DieciAprile2006
Per lasciare traccia della giornata.... e delle settimane successive.
15 aprile, 2006
14 aprile, 2006
Ritorno al futuro
Curzio Maltese su Repubblica.it 14 Apr
Davvero non finirà mai questa demenziale campagna elettorale, postuma anche al voto? L'ossessione del passato, che è stata la natura più profonda del berlusconismo, continua nel dopo elezioni. Si capisce che un Berlusconi incapace di accettare la sconfitta, prigioniero della nostalgia di un potere quasi assoluto, voglia rinchiudersi nel fortino del suo perenne '48 e lanciare la disperata battaglia ai "brogli comunisti". Coerente sino alla fine con la sua missione storica: aver bloccato per dodici anni la crescita del paese. Meno comprensibile è che al gioco si prestino i nuovi vincitori. Sono ancora lì in televisione a rispondere alle accuse della destra, come in tutta la campagna elettorale, invece di rispondere ai cittadini. Si sono scusati di esistere per un decennio e ora si scusano d'aver perfino vinto. Che senso ha?
D'Alema: «Il premier fermi la strategia della tensione»
Corriere.it 14 Apr 2006
No alla grande coalizione. Se lo scontro paralizza le istituzioni si tornerà a votare. Apertura sul Quirinale
Mercoledì pomeriggio aveva detto al cronista: «Né guerre di religione né inciuci. È essenziale che ci siano il dialogo e una comune assunzione di responsabilità. Non stiamo ballando il valzer ma parliamo dei destini dell’Italia. Ci misureremo. Se questo discorso è serio lo vedremo nei mesi che verranno. Siamo tutti chiamati alla prova dei fatti». Poi, in serata, la nuova offensiva di Silvio Berlusconi contro la regolarità del voto. E così Massimo D’Alema, 57 anni, presidente dei Ds, ha preferito fermare l’intervista nella quale rispondeva no alla grande coalizione proposta dal premier ma invitava al confronto per la scelta del presidente della Repubblica. Ha voluto aspettare, riflettere. È preoccupato ma non demorde sulla necessità del dialogo. Ed esordisce con una sorta di appello. «Voglio invitare il presidente del Consiglio ad abbassare i toni e a fermarsi in questa che appare come una vera e propria strategia della tensione, una delegittimazione della vittoria elettorale che inasprisce lo scontro. Noi abbiamo piena fiducia nei confronti dei magistrati delle corti di appello che hanno sempre fatto con scrupolo le verifiche che ora si presentano più semplici che nel passato perché il numero delle schede contestate è assai più basso di quanto sia mai avvenuto».
Ritiene che in questo accenno di Berlusconi ai magistrati ci sia un nuovo terreno di polemica? Come dire: a controllare i voti ci sono le toghe rosse.
«Trovo che alternare l’accusa di brogli, gravissima e priva di qualsiasi riscontro, all’offerta di grande coalizione denoti una enorme confusione e renda più preoccupante questo finale di partita ».
Confusione? Non pensa che sia una strategia?
«No, sarebbe una strategia folle e non credo che Berlusconi sia folle. Certo, si può capire la rabbia di uno che ha visto svanire la vittoria per pochi voti. Dovrebbe riflettere sull’assurdità e pericolosità di questa legge elettorale. Si tratta di un finto proporzionale che in realtà è il più brutale dei sistemi maggioritari. Le elezioni sono state trasformate in un plebiscito mediatico».
Ma proprio questa legge vi ha fatto vincere.
«Non è vero, si tratta di una sciocchezza. Nessuno è in grado di prevedere quali sarebbero stati gli esiti con l’uninominale maggioritario nei collegi ».
Voi mettete la mano sul fuoco che il risultato del voto è corretto?
«Lo dicono il capo dello Stato e ilministro degli Interni. Non c’è riscontro di brogli. Parliamo dell’Italia, un Paese democratico, non della Bielorussia».
Questa ombra del sospetto evocata da Berlusconi condizionerà tutta la legislatura?
«Sarebbe totalmente irresponsabile. Spero che una volta che i risultati siano stati proclamati dagli organi istituzionali, Berlusconi telefonerà a Prodi riconoscendo la sconfitta».
Pensa che la totale chiusura sulla proposta di una grande coalizione alimenti quest’acuirsi della contrapposizione?
«Questo è un sospetto etico su Berlusconi al quale mi rifiuto di aderire. Fare questa ipotesi equivarrebbe a considerarlo un ricattatore».
Ma una larga intesa è proprio impossibile?
«Abbiamo avuto uno scontro programmatico radicale e un’intesa ora sarebbe incomprensibile da parte dei cittadini. Aumenterebbero la sfiducia, il qualunquismo e il discredito verso la politica. Non può esserci un colpo di scena, un coniglio estratto dal cilindro».
L’offerta della presidenza di uno dei due rami del Parlamento non aiuterebbe il processo di riconciliazione?
«Il fatto che l’opposizione possa avere, cosa del tutto anomala, la presidenza di una delle due Camere non è la premessa di una comune assunzione di responsabilità ma la conseguenza. E questo può accadere in un clima politico in cui ci sia l’impegno comune a garantire il funzionamento delle istituzioni e il diritto a governare di chi ha la maggioranza. Dovrebbe esserci un mutamento di scenario per poter aprire una discussione di questo tipo. Altrimenti non è credibile e non è possibile. Non possiamo ridurre la politica ad un mercato delle poltrone».
Ma se ci fosse il mutamento di scenario? Se Berlusconi abbassa i toni e riconosce la vostra vittoria?
«Penso che a quel punto potrebbe essere aperto un dialogo. Ma non credo ai colpi di scena».
Non potreste fare voi il primo passo, magari offrendo la presidenza del Senato a personalità come Giuseppe Pisanu o Marco Follini?
«Ma questo è roba da angiporto! Non siamo ai mercati generali. Lasciamo stare, se no i cittadini ci corrono dietro. Dobbiamo costruire una normalità democratica, e cioè il bipolarismo tra due coalizioni che si rispettano, che non si demonizzano e che si riconoscono in un quadro di regole condivise. Non si risolve adesso, in quindici giorni, con una telefonata a Pisanu o a Follini. Abbiamo di fronte scogli enormi. A giugno, per esempio, c’è il referendum sulla nuova Costituzione. Io spero che venga cancellato questo aborto. Ma il centrodestra che fa? Difende la Costituzione di Calderoli o favorisce il ritorno a quella di Calamandrei?».
Prima c’è l’elezione del capo dello Stato.
«Qui dobbiamo cercare il massimo di convergenza possibile. Nel ’99 avevamo la maggioranza in Parlamento. E forse, dal punto di vista degli equilibri del governo di allora, sarebbe stato conveniente affrontare diversamente il tema dell’elezione del capo dello Stato. Ma io, che ero presidente del Consiglio, andai al dialogo con Berlusconi perché ci fosse una convergenza sul nome di Carlo Azeglio Ciampi. Credo di aver fatto il bene del Paese. E penso persino che se in questi anni Berlusconi ha potuto governare senza avere un conflitto drammatico con la presidenza della Repubblica lo deve a questa scelta».
E allora l’elezione del presidente della Repubblica può essere il fonte battesimale di un nuovo dialogo?
«Il centrosinistra deve ricercare il confronto più aperto. Quando noi diciamo metodo Ciampi ci riferiamo ad una cosa concreta».
Un modo per pacificare?
«Negli anni Cinquanta il Paese era aspramente diviso ma le classi dirigenti avevano un fortissimo senso della comune responsabilità. Accadeva che nelle piazze c’erano scontri sanguinosi ma Mario Scelba e Pietro Secchia si telefonavano per evitare che si precipitasse in una guerra civile. Oggi è il contrario. Il clima da guerra civile non è nel Paese ma nella classe politica»
Non ci sono le due Italie?
«Ce ne sono molte di più. La divisione attraversa i campi sociali e investe la sensibilità civile e culturale. Quanti milioni di elettori non leggono i giornali? Tra questi mondi c’è una forte differenza. Penso ad una similitudine con gli Stati Uniti dove si aveva la percezione che i democratici fossero i vincitori assoluti. Poi è venuta fuori un’America profonda che invece ha votato Bush. In Italia Berlusconi ha saputo evocare questa paura della sinistra agitando un pericolo per i ceti medi e per i valori tradizionali. È stato un grande combattente, bisogna dargli atto. Noi abbiamo sottovalutato questa offensiva e non ci siamo impegnati abbastanza per contrastarla. Sulla questione fiscale siamo apparsi incerti, abbiamo alimentato i dubbi. Ci volevano maggiore tempestività e chiarezza. Ora il governo deve lanciare dei segnali di rassicurazione. Le paure sono largamente immotivate. Non intendiamo né scardinare la famiglia né aumentare le tasse né scontrarci con la Chiesa».
Ma è già partito il fuoco di fila contro il dialogo con il premier uscente. Micromega titola: mai più Berlusconi, mai più inciucio. Riprende la demonizzazione?
«Mi hanno accusato per cinque anni di aver barattato la legge sul conflitto di interessi per la bicamerale. È gente che non ha nemmeno sfogliato gli atti parlamentari. Opposti estremismi, Berlusconi da una parte, loro dall’altra. Sono campagne prive di verità, basate sul sospetto. Forme di linciaggio. Se tu hai un’opinione diversa sei un traditore, ti sei venduto l’anima. È il peggio della tradizione comunista degli anni Trenta. Io sono un uomo di sinistra ragionevole che cerca di impegnarsi per il bene del Paese».
D’Alema presidente della Camera o ministro degli Esteri?
«O anche D’Alema nulla. Non sono uno che cerca incarichi o fa i capricci per averli. Bisogna capire quel che è più utile in una coalizione complessa come la nostra».
Sarebbe quindi pronto a fare un passo indietro per lasciare la presidenza della Camera a Fausto Bertinotti?
