14 giugno, 2006

Le poltrone aumentano ma cala il consenso

Eugenio Scalfaro 11 Giu

Dirò una cosa spiacevole. Spiacevole per me che la scrivo e, suppongo, anche per molti di quelli che la leggeranno: il governo Prodi sta dando, almeno per ora, un'immagine di sé scomposta, sciancata, mediocre. Analoghe sensazioni suscita la maggioranza parlamentare che dovrebbe sostenerlo e che sembra invece intenta a seminare sulla sua strada petardi e bombe-carta con effetti deleteri non tanto sulla linea politica quanto sul consenso popolare. Il quale sta scemando in misura preoccupante.
Che i problemi da affrontare fossero di difficile soluzione si sapeva. Dunque non è una sorpresa. In politica economica il lascito ereditato da cinque anni scriteriati impone scelte ardue quanto necessarie, la cui responsabilità non ricade né su Prodi né su Padoa-Schioppa né su Bersani. La politica estera si muove su un sentiero altrettanto stretto e impone lucidità ed equilibrio che per fortuna non fanno difetto a chi ha il compito di gestirla. Così altre decisioni che riguardano la giustizia, la scuola, l'immigrazione, il "welfare", i penitenziari, la bioetica.
Ciò che si rimprovera a questo governo ad un mese dal suo insediamento non è dunque l'erto percorso che deve intraprendere, ma l'esitazione che sembra averlo colto fin dai suoi primissimi passi, quasi sia restio a mettersi in cammino per timore di dover prendere decisioni sgradite a questa o quella parte della lunga coalizione di partiti dalla quale è sostenuto. Come chi, dovendo tuffarsi in acqua da un alto trampolino, tema di compiere quel salto che non può più oltre rimandare ma al quale non sa decidersi, deludendo il pubblico radunatosi per assistere a quell'esibizione e indotto ai fischi anziché agli applausi.
Quest'esitanza nel fare, oltre a deludere e irritare la pubblica opinione pregiudizialmente favorevole, ridà fiato e vigore agli avversari, li ricompatta e li motiva ad un antagonismo radicale che rende ancor più sfibrante un percorso di per sé accidentato. Emergono spinte centrifughe nella coalizione di governo, si accentua la nefasta gara mai sopita alla visibilità dei partiti, la corsa agli incarichi, l'affanno delle mediazioni infinite. Continua l'aumento della falange di sottosegretari, le liti sullo spacchettamento delle competenze ministeriali, le dispute su temi che il programma di governo pretendeva d'aver risolto una volta per tutte. Questo il quadro desolante che rischia di dissipare una parte del credito e delle aspettative riposte in Prodi e nella sua squadra, ancora così poco coesa da far temere l'avverarsi delle peggiori previsioni.
Temo che i protagonisti politici del centrosinistra non si rendano ben conto dei rischi crescenti di una situazione così fragile. Temo che se non supereranno rapidamente il crinale che li sovrasta, non riusciranno più a procedere nell'ardua scalata di cui conoscevano l'erta pendenza. E perciò li esorto, nel loro interesse e soprattutto nell'interesse del paese il quale non attende altro che d'esser governato con equità, con senno e conoscenza dei problemi, a rompere gli indugi e impedire esibizioni esiziali per una maggioranza così esigua. Non si è ancora sentita una mano ferma e non si è percepito un pensiero illuminato. Si continua a parlare di verifiche da parte di questo o di quel partito scontento. Ma una cosa debbono invece temere i dirigenti del centrosinistra: che la verifica sia chiesta a tutti loro da chi ha loro dato consenso e ora dubita dei risultati. Non c'è molto tempo a disposizione, anzi ce n'è assai poco.
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Dicevamo che le maggiori difficoltà oggettive riguardano la politica economica e la politica estera aggiungendo che per fortuna queste due postazioni sono ben presidiate. Facciamo dunque il punto di queste ardue partite cominciando da quella in corso tra il ministro dell'Economia, le autorità europee e la vasta platea dei lavoratori, degli imprenditori e del mercato.
