14 aprile, 2006

D'Alema: «Il premier fermi la strategia della tensione»

Corriere.it 14 Apr 2006

No alla grande coalizione. Se lo scontro paralizza le istituzioni si tornerà a votare. Apertura sul Quirinale

Mercoledì pomeriggio aveva detto al cronista: «Né guerre di religione né inciuci. È essenziale che ci siano il dialogo e una comune assunzione di responsabilità. Non stiamo ballando il valzer ma parliamo dei destini dell’Italia. Ci misureremo. Se questo discorso è serio lo vedremo nei mesi che verranno. Siamo tutti chiamati alla prova dei fatti». Poi, in serata, la nuova offensiva di Silvio Berlusconi contro la regolarità del voto. E così Massimo D’Alema, 57 anni, presidente dei Ds, ha preferito fermare l’intervista nella quale rispondeva no alla grande coalizione proposta dal premier ma invitava al confronto per la scelta del presidente della Repubblica. Ha voluto aspettare, riflettere. È preoccupato ma non demorde sulla necessità del dialogo. Ed esordisce con una sorta di appello. «Voglio invitare il presidente del Consiglio ad abbassare i toni e a fermarsi in questa che appare come una vera e propria strategia della tensione, una delegittimazione della vittoria elettorale che inasprisce lo scontro. Noi abbiamo piena fiducia nei confronti dei magistrati delle corti di appello che hanno sempre fatto con scrupolo le verifiche che ora si presentano più semplici che nel passato perché il numero delle schede contestate è assai più basso di quanto sia mai avvenuto».
Ritiene che in questo accenno di Berlusconi ai magistrati ci sia un nuovo terreno di polemica? Come dire: a controllare i voti ci sono le toghe rosse.
«Trovo che alternare l’accusa di brogli, gravissima e priva di qualsiasi riscontro, all’offerta di grande coalizione denoti una enorme confusione e renda più preoccupante questo finale di partita ».
Confusione? Non pensa che sia una strategia?
«No, sarebbe una strategia folle e non credo che Berlusconi sia folle. Certo, si può capire la rabbia di uno che ha visto svanire la vittoria per pochi voti. Dovrebbe riflettere sull’assurdità e pericolosità di questa legge elettorale. Si tratta di un finto proporzionale che in realtà è il più brutale dei sistemi maggioritari. Le elezioni sono state trasformate in un plebiscito mediatico».
Ma proprio questa legge vi ha fatto vincere.
«Non è vero, si tratta di una sciocchezza. Nessuno è in grado di prevedere quali sarebbero stati gli esiti con l’uninominale maggioritario nei collegi ».
Voi mettete la mano sul fuoco che il risultato del voto è corretto?
«Lo dicono il capo dello Stato e ilministro degli Interni. Non c’è riscontro di brogli. Parliamo dell’Italia, un Paese democratico, non della Bielorussia».
Questa ombra del sospetto evocata da Berlusconi condizionerà tutta la legislatura?
«Sarebbe totalmente irresponsabile. Spero che una volta che i risultati siano stati proclamati dagli organi istituzionali, Berlusconi telefonerà a Prodi riconoscendo la sconfitta».
Pensa che la totale chiusura sulla proposta di una grande coalizione alimenti quest’acuirsi della contrapposizione?
«Questo è un sospetto etico su Berlusconi al quale mi rifiuto di aderire. Fare questa ipotesi equivarrebbe a considerarlo un ricattatore».
Ma una larga intesa è proprio impossibile?
«Abbiamo avuto uno scontro programmatico radicale e un’intesa ora sarebbe incomprensibile da parte dei cittadini. Aumenterebbero la sfiducia, il qualunquismo e il discredito verso la politica. Non può esserci un colpo di scena, un coniglio estratto dal cilindro».
L’offerta della presidenza di uno dei due rami del Parlamento non aiuterebbe il processo di riconciliazione?
«Il fatto che l’opposizione possa avere, cosa del tutto anomala, la presidenza di una delle due Camere non è la premessa di una comune assunzione di responsabilità ma la conseguenza. E questo può accadere in un clima politico in cui ci sia l’impegno comune a garantire il funzionamento delle istituzioni e il diritto a governare di chi ha la maggioranza. Dovrebbe esserci un mutamento di scenario per poter aprire una discussione di questo tipo. Altrimenti non è credibile e non è possibile. Non possiamo ridurre la politica ad un mercato delle poltrone».
Ma se ci fosse il mutamento di scenario? Se Berlusconi abbassa i toni e riconosce la vostra vittoria?
«Penso che a quel punto potrebbe essere aperto un dialogo. Ma non credo ai colpi di scena».
Non potreste fare voi il primo passo, magari offrendo la presidenza del Senato a personalità come Giuseppe Pisanu o Marco Follini?