«Non ho mai fatto un passo avanti».
Ma ritiene che il segretario di Rifondazione sarebbe un buon presidente?
«È un’ottima persona, garante dei diritti di tutti».
I Ds hanno comunque avuto un risultato deludente.
«In questi anni abbiamo dedicato il nostro impegno a costruire l’Ulivo. Con Fassino ci siamo candidati sotto quel simbolo. Io concludevo i comizi dicendo: alla Camera votate la lista unitaria, al Senato i Ds o la Margherita. È questa la nostra prospettiva strategica che è stata premiata dagli elettori e soprattutto dai giovani. C’è una generazione nuova, la generazione dell’Ulivo, sulla quale l’appello dell’anticomunismo e dei fantasmi del passato non funziona. Dirò di più. Permolto tempo ci siamo attardati a dibattere sul rischio che l’Ulivo avrebbe comportato un rafforzamento della sinistra radicale. Così non è stato. Oggi noi abbiamo il dovere di aprire il cantiere del partito democratico».
Intende dire che Ds è un involucro che state già abbandonando?
«Intendo dire, anche se la mia è solo una proposta, che vanno fatti subito i gruppi unici sia alla Camera sia al Senato. E dopo l’autunno va avviata la fase congressuale dei Ds per avere il mandato alla costituzione del partito democratico. Che non è una somma di burocrazie ma un processo aperto alla società civile e alla cultura».
Porte aperte anche alla Rosa nel Pugno?
«Aperte a tutta l’area socialista, che fu parte fondativa di questo progetto. Mi pare che la Rosa nel Pugno fosse solo un cartello elettorale».
È vero che lei vorrebbe Piero Fassino al governo mettendo Pierluigi Bersani al suo posto?
«Sono falsità. Io non posso volere niente perché è il congresso che elegge il segretario, non lo nomina D’Alema. Fassino ha svolto e svolge con passione e sacrificio un compito prezioso. Deve essere lui innanzitutto a dire quello che vuole fare. Tutti noi dobbiamo porci il problema di come disporre le nostre forze di fronte alla fase costituente del partito democratico e alla necessità di favorire un ricambio generazionale. Vorrei uscire dal pettegolezzo del complotto».
Ma mentre fate tutto questo, la talpa della grande coalizione può continuare a scavare. Non rischiate cioè di vivere ogni giorno con l’incubo che un senatore vi faccia mancare la maggioranza perché sta a casa con il mal di pancia?
«Noi dobbiamo muoverci su tre grandi direttrici. Costruire l’Ulivo, governare per rimettere in moto tutto il Paese, ricercare il dialogo con l’opposizione per garantire il funzionamento delle istituzioni. Nelle grandi democrazie europee quando un governo ha un voto di scarto, se un deputato della maggioranza si sente male l’opposizione ne fa uscire uno dei suoi. Così funziona la democrazia. La talpa può scavare ma è cieca e rischia di fare danni. Bisogna sapere che se c’è uno scontro frontale che punta a paralizzare le istituzioni, allora non c’è la grande coalizione ma ci sono nuove elezioni».
Marco Cianca
Paura di volare
Massimo Gramellini La Stampa web 13 Apr
Tentando con qualche presunzione una lettura psicologica delle elezioni estendibile anche alla vita di noi comuni mortali, si può azzardare quanto segue. La troppa sicurezza di vincere trascina sull'orlo della sconfitta. Sottovalutare l'avversario, e al tempo stesso disprezzarlo, è il modo migliore per perpetuarlo. Se la sinistra, anziché essere ossessionata da Berlusconi, avesse dirottato la propria nevrosi nel cercare finalmente di comprendere la provincia italiana che lo vota, forse non avrebbe vinto così poco e così male.
E ancora: la paura di perdere fa perdere, sempre. E può colpire chiunque, persino un uomo sicuro di se stesso come Berlusconi. Le sconfitte elettorali degli anni precedenti lo avevano portato a dubitare per la prima volta della sua buona stella, esponendolo all'influsso dei consiglieri più prudenti e meno disinteressati. Su loro impulso ha cambiato il sistema di voto che nel 1994 lo aveva indotto a scendere in campo e che gli aveva già regalato ben due vittorie. Come ogni scelta dettata dalla paura invece che dal coraggio, anche questa si è rivelata un errore. Il premio di maggioranza e il voto degli italiani all'estero, ideati al solo scopo di farlo vincere, hanno invece consegnato la maggioranza a Prodi. E a Berlusconi, che pure ha resistito agli strali dei comici di mezzo mondo, tocca oggi sperimentare la sublime ironia della vita: per ribaltare l'esito delle urne è costretto ad appellarsi alla sua peggior nemica. La magistratura.
Anrea's version del 14 Apr
Le larghe intese?
E perché no?
A cena con Maltese, un clima di concordia, una puntatina ai concertini di madame Verdurin, la società civile che si apre, poter assurgere al livello di Bordon, parlargli da pari a pari, andare a quelle scoppiettanti conferenze di Tranfaglia, sperare in un invito della signora Verusio, anche solo per una ricca merenda, non guardarsi più in cagnesco, fare come in Germania, l’industria che tira, i ragazzi con un futuro, il latte per i piccini una settimana dopo l’altra, senza soluzione di continuità, una vita diversa, serena, senza caimani, bambini bolliti, una donna vicepremier, una donna vice in Confindustria, una terza vicecapo dei vigili, i coglioni mai più apparentati agli umani. Finalmente.
E tutti uniti, tutti tesi come corde nello sforzo comune. Però quello là? Quello così piccino, così carino, intelligentino, dalla bella tignetta, con la sua grande testolina, le braghette, le manine, la giacchetta, il sorrisino, il bel caratterino, che come partito ha scelto un partitino? Come farà Follini, mettendo la boccuccia a culo di gallina, a pronunciare: Grosse Koalition?
13 aprile, 2006
Il veleno del caimano
EDMONDO BERSELLI su Repubblica.it 13 Apr
Ieri è tornato il Caimano. Il giorno prima era apparsa la Salamandra, l'essere che passa indenne attraverso le fiamme. Domani non si sa. Il premier Silvio Berlusconi è andato al Quirinale e ha incontrato il presidente della Repubblica. Dopo le elezioni, e soprattutto dopo un confronto elettorale condotto e finito allo spasimo, non era un incontro di routine. Così come non era di routine l'incontro che nella mattinata Carlo Azeglio Ciampi aveva avuto con Romano Prodi, il capo dell'Unione e prossimo a ricevere l'incarico di formare il nuovo governo.
Al termine della conversazione con il capo dello Stato, durata un'ora e un quarto, Berlusconi ha realizzato uno dei suoi exploit mediatico-populisti. Con un assolo formidabile, ha rivelato di avere espresso al presidente della Repubblica i suoi dubbi sul risultato elettorale. E ha denunciato che ci sarebbero un milione e centomila schede sospette, che sono stati compiuti brogli "unidirezionali", e che insomma il centrosinistra avrebbe rubato la sua strettissima vittoria. Fuori dal Quirinale non ha espresso dubbi, bensì ha manifestato certezze: "Il risultato cambierà", ha affermato, e ai giornalisti ha mostrato il suo miglior sogghigno: "Credevate di esservi liberati di me?".
Ciò che sta accadendo è grave. Il nostro paese non ha alle spalle una storia politica basata sul furto di voti. Il ministro dll'Interno, Giuseppe Pisanu, ha manifestato pubblicamente la sua soddisfazione per il modo in cui si sono svolte le operazioni elettorali. Il capo dello Stato si è compiaciuto per lo svolgimento "ordinato e regolare" dell'esercizio democratico. Soltanto Berlusconi ha di fatto impugnato l'esito del voto. Non si è preoccupato di mettere in estrema difficoltà la massima carica dello Stato, resa partecipe di un complotto mostruoso ordito dai nemici della libertà (e del Cavaliere). Seppure appoggiato assai tiepidamente dai suoi alleati, ha scatenato i suoi uomini in una battaglia virtuale che purtroppo può avere pessime conseguenze reali.
Il milione e passa di schede della vergogna, evocate dalla fantasia pubblicitaria di Berlusconi, esistono soltanto come ultima arma di un uomo assediato che rifiuta la sconfitta. La legge nega la possibilità di un nuovo conteggio, e consente soltanto l'accertamento delle schede contestate. Si tratta di poco più di quarantamila schede, che ragionevolmente si dividono con una certa equità fra i due schieramenti, e che quindi non possono alterare il risultato del voto popolare. In ogni caso, come ha dichiarato Marco Follini, non è il caso di "soffiare sul fuoco", visto che "dal Viminale alle Corti d'appello e alla Cassazione ci sono istituzioni che garantiscono tutti".
Preso atto di tutto questo, sarà bene che le magistrature preposte agli accertamenti concludano il loro lavoro prima possibile, per spazzare via ogni dubbio e sospetto. La democrazia italiana non può vivere sotto l'ombra di un risultato pasticciato. Ed è proprio questo che Berlusconi sta facendo: sta creando una delle sue realtà virtuali, un altro dei suoi "fattoidi", che scaraventa sulla situazione politica e civile italiana provocando fibrillazioni e inquietudine.
La risposta di Romano Prodi dalla festa di Bologna, "deve andare a casa", è un esorcismo insufficiente. Se il Caimano ha deciso di avvelenare il periodo post-elettorale, occorrono risposte ferme in primo luogo dalle istituzioni. Dal ministro Pisanu, per esempio, che dovrebbe dare un contributo ulteriore alla serenità dell'opinione pubblica. Ma c'è un aspetto ulteriore che va considerato: il marketing da guerriglia civile che Berlusconi ha inaugurato, rischia di lasciare sull'Italia una macchia. Per salvare la sua leggenda di invincibilità, il premier non esita a rovesciare il banco, o a minacciare di farlo.