Avremo entro luglio (questa ormai è cosa certa) una manovra dell'ordine di 7-10 miliardi per raddrizzare i conti riportando il deficit al 4 per cento e adottando nel contempo provvedimenti di stimolo alla crescita e alla competitività. E avremo un Dpef (Documento di programmazione economica) quinquennale che dia all'Europa e ai mercati traguardi certi per l'intera legislatura. Ma c'è disputa tra le parti sociali sul reperimento delle risorse e sulla ripartizione delle misure che incentivino la crescita.
Padoa-Schioppa sembra orientato ad applicare l'alleggerimento del cuneo contributivo ad alcuni settori di imprese escludendone altri. La Confindustria si batte invece per un taglio contributivo generalizzato e in maggior parte riservato alle imprese. I sindacati a loro volta chiedono il sostegno dei redditi più deboli per rilanciare la domanda interna.
A questo punto è opportuna una prima osservazione: se la manovra di luglio è prevedibile entro una dimensione massima di 10 miliardi (che non sono poca cosa coi tempi che corrono) essa sarà almeno per due terzi assorbita dal raddrizzamento del deficit e dal rifinanziamento dei cantieri dell'Anas e delle Ferrovie. Per le misure destinate a incrementare la crescita lo spazio oscilla dunque tra i 2 e i 4 miliardi, non di più. Il taglio del cuneo contributivo di 5 punti per tutto il sistema delle imprese è dunque escluso in partenza nella manovra-bis, visto che il valore di quel taglio è stimato a 10 miliardi.
Va dunque collocato nella Finanziaria del 2007 e non nella manovra di luglio, se vogliamo essere realistici. Se però si vuole - e a nostro avviso si deve - dare un segnale in positivo alla politica della crescita contemporaneamente a quella del raddrizzamento del deficit, il terreno sul quale operare non è tanto il cuneo contributivo quanto le imposte sul lavoro. Con 2-4 miliardi disponibili non si può fare di più, ma l'alleggerimento sui redditi bassi non sarebbe trascurabile.
Quando poi, nella prossima Finanziaria, si dovrà affrontare il problema della competitività, allora il criterio di generalizzare quella misura sembra il più corretto per non segmentare l'offerta. A quel punto sarebbe ragionevole ritoccare al rialzo le aliquote Irpef sui redditi più elevati, modificando il secondo modulo della riforma fiscale Tremonti che dissipò 6 miliardi di entrate senza ottenere alcuna ripercussione positiva sull'economia.
La manovra d'emergenza di luglio non potrà affrontare il tema del debito pubblico, che peraltro si colloca in prima linea nelle preoccupazioni di Bruxelles e della Banca centrale europea. Esso è reso ancor più preoccupante dalla riclassificazione in corso presso le autorità europee di alcune poste del nostro bilancio e in particolare di alcune cartolarizzazioni di debiti comunali e regionali che, se ricomprese nel debito pubblico italiano, lo aggraverebbero di almeno un punto di Pil portandolo decisamente al 110 per cento con effetti negativi sui "rating" e sui mercati.
Questo sarà - noi pensiamo - uno dei temi principali del Dpef, strettamente connesso a quello di altre grandezze finanziarie: avanzo primario, onere del debito in una fase di tassi di interesse in aumento. In Padoa-Schioppa i mercati e l'Europa hanno piena fiducia. Ma è chiaro che il nostro ministro dell'Economia avrà bisogno del sostegno politico di tutto il governo. Lì non ci sarà posto per voci dissonanti, tutti debbono essere ascoltati ma alla fine ci dev'essere uno che prende le decisioni a nome dell'intero governo.
