali. Ma questi calcoli possono dare come risultato il meglio o il peggio, i princìpi condivisi e la lottizzazione-spartizione, il compromesso trasparente o quello occulto che s'ottiene sottobanco. Il metodo Ciampi di per sé non garantisce alcunché, e se ha funzionato era perché in Italia esisteva, appunto, una personalità come lui. Questo però significa qualcosa di preciso: non è per risolvere i mali o i conflitti dentro una coalizione che converrebbe proporre un alleato al posto d'un altro, e neppure per cimentarsi in alleanze più vaste, ma per dare all'Italia uno statista che di Ciampi sia erede, e che abbia la sua autorevolezza e la sua indole.
I Ds hanno diritto a ottenere una carica istituzionale cruciale, non avendone ottenute. Ma questo non può esser il solo criterio, e un Presidente non lo si nomina sulla base di diritti accampati da gruppi che in una coalizione non si sentono a sufficienza apprezzati. Lo si nomina, anche se l'elezione non è a suffragio universale, per dare agli italiani un capo di Stato che sia noto per saggezza, imparzialità, costanza di carattere, comprovata calma interiore. Lo si nomina perché il Presidente abbia la stoffa di chi parla dell'essenziale al mondo e ai cittadini, oltre che ai politici o capi partito. L'egemonia partitica sulla scelta del candidato alla presidenza è il peggio che si potrebbe avere, nella legislatura che sta per cominciare.
Essa diminuisce la virtù delle istituzioni repubblicane, che consiste nell'attitudine degli interessi particolari a trasformarsi in interessi comuni, nei tempi del meditare e dell'agire che si estendono al di là delle scadenze elettorali, nella parte che trova un suo spazio dentro il tutto che il Quirinale vuol rappresentare. Può avere un senso che Bertinotti difenda una parte (la cultura operaia), nel momento in cui auspica la fine dello scontro amico-nemico. Il Presidente però non è questo: negli scorsi sette anni, non è su questo che ha costruito la sua idea di società stretta. Il metodo Ciampi non è una soluzione confezionata in conventicole inter-partitiche, ma è un raccogliere l'eredità ed è una risposta a domande che il Presidente s'è trovato davanti nel suo peregrinare italiano, cui ha tentato di replicare con condotte continuative, con una personale consuetudine d'autonomia.
È una risposta a quelli che sono gli elettori non ufficiali del Quirinale: gli italiani. Marshall McLuhan sosteneva che il medium è il messaggio, e anche in questo caso le cose stanno così. Il metodo-Ciampi è il messaggio-Ciampi, è la persona-Ciampi: il modo di eleggere il capo dello Stato si è esteso a un modo di esser Presidente, di pensare il proprio compito, di cercare un linguaggio di verità con gli italiani, di non farsi sopraffare da malcontenti, impazienze. L'invito a tener la schiena diritta, che ha punteggiato il settennio, è un invito ad arricchire la politica differenziandola: differenziando le sue ambizioni, i suoi spazi d'azione, le sue visioni del mondo e in primo luogo i suoi tempi.

L'Unità 7 Mag ore 24

Quirinale: si riapre lo spazio per il metodo Ciampi

Antonio Polito su Il Riformista 8 Mag

Napolitano, un candidato su un altro piano
Ci piacerebbe molto votare per Giorgio Napolitano. Mi piacerebbe votare per qualsiasi candidato del centrosinistra che avesse anche i voti dell’opposizione. Mi piacerebbe molto ripetere il metodo Ciampi. So che la pretesa di discutere di politica da parte di un parlamentare è un po’ ridicola, di questi tempi. Se tutto va bene, saremo convocati soltanto a poche ore dalla decisione più importante della legislatura per apprendere come votare, non per discutere.