Tuttavia non è proprio il caso che sull'Italia evoluta e disincantata del 2006 permanga un'ombra mitologica, per certi versi simile a quella del referendum costituzionale del 1946. Di fronte a un uomo che è incapace di perdere, che ha usato ogni strumento per avvelenare i pozzi, che ha cambiato la legge elettorale per impedire la vittoria degli "altri", i "comunisti", occorre che anche i suoi alleati, i più ragionevoli, i più corretti istituzionalmente, prendano posizione senza paure o esitazioni. Perdere le elezioni non è un dramma. Ma il Caimano sta trasformando una sconfitta politica in un evento sudamericano, ed è angosciante il pensiero della lunghissima transizione all'insediamento del nuovo governo. C'è qualcuno nella Casa delle libertà che voglia dare un contributo alla sicurezza psicologica e civile del paese? In caso contrario qualcuno dovrà assumersi la responsabilità di avere consentito che una normale alternanza politica si stia trasformando nella battaglia disperata e finale di un uomo non abituato a lasciare la presa sulla "roba" che crede sua e solo sua.
Differenza tra brogli ed errori.
E' molto ben illustrata in questo post.
Una possibile spiegazione ritengo che vada cercata nel modo di nominare sia il personale del seggio che i rappresentanti di lista.
Eletti in Campania
Da questo elenco certamente usciranno una quindicina di nominativi -lo verificheremo tra qualche giorno- per fare spazio ad altrettanti che, in attesa di essere ripescati, stanno boccheggiando.
Pensa al legame che si creerà tra chi opterà per altro collegio e chi gli subentrerà!!!
La Stampa web 13 Apr 2006
Camera
CAMPANIA 1
Ulivo: Romano Prodi, Massimo d’Alema, Riccardo Villari, Maria Fortuna Incostante, Gerardo Bianco, Umberto Ranieri, Renato Donato Masella, Riccardo Marone, Domenico Tuccillo, Fulvio Tessitore, Paolo Afronti.
Rifondazione comunista: Fausto Bertinotti, Giuseppe De Cristofaro detto Peppe, Gianluigi Pergolo.
Udeur popolari: Michele Pisacane.
Verdi: Alfonso Pecoraro Scanio.
Italia dei valori: Antonio Di Pietro.
Rosa nel pugno: Emma Bonino.
Comunisti italiani: Oliviero Diliberto.
Forza Italia: Silvio Berlusconi, Elio Vito, Antonino Martusciello, Luigi Cesaro, Paolo Russo, Claudio Azzolini, Gioacchino Alfano. Giancarlo Laurini.
An: Gianfranco Fini, Vincenzo Nespoli, Marcello Taglialatela, Giuseppina Castiello.
Udc: Pier Ferdinando Casini.
Dc Nuovo Psi: Paolo Cirino Pomicino.
CAMPANIA 2
Ulivo: Luigi Ciriaco De Mita, Massimo D’Alema, Rosa Suppa, Vincenzo De Luca, Barbato Iannuzzi detto Tino, Franca Chiaromonte, Adriano Musi, Costantino Boffa, Pietro Squeglia.
Udeur popolari: Paolo Del Mese, Pasqualino Giuditta.
Rifondazione comunista: Fausto Bertinotti.
Rosa nel pugno: Emma Bonino.
Verdi: Alfonso Pecoraro Scanio.
Italia dei valori: Antonio Di Pietro.
Comunisti italiani: Oliviero Diliberto.
Forza Italia: Silvio Berlusconi, Sandro Bondi, Nicola Cosentino, Maria Rosaria Carfagna, Alfredo Vito, Gaetano Fasolino, Sestino Giacomoni.
An: Gianfranco Fini, Mario Landolfi, Edmondo Cirielli, Giulia Cosenza.
Udc: Pier Ferdinando Casini, Lorenzo Cesa.
Senato
Forza Italia: Pisanu Giuseppe, Malvano Franco, Giuliano pasquale, Novi Emiddio, Iannuzzi Raffaele, Girfatti Antonio Franco, Stracquadanio Giorgio Clelio, Izzo Cosimo.
Alleanza Nazionale: Viespoli Pasquale, Pontone Francesco, Paravia antonio, Coronella Gennaro
Udc: Follini Giuseppe.
Democratici sinistra: Barbieri Roberto, Carloni Anna Maria, Brutti Massimo, De Simone Andrea Carmine, Villone Massimo.
Margherita: Mancino Nicola, Scalera Giuseppe, Manzione Roberto, Polito Antonio, Maccanico Antonio.
Rifondazione Comunista: Sodano Tommaso, Tecce Raffaele, Vano Olimpia.
Udeur: Mastella Mario Clemente, Cusumano Stefano.
Insieme con l'Unione: Pecoraro Scanio Marco.
Italia dei Valori: De Gregorio Sergio.
Ciampi irritato per la mossa del premier
Marzio Breda su Corriere.it 13 aprile 2006
Il Cavaliere si sarebbe spinto a ventilare l'ipotesi di un decreto-legge
Il capo dello Stato ha ascoltato la contestazione di Berlusconi sbigottito: è l'opposto della «ripresa del dialogo»
Una giornata cominciata male e finita peggio, per Ciampi. Molto peggio di quanto potesse mai immaginare. Con Berlusconi che contesta la sua certificazione della «regolarità del voto» (certificazione maturata dopo contatti con il ministro degli Interni) e che materializza l'incubo di brogli, «tanti brogli unidirezionali» a vantaggio del centrosinistra. E che arriva a chiedere il riesame dei verbali di sessantamila sezioni, oltre un milione di schede. Una sfida pesantissima che, oltre a mettere in dubbio il risultato delle urne, rischia di avvelenare a morte un mondo politico già da mesi con la bava alla bocca. Una prova di forza che il presidente della Repubblica ascolta sbigottito fin quasi all'afasia, perché è un genere di contestazione che getta un'ombra cupissima sulla stessa credibilità democratica del Paese. Proprio l'opposto della «reciproca legittimazione» e della «ripresa del dialogo» che dal Quirinale continua a esortare con uno sforzo ormai inutile.
Di più: secondo fonti di governo, il Cavaliere si sarebbe spinto a ventilare l'ipotesi di un decreto-legge, che Ciampi dovrebbe avallare, per consentire la verifica straordinaria, voto per voto. Non si sa quale sia stata la risposta del capo dello Stato a una simile, fantomatica, pretesa. Anche perché esistono comunque degli organi preposti a questo genere di controlli. Vale a dire, oltre alla magistratura, la Giunta parlamentare per la validazione degli eletti, che sarà però operativa solo con l'insediamento delle nuove Camere. Ecco la via ordinaria, la sola che Ciampi avrebbe davvero indicato al premier uscente come percorribile. Chiudendo il discorso piuttosto bruscamente.
Insomma: un mercoledì nero, sul Colle. Cominciato con un pressing su giornali e tv, dove qualche giurista gli spiega che «nessuno capirebbe una stasi di almeno 40 giorni» prima che si formi un governo. Dove gli si obietta che «non ha senso perdere quasi due mesi lasciando il Paese allo sbando». Dove gli si dice addirittura che «sarebbe molto scorretto» se non fosse conferito con urgenza l'incarico a Prodi. E' dunque strattonato da tante parti, non sempre con riguardo, il presidente. Così, comincia la giornata affidando alle agenzie di stampa una nota puntigliosa e infastidita. Nella quale spiega che il percorso per vedere l'investitura di un nuovo premier sarà «inevitabilmente lungo», «costituzionalmente obbligato» da «scadenze e scansioni temporali imprescindibili». Non basta: precisa che i vincoli di prassi e procedure erano «ben noti» al Quirinale, anzi ne erano stati dati ripetuti avvertimenti fin dall'autunno. E' questa l'aria che tira, quando a metà mattina Romano Prodi entra nello studio del capo dello Stato.
Il leader del centrosinistra ha l'ansia di mettersi all'opera. Sa già che Ciampi intende passare la mano al proprio successore, per quanto riguarda il primo esecutivo dell'undicesima legislatura. Eppure non rinuncia a qualche tentativo per evitare che Berlusconi rimanga fino a giugno in stand by a Palazzo Chigi. Non gli propone una corsa contro il tempo, ma si dichiara fiducioso che certi passaggi potrebbero essere accelerati. L'insediamento delle Assemblee, con relativi adempimenti, potrebbe essere chiuso entro il 5 maggio. Ciò che aprirebbe una «finestra» temporale sufficiente a un incarico rapido. Ancora (ma questa è una ricostruzione forse interessata, prima veicolata e poi smentita dallo stesso Prodi), parrebbe che abbia ipotizzato di anticipare di qualche giorno l'avvio del voto per il nuovo capo dello Stato, passando dal 13 maggio previsto al 7 - 8, e magari di far convergere subito le preferenze sul suo nome per un bis. Nessuna esplicita offerta di ricandidatura, solo una mezza avance — condita da un «ti trovo in forma, sei un giovanotto» — che Ciampi avrebbe lasciato cadere.
La fortuna è comunista?
Luca Ricolfi da La Stampa web
Stupiti, vero?
Straordinaria rimonta di Berlusconi, deludente risultato dell'Unione, rischio di ingovernabilità in almeno uno dei due rami del Parlamento. Effettivamente ha dell'incredibile che una legge elettorale concepita per bloccare l'Unione finisca per conferirle una maggioranza di seggi a dispetto di un risultato che è di perfetto pareggio in termini di voti. E' proprio vero che Romano Prodi è «nato con la camicia».
Eppure, personalmente, sarei rimasto molto più sorpreso se i sondaggi avessero trovato una conferma nelle urne. Anzi, voglio confessare che negli ultimi dieci giorni prima del voto mi sono sempre svegliato con lo stesso fantasma nella mente: Nanni Moretti che strappa il microfono ai politici del centro-sinistra e grida alla folla: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». Avevo paura che, alla fine, ci saremmo tenuti Berlusconi ancora per cinque anni.
