08 maggio, 2006

Il metodo Ciampi

Barbara Spinelli su La Stampa web 7 Mag

Carlo Azeglio Ciampi, che lascia il Quirinale rimpianto dagli italiani e da tutti i partiti, non è stato particolarmente indulgente con la maggioranza che sotto la guida di Berlusconi ha governato il Paese per cinque anni. Ha respinto alcune leggi cui l’ex presidente del Consiglio teneva molto. Si è allarmato quando ha visto che non c'era vero pluralismo nell'informazione, soprattutto televisiva, e con un appello austero ha chiesto alle Camere di chinarsi su quella che considerava non una piccola, ma una grande malattia. Ha invitato i politici e anche i giornalisti a non pasticciare, a darsi una legge interiore che fosse indipendente dalle convenienze di questo o quello schieramento: a essere insomma laici, separando il proprio potere dagli altri poteri.
La parola ricorrente dei suoi moniti è stata, lungo gli anni: «Dovete sempre avere diritta la spina dorsale». Infine, ha combattuto per una politica europeista che la maggioranza condivideva con notevole riluttanza: sulla Costituzione, sull’unione politica del continente, l’Italia doveva secondo lui stare accanto ai governi più europeisti della Comunità e non accanto a quelli - come l’Inghilterra - che s’adoperano per impedire un autentico potere federale. E tuttavia la sua figura è già oggi rimpianta, quasi fosse un unicum che difficilmente si ripeterà ma che converrà imitare.
È rimpianto il modo consensuale in cui fu eletto (il cosiddetto metodo Ciampi). È rimpianta la sua maniera di essere e di fare, una volta nominato capo di Stato. È rimpianta l'autonomia che il Quirinale si è conquistata, grazie alle consuetudini che ha instaurato. Un’autonomia che va intesa letteralmente, come capacità di un'istituzione o un individuo di dare a se stesso un nòmos, una legge più forte e durevole delle leggi contingenti che dominano i rapporti fra maggioranza e opposizione. Ciampi non ha picconato né debilitato gli equilibri politici che aveva di fronte, pur sapendo il più delle volte che non erano affatto equilibri ma squilibri. Si è collocato su un altro piano: in un Paese diviso, dove il bipolarismo esiste ma non è ancora legittimato, ha agito secondo la filosofia - interamente proiettata sul futuro, sul dover essere - del come se. Ha operato come se esistesse qualcosa che in fondo univa le forze politiche, nonostante le brutali contrapposizioni d'ogni giorno. Come se fosse possibile incarnare un voler essere insieme degli italiani.
Come se esistesse, al di là dello spirito di querelle e di calunnia, quella «società stretta» che Leopardi considerava un bene auspicabile ma irraggiungibile dall'Italia dei campanili, delle corti di re stranieri, della cultura smagatamente anti-romantica del cinismo, degli individui senza coscienza della communitas e della libertà non servile. Non stupisce che il capo di Stato sia divenuto un riferimento - addirittura un modello - anche per l'opposizione. Gli italiani l'hanno aiutato in questa fabbricazione d'autonomia: nel corso di un settennio, essi sono stati attratti da due figure che non s'assomigliavano affatto - l'icona di Berlusconi, quella del Presidente - in maniera profondamente contraddittoria ma proprio per questo feconda. Di questa autonomia del Colle c'è oggi non solo nostalgia anticipata, ma desiderio diffuso. C'è desiderio di quest'alterità, di questo simultaneo essere distanza e vicinanza.
C'è attesa di una visione dell'Italia e del mondo che con l'ex governatore della Banca d'Italia è andata oltre gli schieramenti, e ha mostrato di essere radicata, costante, indipendente dal quotidiano affaccendarsi di ministri, di capi partito. C'è ammirazione per un'idea speciale dello spazio e del tempo, non coincidente con spazi e tempi del politico ordinario. Il pensiero e l'agire di Ciampi non son mai sembrati cuciti sui cinque anni d'una legislatura, e neppure sui sette della presidenza. Egli ha dato l'impressione di soppesare calcoli e parole cercando un'adeguazione con i prossimi venti-cinquant'anni. Questa è la vera unità di misura per le democrazie che oggi sono in crisi, e per stati nazione che stanno perdendo le vecchie sovranità e sono chiamati a recuperarle attraverso un sovrannazionale potere europeo condiviso.