Ciononostante ho passato una domenica di sollievo, nel vedere riaprirsi, seppur in modo confuso e ancora incerto, uno spazio di dialogo istituzionale tra i due poli. Perché se questa storia si dovesse concludere invece con l’elezione al Colle di uno di noi, fosse anche il migliore di noi, con i soli voti della maggioranza, non ci sarebbe molto da festeggiare. Non sarebbe un successo per il paese; e ciò che non è un successo per il paese non lo è per noi, che ci apprestiamo a governarlo.
Non ripeterò qui la litania dell’Italia divisa, del ruolo speciale che la nostra Costituzione assegna al capo dello Stato come interprete di quella unità nazionale che tanto abbiamo predicato in campagna elettorale; né mi arrischierò in previsioni su quanto a lungo e quanto pesantemente un capo dello Stato eletto solo da una parte dovrebbe sopportare la contestazione del peccato originale del suo settennato, visto che ci ha già pensato Berlusconi ieri a minacciare abbastanza sfracelli. Ricordo soltanto una cosa: che dopo l’esempio di Ciampi, quando accettò e quando rifiutò l’elezione, l’Italia considera l’ascesa al Colle come una chiamata, e non come una scalata. E noi commetteremmo un grave peccato di superbia se non ne fossimo consapevoli. Per gli elettori tra i 18 e i 25 anni, che ci hanno letteralmente assegnato la vittoria alla Camera capovolgendo il voto popolare del Senato, non c’è altro metodo conosciuto che il metodo Ciampi. Non hanno mai visto un presidente eletto a maggioranza che non fosse dei due terzi. Abbiamo spiegato loro che quella magistratura è diversa e superiore ai partiti, ai loro giochi e alle loro lotte di potere: «su un altro piano», come scrive Barbara Spinelli. Giorgio Napolitano è su un altro piano. Conosco l’obiezione che molti di voi hanno sulle labbra: ma perché se Berlusconi o Casini o Fini non votano per un nostro candidato la colpa della disunità nazionale è nostra? Perché è lo sconfitto l’arbitro di ultima istanza, magari ricorrendo alla minaccia di eversioni fiscali? Avete ragione: è molto probabile che Berlusconi non abbia in realtà nessuna voglia di votare chicchessia insieme a noi, proprio per poterci rinfacciare vita natural durante che ci siamo presi il Quirinale manu militari.
Ma, se così è, è meglio dimostrare agli elettori che noi ce l’abbiamo messa tutta, per votare insieme, e che solo la loro pregiudiziale ostinazione ce l’ha impedito. La proposta di Napolitano ha tutte la carte in regola per metterli alla prova: è un ds, ma un pezzo di storia repubblicana.
Sì, lo so: alcuni di noi sono sensibili alle sirene del giacobinismo, che cantano da destra e da sinistra, e avrebbero preferito la prova di forza. Tutti questi discorsi sulla politica che deve riprendersi lo scettro, sulla politica come puro scontro di potere, e alla guerra come alla guerra. C’è Rino Formica, che intendendo la politica come sangue e merda ne ritiene Amato indegno perché non abbastanza macchiato da entrambe; e c’è Giulianone, che è sempre in cerca di un amor suo, di un leader macho cui concedersi, perché questa è la cultura degli ex sessantottini, nelle cui assemblee nacque il mito moderno del leader; e c’è l’Oscar dei reparti speciali che su queste stesse colonne ci invita a non scegliere stinti bipartisan, perché a lui il politico piace tinto, di rosso, di azzurro, o semplicemente di tintura per capelli. Presi dalla passione del gioco (d’azzardo?), al posto dell’arbitro vedrebbero bene un giocatore. La politica è certo un campo avventuroso, e costoro l’insaporiscono col gusto tutto italico per l’avventura, per il blitzkrieg, per l’azione di forza, condotta con precisione chirurgica e tale da produrre shock and awe negli avversari. Così dicendo, hanno tentato di appiccicare all’oggetto della loro improvvisa infatuazione un’etichetta che D’Alema non merita, e che gli sarebbe costata un amaro settennato, se se la fosse lasciata appiccicare. D’Alema è stato un modernizzatore della politica italiana perché ha provato a unire. Ha inventato l’Ulivo dieci anni fa (sì, l’ha inventato lui); ha provato a rifare il sistema con la Bicamerale (sebbene silurato in extremis dal complice di Giulianone); ha provato a salvare una legislatura uccisa in fasce da Bertinotti (un altro che adesso l’incensa). Questo D’Alema ha i numeri per il Quirinale, non quel mago dell’intrigo politico che loro desiderano e disegnano. E io che l’ho festeggiato quando è stato eletto segretario, quando è stato scelto per la Bicamerale, e quando è diventato premier, lo festeggio ora per aver contribuito a una proposta istituzionale di alto profilo. Adesso tocca al centrodestra dire se davvero vuole un altro Ciampi. Adesso l’onere della prova non incombe più su di noi.

Una buona notizia su Repubblica.it 7 Mag ore 24

07 maggio, 2006

Caro Massimo lasci perdere i colli

Paolo Guzzanti su Il Giornale 7 Mag

Caro D’Alema, le scrivo per spiegarle in modo ragionato e ragionevole perché lei non può essere il Presidente di questa Repubblica. Partirò da un ricordo comune. Quando Letizia Moratti era presidente della Rai volle propormi come direttore del Tg3. Ero allora un editorialista della Stampa e fui lusingato dall’offerta. Ma mi telefonò subito l’assistente della Moratti, Agostino Saccà, che mi prescrisse di chiedere a lei, onorevole D’Alema, il suo consenso dal momento che Raitre apparteneva e appartiene al suo partito. Lei mi rispose: «No, non posso darle il mio consenso perché una sua direzione del Tg3 sarebbe vissuta da quella redazione come un atto di maccartismo». Poi con pazienza mi spiegò: «Non importa quel che lei è, ma come sarebbe vissuta la sua direzione, e cioè come maccartismo».