Il mio fantasma morettiano si fondava su tre cose che da tempo, da molto tempo, si sapevano sull’elettorato italiano. La prima è che le vittorie del centrosinistra nelle elezioni «di second’ordine» (Europee, Regionali, Comunali) erano in buona misura la conseguenza della bassa partecipazione, ovvero della latitanza, dell’elettorato di centrodestra negli appuntamenti elettorali intermedi: era ingenuo aspettarsi che l’elettorato della Casa delle Libertà se ne stesse a cuccia anche in vista del decisivo appuntamento con le elezioni politiche. La seconda è che, dall’inizio del 2002, ossia da tantissimo tempo, l’elettorato italiano dà un giudizio dell’opposizione ancora più negativo di quello che dà sul governo. La terza e ultima ragione è che «questi dirigenti» dell’Unione hanno fatto di tutto per perdere le elezioni.
Sapevano che Prodi non era il loro leader più popolare, eppure hanno imposto lui. Sapevano che in tanti avrebbero voluto veder nascere il Partito democratico, eppure ne hanno ancora una volta rimandato la nascita. Sapevano che quattro regioni erano in bilico, e nondimeno hanno bloccato ogni tentativo di farvi nascere liste civiche. Sapevano che l’elettorato rimprovera al centrosinistra soprattutto l’assenza di concretezza, eppure hanno scritto il programma più lungo e astratto che la storia repubblicana ricordi. Sapevano che gli italiani sono preoccupati per l’economia, eppure li hanno spaventati con ogni sorta di annuncio e contro-annuncio sulle tasse. Sapevano che sul fisco, sullo Stato sociale, sulla legge Biagi, sui Pacs, agli italiani sarebbe piaciuto conoscere le vere intenzioni del futuro governo prima del voto, eppure hanno preferito rimandare tutto a dopo, tenendosi le mani libere. Sapevano che a molti elettori piacerebbe conoscere in anticipo il nome del futuro ministro dell’Economia, e invece l’unica cosa che hanno fatto intendere è che sul nome di Mario Monti ci sono veti e perplessità di ogni specie. Sapevano che in tanti aspettavamo un grande motivo per votarli, eppure l’unico motivo che hanno saputo indicarci è il fumoso slogan della «serietà al governo».
Se oggi di tutto questo si parla poco è solo perché, alla Camera, la dea bendata - palesemente comunista anche lei - ha assegnato all’Unione lo 0,07% di seggi in più. Ma che cosa faremmo e penseremmo oggi se quel pugno di voti fosse cascato dall’altra parte, o se una verifica delle schede dimostrasse che ha vinto la Casa delle Libertà? Più che di un pareggio politico, quella del 10 aprile è stata una doppia disfatta. Berlusconi è stato sicuramente bravo a recuperare, a rimobilitare il suo elettorato, ma se ce l’ha fatta è anche perché il volto dell’Unione, specie da quando ha cominciato a parlare di tasse, è stato così inquietante e foriero di incertezza da convincere molti a tornare alle urne nonostante la delusione per il quinquennio berlusconiano. Come ha osservato ieri Piero Ostellino in una disincantata analisi della geografia del voto, la realtà è che il Nord produttivo e antistatalista ha preferito tenersi Berlusconi piuttosto che rischiare con Prodi, mentre il Sud assistenziale e statalista ha preferito puntare sul Professore, e sulla sua promessa di nuove e maggiori tutele, piuttosto che rischiare con la devolution e il federalismo fiscale. In questo senso il voto del 10 aprile, con la riconquista del Nord da parte della Casa delle Libertà, è stato anche la riscoperta della «questione settentrionale».
Resta, naturalmente, da capire perché i sondaggi hanno sopravvalutato la forza del centrosinistra e perché in tanti abbiamo creduto ai sondaggi. La ragione è relativamente semplice. I sondaggi, anche quelli fatti con decine di migliaia di interviste, danno sempre risultati distorti perché nessun campione di cittadini può essere veramente rappresentativo: perché lo fosse occorrerebbe che tutti gli elettori fossero egualmente accessibili ed egualmente disponibili all'intervista. Ma in certi periodi a questa ragione generale di inattendibilità se ne aggiunge un’altra: l’effetto winner, o «previsione del vincitore». Quando nell’opinione pubblica si forma la credenza che un certo schieramento vincerà le elezioni, si verificano quasi sempre due fenomeni, ben noti alla psicologia politica: il primo è che una parte dell’elettorato indeciso «salta sul carro del vincitore», e lo vota semplicemente perché preferisce non stare dalla parte dei perdenti; il secondo è che una parte degli intervistati, nonostante sia seriamente intenzionato a votare il perdente, preferisce non dichiararlo nelle interviste.
Quel che è successo in Italia in questi anni è che una serie di vittorie amministrative della sinistra ha costruito nella stampa e nell’opinione pubblica la falsa credenza di un Paese che si sarebbe spostato a sinistra. Questa falsa credenza è stata sorretta da una narrazione unilaterale della storia di questi anni, e ha finito per alimentare la previsione di un’ampia vittoria del centrosinistra alle elezioni politiche. A sua volta la scommessa su una vittoria dell’Unione ha spostato (realmente) verso sinistra una parte degli indecisi, e ha indotto una frazione degli elettori «sondati» a non rivelare la loro vera preferenza politica quando questa li qualificava come perdenti. È normale, è già successo in passato, succederà di nuovo in futuro.
Per questo Berlusconi si è opposto in tutti i modi alla proliferazione di sondaggi che davano nettamente vincente la sinistra. E, alla luce di come sono andate le cose, non saprei come dargli torto.
Andrea's versione del 13 Aprile
Comunicato del Sindacato Nazionale Sondaggisti: “Ci assumiamo per intero le nostre responsabilità in merito alle intenzioni di voto, agli exit poll e alle proiezioni da noi formulate in occasione delle elezioni u.s.
Ribadendo:
a) il nostro è un mestiere complicato;
b) gli elettori di Forza Italia sono ignoranti;
c) l’ignorante è sempre un po’ bugiardo.
Per quanto attiene più specificamente al capitolo delle così dette “intenzioni di voto”, il Sindacato Sondaggisti fa però presente quanto segue: risulta a codesto Sindacato che dell’argomento in questione non abbiano capito un accidente neanche persone di indiscutibile cultura e autorevoli portavoce della pubblica opinione quali Mauro Ezio, Colombo Furio, Mieli Paolo, Padellaro Antonio o altri, che avevano già dato il Cavaliere alle Bermude con una mano davanti e l’altra di dietro. Per non dire di Scalfari Eugenio, il quale ancora si scervella se Cavour abbia poi vinto il ballottaggio con Garibaldi, o viceversa.
Nella descritta situazione, e a difesa della categoria, codesto Sindacato ritiene giunta l’ora di dover lanciare la sua grave parola d’ordine: A intellettuale di merda, sondaggista e mezzo!”.
12 aprile, 2006
D'Alema: "Sì, è vero, ci siamo svenati per creare la nuova forza"
Massimo Giannini su Repubblica.it 12 Apr 06
Il presidente dei Ds: ci siamo messi al servizio di un grande progetto di cambiamento dell'Italia.
D'Alema: non sfondiamo, ma l'obiettivo è centrato.
Come il vecchio Pci all'inizio degli Anni Settanta, prima dello storico sorpasso sulla Dc, solo sfiorato nel 1976. "Un partito in mezzo al guado", si rinfacciava allora alla sfinge berlingueriana. Trent'anni dopo, questo sembrano ancora i Ds: un partito in mezzo al guado. "È vero e non lo nego - mastica un po' amaro Massimo D'Alema - ci aspettavamo di più da queste elezioni...". Doveva essere la locomotiva dell'Unione, in marcia trionfale sul Polo. E invece la Quercia è rimasta quasi ferma alla stazione. Nel 2001 prese il 16,6%, poco più di 5 milioni e mezzo di elettori: è il minimo storico della segreteria Veltroni. Oggi si scuote appena al 17,5%, 5 milioni 977 mila voti al Senato: è il marginale miglioramento della segreteria Fassino.
Cinquecentomila voti in più in cinque anni. Non è granché, per il partito che nel 1996 raggiunse il 21,1% (più di 8 milioni di voti) e che anche stavolta puntava a bissare quel successo e a scavalcare Forza Italia. Il presidente diessino se ne sta rinchiuso nel suo ufficio romano, a scorrere tabelle, a fare raffronti e a darsi spiegazioni. "Non abbiamo sfondato - dice - e il motivo è molto semplice. In questi anni ci siamo svenati per sostenere l'alleanza, abbiamo retto l'urto delle polemiche, interne e ed esterne. Siamo stati il partito più coalizionale dell'intero centrosinistra. Ci siamo messi al servizio di un grande progetto di cambiamento della politica italiana: la lista unitaria e il partito democratico. Purtroppo paghiamo i ritardi di questo progetto...". Come dire: gli elettori diessini hanno donato il sangue, cedendo pezzi di dna politico, ma in questi anni non hanno visto crescere il frutto speculare di questa cessione identitaria. A voler usare un linguaggio da economisti: nell'operazione non c'è stato un trade-off. Io dò, ma in cambio cosa prendo?
Detto questo, D'Alema non si iscrive alla lista dei depressi. "Se consideriamo il risultato nel suo insieme - osserva - abbiamo ottenuto un obiettivo straordinario. L'ho detto e lo confermo: il centrosinistra ha preso una quantità di voti che non aveva mai ottenuto nella storia repubblicana. Se prima del 9 aprile mi avessero detto: vi voteranno 20 milioni di italiani, sarei scoppiato a ridere. Quindi, riflettiamo pure, ma non esageriamo con l'autoflagellazione. Noi, queste elezioni, le abbiamo comunque vinte...".
