Il governo non sta al Quirinale
Federico Orlando su Europaquotidiano.it 9 Mag
Tra le cose invereconde che sono successe in Italia in questi giorni – i giornali della Chiesa che dicono chi può e chi non può salire al Quirinale, come Francesco Giuseppe diceva quale cardinale poteva uscir papa dal conclave e quale no; il presidente di un grande gruppo finanziario che scambia il Quirinale per il garante della sua azienda televisiva; il giornale del nuovo presidente della camera che lancia l’idea di un’amnistia ad personam per consentire a un deputato condannato per corruzione di giudici di non scontare la pena; una pletora di parlamentari dell’ex maggioranza e di ex alte cariche dello Stato in processione a Rebibbia per inchinarsi a quel condannato, martire della giustizia; un ex presidente del consiglio che invita i suoi elettori allo sciopero fiscale se al Quirinale andrà un capo dello Stato “col cuore a sinistra” –, tra tutte queste cose invereconde, dicevamo, accadute in poche ore nella plaga centroafricana in cui talvolta si trasforma l’Italia, la stregoneria più eclatante l’hanno impastata due sciamani laici, Ferrara e Fassino, generando, altro che Antinori, il «programma di governo del presidente della repubblica». Proprio così, programma di governo del presidente della repubblica. Come dire: la chimera interdetta ai laboratori di genetica, un presidente un po’ presidente, un po’ premier, un po’ legislatore, un po’ riformatore costituente, un po’ pegno della maggioranza all’opposizione.
Come ha scritto l’ambasciatore Romano, non l’elezione di un presidente della repubblica ma una riforma costituzionale. La torre di Babele della terza repubblica.
Per favorire l’elezione di un uomo “col cuore a sinistra”, i due ex compagni torinesi Fassino e Ferrara, che certamente non sono mai stati liberali ma sono il meglio o fra i migliori della cultura illiberale, hanno pensato di mettere in tasca a D’Alema una scartoffietta da leggere in parlamento, per convincere anche quelli col “cuore a destra” a votarlo. La scartoffia avrebbe impegnato il nuovo presidente della repubblica a garantire che non permetterà alla magistratura esondazioni nella politica, a favorire l’intesa maggioranza-opposizione nelle scelte di politica estera, a completare la riforma della Costituzione dopo il referendum eventualmente abrogativo di giugno, a sciogliere il parlamento e tornare alle urne quando un governo va in crisi.
Se gli italiani col cuore a sinistra o a destra, col cervello all’ammasso e con la colite spastica avessero accettato una simile prece pro eligendo presidente, il conclave apertosi ieri a Montecitorio ci avrebbe dato, insieme al nuovo pontefice Massimo, anche il nuovo ordinamento costituzionale: non un triregno ma un biregno, il doppio governo: quello eletto dal popolo, a palazzo Chigi, e quello eletto dal parlamento, al Quirinale.Formalmente come in Francia: cioè un presidenzialismo a metà, o semipresidenzialismo, con alcuni compiti di governo del presidente, altri del primo ministro (e altri ancora di chi dei due arriva primo e se li prende, come ai tempi delle gare podistiche fra Mitterrand e Jospin). In Italia avremmo dovuto accontentarci della vecchia massima contadina, chi si alza primo si veste. Infatti, in Francia i poteri semipresidenziali sono definiti in Costituzione, salvo, come s’è detto, le aree riservate al podismo.
In Italia nessuna norma presiederebbe a un simile uso bicipite o consolare del potere di governo: non nella Costituzione vigente, che affida il governo al governo e le garanzie al presidente della repubblica; non nella Costituzione riformata dalla destra (e sottoposta a referendum) che trasferisce tutti i poteri al superpremier assoluto, vanificando capo dello Stato e parlamento; non nella riforma definitiva ipotizzata nella scartoffia, essendo essa mera ipotesi, tutta da inverare in una presumibile e molto presunta Italia della buona volontà.
Non so se Ferrara e Fassino si rendessero conto, mentre scrivevano il nuovo “contratto con gli italiani”, del male che facevano all’amico Massimo trasformando il Quirinale da garante in promotore, come ricordava ieri l’ex presidente della Corte Valerio Onida. Quel che so, è che aver messo metaforicamente quel foglietto in tasca a D’Alema, è come aver messo un chilo di sale nella pietanza di chi ha già la pressione alta.D’Alema è un politico “puro”, per dirla in gergo. Probabilmente è tagliato più per il governo che per il Quirinale. Volerlo mandare sul Colle con un programma di governo significa o volerlo trasformare da velista in silurante, per mandare a fondo il governo, o esporlo all’accusa di attentato alla Costituzione, visto che il compito del presidente della repubblica non è quello di cambiare le regole ma quello di osservarle e farle osservare. Tant’è che giura non sulla Costituzione che verrà ma su quella che c’è. È solo questa che deve guidarlo, e nessun’altra.Insomma, il presidente della repubblica non è il presidente della bicamerale.Se confondesse, allora sì che ci sarebbe motivo di rivolta: ma non fiscale, come piacerebbe a Berlusconi e a certi suoi elettori, bensì istituzionale. E si chiama Alta Corte.
Ciò chiarito, D’Alema resta in campo per il Quirinale, così come Napolitano, a partire dal quarto scrutinio. Ma ci resta né per un antifisiologico spostamento del cuore dal centrosinistra al centrodestra né, tanto meno, per la scartoffia della captatio benevolentiae. Ci resta per le sue qualità di politico, per l’esigenza che tutti i non populisti sentono di ridare la politica ai politici per bene, per chiudere una volta per sempre con l’anticomunismo degli imbroglioni da fiera (con e senza bambini lessi), per ricordare ai monsignori che gli italiani decidono in autonomia chi vogliono come loro presidente, per integrare l’opera di ricostruzione economica e sociale del governo Prodi con un’interpretazione dinamica delle istituzioni: che le metta al passo con quell’opera di governo. Infine, per la capacità, di cui crediamo di dover far credito a D’Alema come a Napolitano, di sapersi liberare degli abiti di partito e indossare quelli istituzionali quando il ruolo cambia. Personalmente, li ho conosciuti e sostenuti (col mio semplice voto in parlamento) in quegli abiti, e guardandoli all’opera mi sono convinto di quanto avesse ragione il nostro vecchio Benedetto Croce che a noi ragazzi ignoranti e perciò perplessi (e non solo a noi) insegnava che non ci sarebbe stato più bisogno di un partito liberale quando tutti avessero accettato e praticato i principi e il metodo liberali.
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