Lei aveva ragione: quando si tratta di attività pubbliche non importa quel che si è, ma come si è vissuti dagli altri. È per questo che sono sicuro che lei comprende perfettamente se le dico che lei sarebbe vissuto oggi da metà degli italiani come il vero leader della parte politica più detestata. (Detestata da Guzzanti!! n.d.b.)
Nel mio caso fu tirato in ballo il maccartismo, nel suo il comunismo. Cliché polverosi e archiviati? Sembra di no: checché ne dica Giuliano Ferrara, la questione comunista è per più della metà degli italiani viva e attuale. E lei lo sa benissimo perché altrimenti lei stesso, o Fassino, o Veltroni, vi sareste candidati per Palazzo Chigi anziché nascondervi dietro un prestanome. Smettiamo di far finta. C’è poi un altro punto fondamentale: gli ultimi quattro Presidenti della Repubblica (Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi) sono stati tutti eletti con una vastissima maggioranza (nel caso di Cossiga all’unanimità) che ha permesso a tutti gli italiani di sentirsi garantiti anche se poi non tutti i presidenti hanno fatto un’ottima riuscita. Dunque: quattro volte sette fa ventotto. Da ventotto anni gli italiani vedono insediato al Quirinale un presidente non di parte. Anzi durante il quinquennio berlusconiano, gli anti-berlusconiani si sono sentiti più che garantiti, quasi blindati da un uomo come Ciampi: un presidente di cultura azionista che non ha fatto sconti a Berlusconi, severo e impeccabile. Adesso noi vogliamo il nostro nuovo Ciampi, visto che quello originale non è disponibile. Le chiedo: secondo lei, la metà degli italiani che detesta la sinistra tanto quanto l’altra metà detestava il nostro governo, da quale arbitro imparziale dovrebbe sentirsi garantita? Da lei? Suvvia. Lei sa benissimo che la questione non è personale ma politica: lei, come arbitro, indosserebbe la stessa maglia della squadra di governo che gioca contro di noi. Arbitro e giocatore come ufficiale e gentiluomo? Suvvia un'altra volta. Chi sta facendo lobby per lei in questi giorni pretenderebbe che noi aderissimo a una sorta di superomismo di seconda mano: vorrebbero spacciarla per un superuomo che tutto può contenere e tutto può rivitalizzare, come un’energica lozione.
Sono sicuro che lei sia il primo a sorridere sotto i baffi di una tale puerile follia. Lei ha pregi e difetti come tutti, anche se i suoi pregi e i suoi difetti sono di alto livello. Inoltre è giovane quanto basta per poter attendere serenamente il suo turno e dedicarsi a completare l’opera di cui ha davvero bisogno la nostra democrazia: una sinistra democratica il cui leader possa mostrarsi alla luce del sole come aspirante primo ministro, come nei famosi Paesi normali, senza doversi nascondere dietro un esperto in spiritismo.
Una volta era di moda dire che l'Italia mancava di un centrodestra maturo e affidabile. Le elezioni e i fatti hanno risposto. Il problema adesso è la sinistra. Posso permettermi un consiglio? Caro D'Alema, finisca il suo lavoro in casa e lasci perdere i colli.

A Silvio va bene Baffino... ma non può votarlo


Marcello Veneziani su Libero 7 Mag

Al via l'operazione martirio
Non moriremo democristiani. Per fortuna. Moriremo comunisti. Ma comunisti senza comunismo, comunisti con le scarpe nuove, navigati, anzi marinaretti. Chi l'avrebbe mai detto, leggere che a destra tifano per Massimo D'Alema, (...) (...) cresciuto tra il Pci e il Pcus, comunista tosto fino a 40 anni, leader cattivista del Pci contro il buonista kennediano Veltroni e il viveur liberal Occhetto. Capisco il tifo di Giuliano Ferrara, cresciuto sulle ginocchia di Togliatti, svezzato a Mosca, in fondo rimasto togliattiano dentro. Ma pure Feltri, e pure tu Marcello. E sotto sotto pure Berlusconi...
Si è fatto bianco nei capelli, D'Alema, per risultare più adatto come presidente della Repubblica e apparire davvero candidato (da candido). Massimo Azeglio D'Alema; si ritocchi pure il nome per evocare l'uscente Ciampi e un grande risorgimentale di cui va riadattata una famosa massima: fatta l'Italia, ora si rifanno gli italiani (con la chirurgia plastica). Il neo-canuto D'Alema sta facendo corsi accelerati di invecchiamento per apparire più saggio e più gradito alla geriatria presidenziale. E per dimostrare quanto è distante nel tempo il suo peccato di gioventù, il comunismo. Tra poco lo sorprenderanno dal chirurgo a farsi il lifting per aggiungersi le rughe presidenziali; magari quelle tolte a Berlusconi, sarà il primo inciucio a pelle della storia...

Sciopero fiscale per il Quirinale


Corriere.it 7 Mag ore 13

«Non ci sentiamo rappresentati se non siamo nelle istituzioni. Non accetteremo di pagare le tasse. Faremo anche noi gli scioperi che hanno fatto loro. Faremo anche noi lo sciopero fiscale e faremo ostruzione in Parlamento». Lo ha annunciato il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi riferendosi alla candidatura di Massimo D'Alema a presidente della repubblica. «Vi garantisco che in prima persona guiderò un’opposizione come non si è mai visto prima in Italia».

Giannelli 7 Mag