C'è una parte di vero, nelle parole di D'Alema. La coalizione ha compiuto comunque un cospicuo passo avanti. Secondo le prime simulazioni dell'Istituto Cattaneo, rispetto al 2001 l'Unione nel suo insieme ha ottenuto 1 milione 600 mila voti in più (pari al 9,4%), mentre la Cdl è cresciuta solo di 390 mila voti (appena il 2,1% in più). Ma tutto questo non basta: il centrosinistra rivince in Parlamento, ma non è ancora maggioranza schiacciante nel Paese. Oggi come nel 1996, D'Alema torna al suo "discorso di Gargonza", che gli valse la prima accusa di congiurato contro Prodi, ma che resta il nervo scoperto della sinistra italiana. Oggi come allora, la vittoria "non è il risultato di una completa inversione dei rapporti di forza presenti nel Paese". Oggi come allora, il voto segna "una vittoria del centrosinistra sul terreno della politica, ma non nella società civile".
E se si ragiona in termini di blocchi sociali, è proprio la Quercia il partito che soffre di più. La Margherita è andata male, ma agisce per definizione e per vocazione su un terreno di frontiera. La sinistra antagonista si è rafforzata, radicandosi ancora di più nei ceti della sua rappresentanza tradizionale. I Ds, come confermano le analisi di Roberto D'Alimonte e come evidenzia il voto dell'altro ieri, sono geograficamente sempre più incardinati nell'Italia rossa (Emilia, Toscana, Umbria, Marche, Liguria) e sono socialmente sempre più concentrati "all'interno del loro bacino elettorale tradizionale", ma senza riuscire a valicarlo. In poche parole: non sfondano al Nord, e non stimolano interessi di gruppi sociali che invece continuano a riconoscersi nel Polo. "Il fatto - spiega D'Alema - è che loro sono la destra, e buona parte del Paese è ancora aggrappato a una certa idea della destra. Berlusconi, in questo, ha colpito un'altra volta nel segno: li ha impauriti sulle tasse, li ha impauriti sul comunismo. Può sembrare assurdo, ma sono e restano temi sensibili per centinaia di migliaia di nostri connazionali".
Criminalizzarli sarebbe sciocco. È un vizio che la sinistra, per snobismo o per settarismo, ha già conosciuto. Cercare di capirli e di intercettarli con un altro linguaggio sarebbe doveroso. In che modo? "È inutile che lo neghiamo - premette il presidente Ds - il Paese è davvero spaccato a metà. Sono in campo due Italie, ma io non mi rassegno a vederle per forza contrapposte e impermeabili". Ma il modo per abbattere la barriera non è la Grande Coalizione, o l'ammucchiata o l'inciucio. Su questo D'Alema vede il rischio, ma è netto nel rifiutarlo: "Obiettivamente - osserva - l'esito del voto dà filo da tessere a quelli che lavorano a scenari consociativi di vario tipo. Io sono per respingerli, senza nessuna esitazione". Parzialmente diverso è il discorso sulla possibilità di offrire al centrodestra la presidenza di un ramo delle Camere: "In teoria si potrebbe anche fare. Ma tutto è legato all'atteggiamento di Berlusconi. Certo, se pur avendo perso il governo continua a prenderci a sportellate... Sarebbe tutto diverso se lui facesse come Kerry, e cioè riconoscesse la piena legittimità della nostra vittoria. Ma finché non si verifica questa pre-condizione, ci manca pure che gli andiamo a offrire una poltrona...".
E allora? Qual è in questo anomalo sistema bipolare il modo per "conquistare almeno una parte di quell'elettorato moderato e di opinione che non è spinto a votare la sinistra né per ragioni ideali né per interessi sociali"? Come si "conquista il centro", per parafrasare la formula togliattiana del discorso su "ceti sociali e Emilia rossa" del '46? D'Alema ne vede uno solo: "Se noi vogliamo davvero parlare anche a quell'altro pezzo di Italia che pur non credendo più a Berlusconi ha deciso comunque di non fidarsi di noi, abbiamo un solo strumento. E quello strumento si chiama partito democratico. Dobbiamo agire, subito, con i gruppi unici in Parlamento. Dobbiamo dare un segnale immediato".
Il partito democratico è la sola prospettiva politica in grado di modernizzare il sistema. E anche di far cambiare natura di questo centrosinistra, ancorandolo a una politica riformista che neutralizza e bilancia le spinte più estreme. Un dato lo dimostra: alla Camera, dove la lista unitaria c'era e ha preso il 31,2%, Rifondazione ha ottenuto "solo" il 5,8%. Al Senato, dove la Ds e Margherita erano divisi e la loro somma fa solo il 28,2%, Rifondazione accresce sensibilmente il suo peso fino al 7,4%. "Ma vi rendete conto che se abbiamo vinto queste elezioni - aggiunge D'Alema - è solo perché abbiamo presentato la lista unitaria alla Camera? E vi rendete conto che se l'avessimo presentata anche al Senato avremmo recuperato il Lazio e avremmo vinto con un margine ampio anche a Palazzo Madama?".
Anche sul partito riformista o democratico, il centrosinistra in questi cinque anni ha molto da farsi rimproverare. Troppi ritardi, troppi egoismi. Torna il mancato trade-off: i Ds hanno pagato anche questi. "Ma non ditelo a me - si indigna il presidente - che per il partito unico mi batto come un leone da più di tre anni. Spesso anche da solo, come mi successe quando Prodi voleva presentare il listone alle europee, e io fui il primo a dirgli "hai ragione, ti sostengo". Altri hanno esitato, altri hanno frenato...". Il presidente diessino non lo vuol dire. Non vuole riaprire conflitti con la minoranza interna della sua parte politica, o meno che mai con Francesco Rutelli. Con questi chiari di luna, sono lontani i tempi in cui nel quartier generale dalemiano si sentiva dire con il consueto sarcasmo "aspettiamo di raccogliere la scatola nera della Margherita dopo il 9 aprile".
Mai come adesso, è il momento di far prevalere le ragioni della coesione. La maggioranza c'è, ma è appesa a un filo. "Eppure, siamo in una situazione che mi spinge a dire: ex malo bonum. Da questo esito così complesso del voto, può nascere una scossa per tutto il centrosinistra. Per noi riformisti, verso il partito democratico. Per tutti, verso l'assunzione di un grande senso di responsabilità. Da Bertinotti a Pecoraro, da Diliberto a Pannella, tutti sanno e capiscono che il sentiero sarà strettissimo. Questo, magari, servirà a rafforzare il vincolo di coalizione". È solo una speranza. Andrà misurata nel fuoco della battaglia quotidiana. Ma non c'è molto altro a cui aggrapparsi. D'Alema, comunque, ci crede. E si prepara a giocare la partita. Anche quella personale. Sul Quirinale vede con favore un'onda lunga che cresce intorno all'ipotesi di un Ciampi-bis: "Il delicato equilibrio uscito dalle urne, oggettivamente, rafforza una sua ricandidatura...". Sulla presidenza della Camera sente arrivare un'investitura imminente: "Non so nulla, non chiedo nulla. Ma se mi chiamano, sono pronto".
Andrea's version del 12 Apr
Siamo uomini di mondo. Senza alcuna pretesa, anzi, con la modestia abituale, però vorremmo toglierci un capriccio. Non si dice darvi una lezione, ci mancherebbe, bensì offrirvi semplicemente qualche piccolo punto di riferimento perché possiate capire con certezza chi ha vinto davvero le elezioni e chi le ha perse. Non la faremo lunga, bastano poche cose. Per esempio. Se il giorno dopo i risultati viene arrestato Bernardo Provenzano, questo potrebbe anche costituire un segnale che Forza Italia ha vinto. Se Luigi Manconi sta raccogliendo le idee per scrivere non una bazzecola oggi, ma una riflessione più importante domani, questo potrebbe significare che l’Unione ha perso. Se Paolo Mieli non scrive l’editoriale di commento, e non lo chiede a Panebianco, e nemmeno a Della Loggia, questo potrebbe costituire un secondo segnale a sfavore dell’Unione.
Quanto a Repubblica, per capire se dà per perdente la sinistra, oppure vincitrice, basta dare un’occhiata ai frigoriferi. E guardare se sono pieni. Se lo sono, se le cento bottiglie di champagne approntate per l’occasione sono tutte ancora intatte, se l’unico tappo che salta in redazione è Curzio Maltese, è andata male.
11 aprile, 2006
Davanti al video
Aldo Grasso su Corriere.it 11 Apr 2006
Voti, sorrisi, lacrime Tutto solo a metà Una serata tv virtuale
Virtuale o surreale? Quello che è successo ieri in tv, a partire dalle 15 quando il Tg3 ha bruciato sul tempo la concorrenza, è una cerimonia difficilmente comprensibile. Non perché ci fosse qualcosa di indecifrabile da sbrogliare (i numeri sono pur sempre numeri) ma perché gli exit poll rischiano ormai di diventare uno scherzo statistico: non ci azzeccano mai, confondono le acque, rischiano di far saltare le coronarie a qualcuno. Adesso c'è già chi sostiene che gli italiani, intervistati all' uscita delle urne, si divertono ad alterare la verità. Perché italiani. Perché burloni. Perché bugiardi. E quindi, su tutte le reti, abbiamo assistito a un esercizio retorico spregiudicato e sconfortante: l'ospite in studio è stato costretto, a intervalli più o meno regolari, a cambiare disco orario, ad arrampicarsi sugli specchi, a passare dall'entusiasmo alla prudenza o dalla cautela all'eccitazione.