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Sembrano addensarsi nubi sui rapporti del governo con l'Amministrazione Usa a proposito del ritiro del nostro contingente militare dall'Iraq. Nessuna questione - così sembra - sul rimpatrio del contingente, ma (dice il Dipartimento di Stato) Washington desidera che una missione di civili italiani resti a Nassiryia per portare avanti il programma di aiuti per la ricostruzione di quella provincia. Il Dipartimento di Stato ipotizza una presenza di 60 italiani civili e di 300 italiani militari che veglino sulla loro sicurezza. Sembrerebbe una questione di dettaglio, invece nelle ultime ore è diventata una sorta di ipoteca sui rapporti politici complessivi tra Usa e Italia. Non barattabile, dice Washington, con la nostra presenza in Afghanistan.
È un curioso modo di ragionare, questo dell'Amministrazione americana. Noi abbiamo deciso di ritirare il contingente militare. L'abbiamo deciso, anzi ribadito, in questi giorni. Il ministro D'Alema l'ha spiegato in dettaglio al legittimo governo iracheno ottenendone l'accordo. Washington ne prende atto e non si oppone (del resto non ne avrebbe titolo alcuno). Ma vuole, fermissimamente vuole, una presenza di 60 civili e 300 militari italiani a Nassiryia. Che cos'è, un'impuntatura? Un dispetto? Un atto di sfregio al governo di centrosinistra?
Stupiscono alcune voci giornalistiche che definiscono non chiara la nostra posizione sull'Iraq scorgendovi tracce del carattere storicamente "capitolardo" dell'Italia, da Caporetto all'8 settembre. Diciamo intanto che nella storia militare italiana non ci fu solo Caporetto. Ci furono tre anni nelle melmose trincee del Carso e dell'Ortigara, ci furono 600 mila morti e un milione di feriti in quelle trincee, un massacro senza nome e senza precedenti. L'8 settembre poi fu l'ingloriosa conclusione d'una ingloriosa guerra dove tuttavia non mancò la voglia degli italiani di battersi, in Grecia, in Russia, a el Alamein.
Mancarono i mezzi, il carburante, i cannoni, i carri armati, le scarpe, i cappotti, e mancò soprattutto la strategia degli alti comandi. Non c'era né poteva esserci la motivazione morale d'una guerra, voluta per avere "una manciata di morti" da far valere al tavolo di una pace supposta vittoriosa per il nazifascismo.
Tutto questo non c'entra niente con l'Iraq. Il centrosinistra da tre anni giudica un disastro la guerra irachena e un errore averci spedito truppe di pace coinvolte inevitabilmente nella guerra. Ha deciso di ritirare il contingente militare. Lo farà entro l'autunno, con quattro mesi di preavviso a partire. Vuole essere presente con aiuti economici e tecnici. Non spetta all'alleato americano stabilire quanti e dove debbano essere i civili italiani e quanti i militari addetti alla loro sicurezza. Non risulta che analoghi vincoli siano stati posti alle imprese tedesche, francesi, russe che operano in Iraq nella totale assenza di truppe di quei paesi. Noi siamo diversi? Perché siamo diversi? Una risposta dovrebbe pur esser data.
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Resta il tema Afghanistan. Tema complesso perché la situazione in quel paese è in fase di rapido deterioramento. A Kabul c'è un governo poco più che fantasma. I Taliban sono sempre più presenti e riorganizzati sia nelle province di confine col Pakistan sia ai confini con l'Iran, dove la guerriglia ingrossa a vista d'occhio.
È giusto non ritirare i nostri soldati dall'Afghanistan, posti sotto bandiera Onu e quindi costituzionalmente in regola. Ma è altrettanto giusto ridiscutere le finalità della missione e di conseguenza le relative regole di ingaggio dei militari presenti su quel teatro.
Allo stato dei fatti noi non contiamo quasi nulla in Afghanistan: forniamo manovalanza militare e basta. Trattandosi di una missione Onu è nostro diritto-dovere partecipare all'elaborazione di strategie e di tattiche operative. E politiche. Purtroppo da qualche tempo, ovunque vadano, le truppe americane eccitano il malcontento e l'ostilità delle popolazioni locali. In particolare in territori dell'area islamica. Qualche ragione ci sarà. È degli eventuali errori che dobbiamo parlare. Non per ritirarci, ma per restare con dignità e utilità.