Non è detto che i politici abbiano rimpianto e desiderio proprio di questo, quando all'unisono elogiano Ciampi e il metodo che l'ha portato al Colle. Ma di certo per gli italiani il Presidente è stato questo: un punto di riferimento che va oltre spazi e tempi fissati dalle normali scadenze della politica. Fu così all'epoca del terrorismo, quando capo dello Stato era Pertini. È così in Paesi dove la Repubblica non è presidenziale ma il capo dello Stato ha un peso rilevante sui costumi, come in Germania. Tutti i candidati alla successione sono legittimati a esserlo, certo. Ma tutti dovrebbero avere questo profilo, non domani ma fin da oggi: un profilo impregnato da quello che fin qui hanno detto, scritto, meditato, fatto. È importante e preziosa la disponibilità di gran parte dell'opposizione a cercare un personaggio simile. Sarà importante che lo sforzo di trovare un'analoga soluzione si faccia strada anche nella nuova maggioranza.
Naturalmente il capo dello Stato è anche frutto di calcoli partitici, di giudizi sulla tenuta della presente maggioranza. Se possibile, il suo nome scaturirà inoltre da intese trasversali. Ma questi calcoli possono dare come risultato il meglio o il peggio, i princìpi condivisi e la lottizzazione-spartizione, il compromesso trasparente o quello occulto che s'ottiene sottobanco. Il metodo Ciampi di per sé non garantisce alcunché, e se ha funzionato era perché in Italia esisteva, appunto, una personalità come lui. Questo però significa qualcosa di preciso: non è per risolvere i mali o i conflitti dentro una coalizione che converrebbe proporre un alleato al posto d'un altro, e neppure per cimentarsi in alleanze più vaste, ma per dare all'Italia uno statista che di Ciampi sia erede, e che abbia la sua autorevolezza e la sua indole.
I Ds hanno diritto a ottenere una carica istituzionale cruciale, non avendone ottenute. Ma questo non può esser il solo criterio, e un Presidente non lo si nomina sulla base di diritti accampati da gruppi che in una coalizione non si sentono a sufficienza apprezzati. Lo si nomina, anche se l'elezione non è a suffragio universale, per dare agli italiani un capo di Stato che sia noto per saggezza, imparzialità, costanza di carattere, comprovata calma interiore. Lo si nomina perché il Presidente abbia la stoffa di chi parla dell'essenziale al mondo e ai cittadini, oltre che ai politici o capi partito. L'egemonia partitica sulla scelta del candidato alla presidenza è il peggio che si potrebbe avere, nella legislatura che sta per cominciare.
Essa diminuisce la virtù delle istituzioni repubblicane, che consiste nell'attitudine degli interessi particolari a trasformarsi in interessi comuni, nei tempi del meditare e dell'agire che si estendono al di là delle scadenze elettorali, nella parte che trova un suo spazio dentro il tutto che il Quirinale vuol rappresentare. Può avere un senso che Bertinotti difenda una parte (la cultura operaia), nel momento in cui auspica la fine dello scontro amico-nemico. Il Presidente però non è questo: negli scorsi sette anni, non è su questo che ha costruito la sua idea di società stretta. Il metodo Ciampi non è una soluzione confezionata in conventicole inter-partitiche, ma è un raccogliere l'eredità ed è una risposta a domande che il Presidente s'è trovato davanti nel suo peregrinare italiano, cui ha tentato di replicare con condotte continuative, con una personale consuetudine d'autonomia.
È una risposta a quelli che sono gli elettori non ufficiali del Quirinale: gli italiani. Marshall McLuhan sosteneva che il medium è il messaggio, e anche in questo caso le cose stanno così. Il metodo-Ciampi è il messaggio-Ciampi, è la persona-Ciampi: il modo di eleggere il capo dello Stato si è esteso a un modo di esser Presidente, di pensare il proprio compito, di cercare un linguaggio di verità con gli italiani, di non farsi sopraffare da malcontenti, impazienze. L'invito a tener la schiena diritta, che ha punteggiato il settennio, è un invito ad arricchire la politica differenziandola: differenziando le sue ambizioni, i suoi spazi d'azione, le sue visioni del mondo e in primo luogo i suoi tempi.