In una delle prime interviste, l'on. D'Alema dichiarava: «Si profila un risultato di portata storica»; all'imbrunire un suo collega chiosava: «Speravamo di più». In una delle prime interviste l'on. Biondi dichiarava: «In Italia i coraggiosi non sono la maggioranza»; all'imbrunire un suo collega chiosava: «C'è un testa a testa e la partita per noi è ancora aperta».
Ecco quello che ieri è andato in onda è stato il cambio d'umore, l'altalena dell'emotività: difficile fare analisi politiche sull'umore o sull'emotività, tant'è vero che tutti i commentatori (politici, analisti, esegeti, portavoce, militanti) si sono armati di un profilattico interpretativo fatto di se, di vedremo, di bisogna aspettare, di richieste di bocce ferme, di cautele d'obbligo.
Le trasmissioni più vivaci, più articolate sono state quelle del Tg2 con la conduzione di Mauro Mazza e del Tg7 con la conduzione di Antonello Piroso. Anche Sky Tg24 si è mobilitato in grande per questo strano «Tutto il voto minuto per minuto» dove a latitare era il dato certo, insomma il gol. Bianca Berlinguer ha presidiato il suo fortino di sinistra ed Emilio Fede quello di destra. (Ed io ho seguito La7 e SkyTg24! n.d.b.)
A sera, all'ora topica dei tg, è arrivato il colpo di scena: le proiezioni della Nexus danno in vantaggio al Senato la Casa delle Libertà. È come se la giornata televisiva dei commenti politici seguisse un copione thriller, è come se una mano ignota si divertisse a risicare ogni speranza, ogni spiegazione, ogni previsione.
Da un punto di vista drammaturgico, il colpo di scena è indispensabile come il pane: permette l'andamento altalenante, la sorpresa, l'imprevedibilità. Ma da un punto di vista politico, il colpo di scena è letale, rischia di lasciare morti sul campo (Prodi aveva annunciato una festa verso le 18.30 che poi è stata procrastinata a ora indeterminata). Le nomination dei reality sono uno scherzo se confrontate con il balletto dei numeri elettorali, con l'incertezza dello spoglio. Giuliano Ferrara ha iniziato la sua trasmissione togliendosi la giacca e promettendo uno spogliarello integrale in caso di vittoria berlusconiana. Enrico Mentana ha messo subito sotto processo la Nexus: «Cosa diavolo è successo oggi?». La Nexus ha risposto dando la colpa alla nuova legge elettorale. Bruno Vespa ha cercato, come al solito, di mettere in piedi il suo Parlamento. Emilio Fede ha regnato felice su sfondo azzurro, vagheggiando il sorpasso.
Tutto a metà: i voti, i sorrisi, le lacrime (tv del dolore, secondo Luxuria), le intenzioni, la vigilanza. Davvero una giornata spaccata in due. Come il Paese.
L'incrollabile
Augusto Minzolini su La Stampa web 11/4/2006
Berlusconi: «Non hanno vinto si deve tornare subito a votare»
Letta per il governo istituzionale. Cesa: Silvio al Quirinale
L’ultima scena di una giornata vissuta sul filo dell’infarto avviene al ristorante «I due ladroni» dove il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, tesse nientepopodimeno che le lodi di Silvio Berlusconi. «E’ un grande. A quest’ora non so se vinceremo oppure no, ma nell’ipotesi migliore, cioè che ce la facciamo, dovremmo mandarlo al Quirinale. E spero che lui accetti. A questo punto, lo ammetto, e io e Casini ce lo siamo anche detto, forse sarebbe stato meglio modificare la “par condicio”. Purtroppo Marco (Follini, ndr) è fatto così. Pensa che l’Italia sia quella dei giornali. Alle 8 del mattino ha già letto i fondi di tutti i giornali. Io, invece, aspetto le 11. Ma forse non li leggo neppure...».
Già, solo queste dichiarazioni degli irrequieti alleati dovrebbero far piacere al Cavaliere. A quell’ora è successo di tutto. Il centro-destra ha perso la Campania ma ha vinto al Senato grazie al risultato (colmo dei colmi) ottenuto nella rossa Emilia Romagna. La Camera è ancora in bilico ma il ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, è sicuro che alla fine la Cdl avrà 200 mila voti di più. Sarà. Ma tenendo conto che 24 ore prima mezzo mondo, anche i bookmakers inglesi, assegnavano al centrodestra una sconfitta catastrofica, il Cavaliere non può non essere soddisfatto. Ma che fatica.
Alle 14 di domenica scorsa era sicuro di vincere. Con la parlamentare di An, Daniela Santanchè, Silvio Berlusconi era stato perfino netto: «Vinciamo di sicuro». La sera di domenica la sua convinzione si era un po’ ridotta tant’è che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, vestiti i panni del «menagramo», aveva confidato all’ex presidente della Regione Piemonte, Enzo Ghigo: «Non ci sono buone notizie». L’altalena è ricominciata ieri mattina per colpa delle indiscrezioni degli exit poll della Nexus che pur essendo riservati sono circolati nei Palazzi con l’ufficialità della Gazzetta Ufficiale.
Ma in questo caso, il premier ha tenuto duro, non si è fatto influenzare, semmai è stato attento ai dati dell’affluenza alle urne: «Io a quegli exit poll non credo. Sono fasulli. Continuo a pensare - ha spiegato - che se più dell’83% degli italiani andrà a votare, vinceremo». Poi, ad un certo punto del pomeriggio, intorno alle 17, il premier si è sbilanciato, confortato dai dati dei sondaggisti americani, gli unici di cui si fida insieme a quelli della sua sondaggista preferita, Alessandra Ghisleri. E anche se la «nuova» era buona ha avuto un mezzo sfogo con i suoi collaboratori: «Gli americani mi dicono che ho vinto. Io non lo so. Aspetto lo scrutinio finale. Solo che a questo punto mi viene da pensare che i sondaggisti italiani, dal punto di vista intellettuale, sono davvero un’associazione a delinquere. Non so chi vincerà ma se si paragonano i sondaggi, gli exit poll e le proiezioni, emerge fin d’ora un dato: loro non conoscono la realtà di questo Paese. Prima di parlare aspettiamo di vedere come andrà a finire avendo, però, bene in testa un’opzione strategica: se vinciamo al Senato e alla Camera vincono loro, o viceversa, si deve tornare a votare. Il Paese deve avere una maggioranza omogenea in entrambe le Camere».
In serata, poi, è tornata la tensione, provocata da quel dato del Senato per la Campania, che fino all’ultimo è rimasto incerto. Quella di ieri per il Cavaliere è stata una giornata mozzafiato. Meno male che negli ultimi giorni il premier si era sottoposto ad una visita di controllo e che non è mai stato debole di cuore.
Per 24 ore le notizie si sono rincorse provocando un susseguirsi di colpi di scena. E il premier non si è per nulla risparmiato. Quando il ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu gli ha comunicato il dato dell’affluenza ha deciso all’improvviso di volare a Roma, prendendo in contropiede anche i suoi collaboratori. Si è chiuso a via del Plebiscito e da lì ha controllato minuto per minuto lo scrutinio. E a seconda dei momenti si è lasciato andare ad una serie di congetture. «Se perdiamo - ha detto ad un certo punto - i radicali risulteranno determinanti per la nostra sconfitta. Su questo non ci sono dubbi.
E forse ho sbagliato a non dedicarmi con più attenzione al problema di un’alleanza con loro. Voi, però sapete che avevo contro l’Udc, mentre non sapete che Letta mi ha portato una serie di ambasciate d’Oltretevere da cui si arguiva che da quelle parti un’alleanza del genere non sarebbe stata gradita». Nei momenti in cui, invece, la vittoria sembrava a portata di mano il premier non ha mancato di dare importanza al voto cattolico. «Se vinciamo - ha spiegato agli uomini del suo staff - avrà avuto un peso rilevante. La vicenda dei crocifissi tolti dai seggi da quell’esponente di Rifondazione, secondo me, ha avuto un’eco non indifferente nell’opinione pubblica. Non possiamo dimenticare che il cattolicesimo è un tratto essenziale dell’identità di questo Paese».
Infine un’ultima riflessione in libertà il Cavaliere l’ha dedicata ad un altro punto del suo «cahier de doléances»: «I sondaggisti sono stati serviti, ma anche i giornali dimostrano di non capire l’Italia. Eppoi gli editori si meravigliano perché vendono poco...». Tanti discorsi, insomma, che Berlusconi ha gettato là per trascorrere il tempo con lo staff e i principali esponenti del partito, ma con l’attenzione tutta rivolta all’andamento dello scrutinio. Uno scrutinio seguito sposando questo o quel dato con una serie di riflessioni. Mentre Giulio Tremonti dalle 19 in poi ha cominciato a scommettere sulla vittoria della Cdl al Senato, il Cavaliere, almeno in pubblico, davanti ai suoi, si è limitato ad una constatazione: «Chiunque vinca le elezioni - ha fatto presente - noi abbiamo avuto un grande risultato: Forza Italia continua ad essere il primo partito italiano. E non è poco specie se si tiene conto che siamo passati dal sistema maggioritario a quello proporzionale. E’ un dato che inorgoglisce anche perché in alcune aree del Paese siamo tornati ai tempi d’oro».
La serata è andata avanti così tra un dato e l’altro. Fino a quando intorno alle 20 il premier ha deciso di non parlare più. Di attendere in silenzio, magari per scaramanzia, il risultato finale del voto. Ai suoi (Scajola, Cicchitto, Bondi) ha dato solo poche indicazioni infischiandosene di chi nel suo partito (vedi Letta) invocava il governo tecnico: «State calmi. Non vi sbilanciate. L’unica cosa che i nostri avversari debbono sapere è che per governare debbono conquistarsi la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento altrimenti si torna a votare». Un discorso chiaro che Carlo Vizzini uscendo fuori da via del Plebiscito ha tradotto con un luogo comune della politica: «Il Cavaliere è sereno».
Prodi: «La colpa è tutta di una legge scandalosa»
Fabio Martini su La Stampa web 11/4/2006
Il comizio diventa un miraggio: «Ho due discorsi pronti»
A mezzogiorno, quando gli exit poll erano ancora segreti ma davano l’Unione nettamente in testa, Romano Prodi ha detto ai suoi: «Ragazzi, calma. Io dentro di me ho già pensato due discorsi diversi, a seconda del risultato...». Nello staff del Professore si sono messi a ridere, lo hanno guardato come si guarda un gigione. Ma sette ore più tardi, dopo il progressivo ribaltamento del risultato, il viso di Romano Prodi si è rabbuiato: «Ve l’avevo detto di andarci cauti...». Soltanto alle 22,30 quando gli hanno comunicato che nel Lazio e in Campania l’Unione poteva farcela e alla Camera era in vantaggio, il Professore ha ritrovato un pallido sorriso: «Adagio, non facciamoci riprendere dall’entusiasmo...».
E d’altra parte lui stesso, soltanto poche ore fa, aveva ricordato un aneddoto per lui memorabile: «Nel 1997 telefonai a Chirac poco prima dell’esito delle elezioni anticipate da lui stesso provocate e gli chiesi come andasse e lui mi rispose: è solo una questione di ampiezza". Ma poi vinse Jospin». Ma l’esser stato il più cauto di tutti, non ha consentito a Prodi di sopportare la grandissima sorpresa. Fino a tarda sera il Professore non soltanto ha fatto slittare per due volte il comizio in piazza Santi Apostoli - annunciato quando la vittoria sembrava certa - ma si è anche rifiutato di fare dichiarazioni: «Fino a quando i dati non sono certi e consolidati mi sembra una follia».
E man mano che i dati affluivano e sembrava per la prima volta possibile il pareggio, un risultato alla vigilia improbabile, Prodi sia pure informalmente ha ripetuto: «In quel caso bisognerà tornare a votare». Anche se ha usato parole durissime sulla legge elettorale: «Aveva perfettamente ragione Calderoli. Una legge scandalosa, la causa di questa gravissima incertezza». Di ufficiale nulla e d’altra parte è naturale che sia così. Non soltanto per la delusione in un uomo che da almeno due settimane era quasi certo di avercela fatta, sebbene spargesse prudenza a piene mani. Certo, negli ultimi cinque giorni, Prodi ha avuto almeno 24 ore di incertezza.
E’ stato poco prima del comizio in piazza Maggiore a Bologna, era giovedì 4 aprile e verso le 21,30 gli sono stati comunicati i risultati dell’ultima rilevazione della Ipsos che segnalavano un improvviso, vistoso calo nelle preferenze per l’Unione dopo la promessa di Berlusconi nel duello finale con Prodi di «abolire l’Ici». Un calo secco di un punto e mezzo, che pur garantendo ancora un margine di sicurezza all’Unione, a parere di Nando Pagnoncelli rappresentava un arretramento molto secco, raramente monitorato in così breve tempo. Questo non ha impedito a Prodi, anzi forse lo ha incoraggiato a dire nel comizio bolognese: «Vinceremo, vinceremo, vinceremo!». In realtà, in casa Prodi, tutto era pronto per la festa. Due giorni fa il Professore aveva lasciato Bologna portando con sé tutta la famiglia: non soltanto la moglie Flavia, ma anche i due figli, Giorgio e Antonio, le mogli e la nipotina Chiara.
Ma per scaramanzia Prodi ha voluto attendere i risultati elettorali nella stessa casa che lo aveva ospitato il 21 aprile del 1996: dai suoi amici Marisa Garrito e Claudio Pancheri. E’ arrivato nel primo pomeriggio nella casa di piazza Rondanini e vi è restato fino a tarda notte. La mattinata e il primo pomeriggio si erano consumati nella quasi certezza della vittoria, tanto è vero che, tra i tanti che hanno telefonato in quelle ore a Prodi, anche l’ex sindaco di Catania Enzo Bianco, che si è affrettato a far sapere: «Romano è di umore straordinario, ma lasciamo che sia lui a dirlo». Un ottimismo che Prodi ha mantenuto fino alle 17 di ieri quando ha dato il suo via libera all’organizzazione di un mini-comizio in piazza Santi Apostoli per le 18,30, sotto il suo ufficio romano.
E nel frattempo, quasi spontaneamente, ds e prodiani hanno cominciato a predisporre un palco anche nella più ampia piazza del Popolo per la festa notturna. Ma l’assottigliarsi del vantaggio dell’Unione ha indotto Prodi a sconvocare l’appuntamento delle 18,30 e a farlo slittare «di almeno un’ora», ha consigliato Giulio Santagata. Ma attorno alle 19, il completo ribaltamento delle proiezioni ha sconsigliato a Prodi qualsiasi commento ed è stato incaricato Santagata di fare una breve comunicazione ai giornalisti che erano in attesa nello stand approntato in piazza Santi Apostoli. Poi le tre ore di psicodramma, tra alti (pochi) e bassi (tanti), con alcuni momenti di quasi depressione, fino a quando poco dopo le 22,30 Prodi ha ritrovato un po’ di buon umore. E ha stretto i denti.
Il Cavalier per sempre
Massimo Gramellini su La Stampa web
Comunque vada a finire, la vera sorpresa di queste elezioni è che l'Italia non cambia mai. O forse a essere stupefacente è solo il nostro stupore, alimentato da anni di sondaggi ed elezioni locali a senso unico. A furia di leggere e scrivere che il popolo del centrodestra non ne poteva più di Berlusconi, avevamo finito col sottovalutare un particolare decisivo: che qualsiasi nausea e delusione sarebbero sempre state inferiori alla paura procurata dal pronostico di una vittoria altrui. E quel popolo detesta i valori della sinistra e ne teme l'attuazione pratica al punto da essere disposto a turarsi ogni volta il naso, pur di non mandarla comodamente al potere.
Berlusconi non è la democrazia cristiana, ma i suoi elettori sì, e non averlo mai voluto capire è la colpa strategica dei partiti dell'Ulivo. I berluscones sono l'Italia che si sente all'opposizione dai tempi «di quel comunista di Fanfani», tranne aver sempre continuato a votare per chi stava al governo, lamentandosene. L'Italia dissimulatrice che mente agli exit polls perché non vuol far sapere in giro per chi vota: mica per vergogna, ma per disinteresse, non considerandolo un motivo particolare di orgoglio. La maggioranza silenziosa che non ha una passione speciale per la politica e se avesse un Moretti o una Guzzanti di centrodestra non andrebbe nemmeno a vederli, perché preferisce le commedie romantiche e i giochi a premi. Un fiume carsico che scorre sotto traccia per badare agli affari propri e riappare in superficie solo il giorno delle elezioni nazionali, quando bisogna sbarrare il passo ai «cattivi» che vogliono portargli via «la roba».
Sono quelli che preferiscono l'America all'Europa, le barzellette agli appelli e i libri della Fallaci a quelli di Terzani. Sullo Stato hanno idee chiare: non lo considerano un amico, ma un padrone che vogliono affamare con la riduzione delle tasse, e pazienza se all'inizio a rimetterci non saranno le autoblu dei ministri ma i servizi, perché «è come nelle diete, prima di arrivare a perdere la pancetta devi rassegnarti a dimagrire anche dove non vuoi».
L'unica speranza che l'Unione aveva di ammansirli era mettere in pista il suo finto democristiano: l'ipnotizzatore di masse variegate Walter Veltroni. Invece ha insistito col voler schierare quello vero, Romano Prodi. Ora, se c'è una categoria che gli elettori democristiani detestano con tutta l'anima sono i cattolici rossi o almeno rosè. Già il cuore piccolo borghese della democrazia cristiana era convinto che i propri voti difensivi servissero ai vertici del partito per promuovere politiche progressiste e candidati molto più a sinistra del loro elettori. Prodi rappresenta la sintesi di ciò che essi detestavano e detestano: don Camillo che va a pranzo da Peppone. Più prosaicamente, il sindacato rosso che si mette d'accordo con la Confindustria sulla pelle del ceto medio dei piccoli produttori.
Nessuno, a sinistra, ha provato sul serio a esorcizzare queste antiche paure, pensando che il fallimento del governo Berlusconi avrebbe influito sugli esiti del voto più di qualsiasi pregiudizio contrario nei loro confronti. Non è così. Non nel Nord industriale del Paese. Quello che ha eletto a suo filosofo di riferimento un commercialista, Giulio Tremonti, e almeno a parole vorrebbe riforme liberali, ma in ogni caso preferisce tenersi stretto il suo monopolista preferito che affidare la dichiarazione dei redditi agli amici del compagno Visco.
Nulla riesce a smuoverli dalle certezze dell'esperienza e il sentirsi perennemente descritti dagli intellettuali come uomini ignoranti e allergici alle regole non fa che alimentare la convinzione di essere nel giusto. Dopo dodici anni si tengono ancora stretto Berlusconi: è diventato una ossessione, ma sempre meno che per gli altri, «i comunisti».
Se aveva ragione Borges, e la democrazia perfetta è quella in cui i cittadini non ricordano come si chiama il loro presidente, l'Italia di questi anni è stata di un'imperfezione assoluta. Riesce ormai difficile persino immaginare che sia esistito un tempo in cui i giornali potevano uscire la mattina senza avere sulla prima pagina il marchio di quelle quattro sillabe, Ber-lu-sco-ni, abbinato a qualche dichiarazione dirompente: «Scendo in campo!», «Magistrati comunisti!», «Farò l'Italia come il Milan!», «Giornalisti stalinisti!», «Meno tasse per tutti!», «Bollitori di bambini maoisti!», «Sì, avete capito bene, a-bo-li-rò l'Ici!», «Chi non vota per i propri interessi è un coglione!» e ogni punto esclamativo era il profilo della sua dentatura, sorridente o digrignante a seconda del copione. Ma risulta altrettanto improbo ricordarsi un film, un libro, un monologo satirico, un'inchiesta giornalistica e finanche una conversazione privata su un oggetto politico, calcistico o televisivo che non andassero prima o poi a sbattere lì, addosso a Sua Invadenza. Lui che se fosse un elemento del creato, non sarebbe fuoco che brucia ma acqua che sommerge, occupando ogni spazio vuoto aggirabile o non ostruito da una diga.
Eppure i berluscones continuano a sopportarlo, a considerarlo uno di loro. Qualche sua bizza ha il potere di imbarazzarli, ma nessuna veramente di sconvolgerli. Lo accettano come il fratello un po' troppo disinibito che avrebbero voluto avere e, in fondo, essere. Li accomuna la stessa visione utilitaristica delle istituzioni e l'idea assolutamente rivoluzionaria che lo Stato e la politica debbano essere gestite da un padrone, proprio come le aziende. Che la democrazia non sia partecipazione diffusa e continua, ma consista nel trovare 5 minuti ogni 5 anni per andare a votare, delegando per il tempo rimanente qualcuno che abbia non solo la voglia bizzarra di occuparsene, ma anche un interesse personale nel farlo, perché «se Berlusconi non avesse le tv e tutto il resto, non avrebbe alcun tornaconto a far andare bene l'Italia, diventerebbe un politico e si metterebbe a rubare come gli altri», mi ha spiegato un idraulico romano che lo vota da una vita: immaginarlo a colloquio con un girotondino dà la misura della incomunicabilità delle due Italie che non hanno più un linguaggio di valori condivisi con cui parlarsi o almeno capirsi. Ognuna delle due addossa all'altra i mali della modernità: l'immobilismo delle gerarchie, l'impoverimento del ceto medio, la diminuzione delle garanzie, la superficialità delle emozioni, l'orgoglio dell'ignoranza, il sadismo dei reality show. Si guardano in cagnesco, mentre la barca affonda. Senza nemmeno più rendersi conto che è la stessa barca.
Elezioni 2006: perchè hanno fallito gli exit poll?
Da PsicoCafè
Nella trasmissione Porta a Porta il giornalista Pierluigi Battista ha suggerito una spiegazione psicologica al fallimento degli exit poll e di quasi tutti i sondaggi condotti in questi mesi.Gli elettori del centrodestra avrebbero una certa riluttanza ad ammettere le proprie propensioni di voto, sia se intervistati a casa sia se contattati all'uscita dai seggi. Di che cosa si nutra questa riluttanza è davvero difficile da dire.
L'On. Fausto Bertinotti ha parlato di "egemonia culturale" della sinistra, in altre parole gli elettori del centro destra avvertirebbero l'ostilità culturale alle proprie posizioni e per questo le esprimerebbero con cautela.Battista si è dichiarato poco soddisfatto di questa spiegazione, ritenendola un po' autoconsolatoria.Personalmente la trovo un'ipotesi plausibile, in molte circostanze mi ero chiesta dove fossero gli elettori di centrodestra nei blog, sui giornali, al cinema, nelle piazze.Il popolo di centrodestra appare un popolo sommerso, di poca visibilità culturale, ma coerente e convinto della propria posizione e che quindi si palesa con evidenza soltanto quando viene chiamato al voto. Quello che resta, al di là di tutte le valutazioni, è la constatazione che il Paese è "culturalmente" diviso a metà e di questo credo che dovrà tenere conto chiunque vinca.
10 aprile, 2006
Prodi ahead of Berlusconi in vote
Monday, April 10, 2006; Posted: 12:01 p.m. EDT (16:01 GMT)
ROME, Italy (CNN) -- Italian center-left candidate Romano Prodi appears headed for victory over Prime Minister Silvio Berlusconi in parliamentary elections, according to exit polls.
Le reazioni dei vinti alle 16:30
Scajola: «Dati incerti, ricordiamoci di Bush-Kerry»
Giovanardi: «E' un grande risultato per la Cdl»
10/4/2006
ROMA. «I risultati sono molto incerti, aspettiamo quelli veri e pesati. Ricordiamoci Bush e Kerry». Lo ha detto il ministro delle Attività produttive, Claudio Scajola, giungendo nella sede di Forza Italia, in via dell'Umiltà, dove seguirà con i vertici del partito l'esito dello spoglio elettorale.
GUZZANTI: «PARTITA ANCORA APERTA? NON MI PARE»
«Se questi dati fossero veri, Forza Italia si confermerebbe il primo partito italiano, la prima forza dell'opposizione. Comunque io non mi fido ancora di questi primi exit poll, non mi impeccherei a dei numeri, visto che l'esperienza delle precedenti elezioni ci insegna che è meglio aspettare». Così Paolo Guzzanti senatore di FI, commenta i primi exit poll che danno Forza Italia al 20-23%, conversando con i giornalisti nella sede di via dell'Umiltà. L'esponente azzurro invita a una lettura prudente, in attesa dei risultati più definitivi. Se ci fosse un'affluenza dell'84%, la partita sarebbe ancora aperta? «Non mi pare perchè i dati sono già omogenei così -replica Guzzanti- posso sperarlo ma non è che all'ultimo minuto di stamane sono arrivati di corsa gli ultimi votanti che votano tutti per noi. Se fosse così sarebbe bello...».
GIOVANARDI: RISULTATO STRAORDINARIO PER LA CDL
«È un risultato straordinario per la Cdl». Questo è il commento di Carlo Giovanardi (Udc) che sta seguendo i primi exit poll delle elezioni politiche dalla sede del partito in via Due dei Macelli. «Io - ha proseguito Giovanardi - commento solo tre cose certe: il Paese è diviso a metà e la Cdl conferma il suo radicamento; c'è un'avanzata dell'Udc; nel centrosinistra, la sinistra antagonista prende più voti della sinistra stessa».
Le reazioni dei vincitori alle 16:30
D'Alema: «E' una sconfitta nettissima di Berlusconi»
Lusetti (Ulivo): «Festeggeremo in piazza del Popolo»
10/4/2006
ROMA. «È un risultato di portata storica perchè si profila una sconfitta nettissima di Berlusconi e del centrodestra». Così il presidente dei Ds Massimo D'Alema, che sta seguendo a Bari l'esito delle elezioni, ha commentato i dati degli exit poll. «Se le proiezioni hanno un senso - ha aggiunto - si tratta di una distanza di due milioni di voti in più al centrosinistra, qualcosa di schiacciante». «Il primo dato che emerge - ha ribadito - è che ha vinto Prodi e ha perso Berlusconi con un risultato di portata storica».«Il primo partito è l'Ulivo, di gran lunga e con grande successo». Lo ha affermato a Bari, nel comitato elettorale dell'Ulivo, il presidente dei Ds Massimo D'Alema, rispondendo alla domanda di una giornalista che faceva notare l'ottimo risultato di Forza Italia. L'esponente della Quercia ha spiegato che «l'Ulivo è oltre il risultato delle elezioni europee, pur senza i socialisti. Bisogna sommare anche quei voti -ha fatto notare D'Alema- l'Ulivo è di gran lunga la forza politica più grande con un successo straordinario».
LUSETTI: FESTEGGEREMO IN PIAZZA DEL POPOLO
«Festeggeremo questa sera alle 21 in piazza del Popolo». Renzo Lusetti, coordinatore dell'Ulivo, annuncia che la vittoria, data ormai per certa dell'Unione alle elezioni politica non sarà festeggiata a piazza Santi Apostoli, quasi completamente occupata dagli operaori dell'informazione, ma a piazza del Popolo, dove si è conclusa la campagna elettorale venerdì scorso.
MIGLIAVACCA: SI CHIUDE LA STAGIONE DI BERLUSCONI
«L'Italia ha scelto di cambiare. Si tratta di exit poll ma la tendenza è chiara. Si chiude la stagione di Berlusconi e si apre una fase politica nuova». Così Maurizio Migliavacca, a nome dei Ds, ha commentato la prima uscita degli exit poll sulle elezioni politiche. «Attendiamo con fiducia lo scrutinio del voto» ha aggiunto il coordinatore della segreteria Ds che si riserva di commentare i dati sulle singolo forze politiche più tardi.
RIFONDAZIONE: TENDENZA POSITIVA
«I primi exit poll corrispondono alle aspettative del Paese». Così la deputata del Prc Graziella Mascia commenta i primi exit poll che assegnano la vittoria delle elezioni politiche all'Unione sia alla Camera che al Senato. Commentando il dato con i giornalisti al quartier generale di Rifondazione, Mascia evidenzia «la tendenza positiva anche per il Prc».
CHITI: SI PROFILA UNA GRANDE VITTORIA DEL CENTROSINISTRA
«Si profila una grande vittoria del centrosinistra». lo ha detto il coordinatore della segreteria ds, vannino chiti, parlando con i giornalisti a Firenze dopo la pubblicazione dei primi exit poll che danno l'unione avanti nelle elezioni politiche. Chiti precisa comunque che «si tratta di primi dati, è bene aspettare le proiezioni e quindi è giusto avere prudenza».
DI PIETRO: LA PREANNUNCIATA VITTORIA DELL'UNIONE E' UN BENE PER IL PAESE
«Ci auguriamo che i sondaggi che danno l'Unione vincente sul centro destra siano confermati per il bene del Paese». Così Antonio Di Pietro, leader dell'Italia dei Valori, ha commentato i risultati proposti dal secondo exit poll, nel quale il suo partito risulta tra il 2 e il 3,5% alla Camera e tra il 2,5 e 4% al Senato. «In questa giornata serve un senso di responsabilità per ricostruire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, che in questi anni sono stati presi in giro da una cricca di persone al governo».