«Ma questo è roba da angiporto! Non siamo ai mercati generali. Lasciamo stare, se no i cittadini ci corrono dietro. Dobbiamo costruire una normalità democratica, e cioè il bipolarismo tra due coalizioni che si rispettano, che non si demonizzano e che si riconoscono in un quadro di regole condivise. Non si risolve adesso, in quindici giorni, con una telefonata a Pisanu o a Follini. Abbiamo di fronte scogli enormi. A giugno, per esempio, c’è il referendum sulla nuova Costituzione. Io spero che venga cancellato questo aborto. Ma il centrodestra che fa? Difende la Costituzione di Calderoli o favorisce il ritorno a quella di Calamandrei?».
Prima c’è l’elezione del capo dello Stato.
«Qui dobbiamo cercare il massimo di convergenza possibile. Nel ’99 avevamo la maggioranza in Parlamento. E forse, dal punto di vista degli equilibri del governo di allora, sarebbe stato conveniente affrontare diversamente il tema dell’elezione del capo dello Stato. Ma io, che ero presidente del Consiglio, andai al dialogo con Berlusconi perché ci fosse una convergenza sul nome di Carlo Azeglio Ciampi. Credo di aver fatto il bene del Paese. E penso persino che se in questi anni Berlusconi ha potuto governare senza avere un conflitto drammatico con la presidenza della Repubblica lo deve a questa scelta».
E allora l’elezione del presidente della Repubblica può essere il fonte battesimale di un nuovo dialogo?
«Il centrosinistra deve ricercare il confronto più aperto. Quando noi diciamo metodo Ciampi ci riferiamo ad una cosa concreta».
Un modo per pacificare?
«Negli anni Cinquanta il Paese era aspramente diviso ma le classi dirigenti avevano un fortissimo senso della comune responsabilità. Accadeva che nelle piazze c’erano scontri sanguinosi ma Mario Scelba e Pietro Secchia si telefonavano per evitare che si precipitasse in una guerra civile. Oggi è il contrario. Il clima da guerra civile non è nel Paese ma nella classe politica»
Non ci sono le due Italie?
«Ce ne sono molte di più. La divisione attraversa i campi sociali e investe la sensibilità civile e culturale. Quanti milioni di elettori non leggono i giornali? Tra questi mondi c’è una forte differenza. Penso ad una similitudine con gli Stati Uniti dove si aveva la percezione che i democratici fossero i vincitori assoluti. Poi è venuta fuori un’America profonda che invece ha votato Bush. In Italia Berlusconi ha saputo evocare questa paura della sinistra agitando un pericolo per i ceti medi e per i valori tradizionali. È stato un grande combattente, bisogna dargli atto. Noi abbiamo sottovalutato questa offensiva e non ci siamo impegnati abbastanza per contrastarla. Sulla questione fiscale siamo apparsi incerti, abbiamo alimentato i dubbi. Ci volevano maggiore tempestività e chiarezza. Ora il governo deve lanciare dei segnali di rassicurazione. Le paure sono largamente immotivate. Non intendiamo né scardinare la famiglia né aumentare le tasse né scontrarci con la Chiesa».
Ma è già partito il fuoco di fila contro il dialogo con il premier uscente. Micromega titola: mai più Berlusconi, mai più inciucio. Riprende la demonizzazione?
«Mi hanno accusato per cinque anni di aver barattato la legge sul conflitto di interessi per la bicamerale. È gente che non ha nemmeno sfogliato gli atti parlamentari. Opposti estremismi, Berlusconi da una parte, loro dall’altra. Sono campagne prive di verità, basate sul sospetto. Forme di linciaggio. Se tu hai un’opinione diversa sei un traditore, ti sei venduto l’anima. È il peggio della tradizione comunista degli anni Trenta. Io sono un uomo di sinistra ragionevole che cerca di impegnarsi per il bene del Paese».
D’Alema presidente della Camera o ministro degli Esteri?
«O anche D’Alema nulla. Non sono uno che cerca incarichi o fa i capricci per averli. Bisogna capire quel che è più utile in una coalizione complessa come la nostra».
Sarebbe quindi pronto a fare un passo indietro per lasciare la presidenza della Camera a Fausto Bertinotti?
«Non ho mai fatto un passo avanti».
Ma ritiene che il segretario di Rifondazione sarebbe un buon presidente?
«È un’ottima persona, garante dei diritti di tutti».
I Ds hanno comunque avuto un risultato deludente.
«In questi anni abbiamo dedicato il nostro impegno a costruire l’Ulivo. Con Fassino ci siamo candidati sotto quel simbolo. Io concludevo i comizi dicendo: alla Camera votate la lista unitaria, al Senato i Ds o la Margherita. È questa la nostra prospettiva strategica che è stata premiata dagli elettori e soprattutto dai giovani. C’è una generazione nuova, la generazione dell’Ulivo, sulla quale l’appello dell’anticomunismo e dei fantasmi del passato non funziona. Dirò di più. Permolto tempo ci siamo attardati a dibattere sul rischio che l’Ulivo avrebbe comportato un rafforzamento della sinistra radicale. Così non è stato. Oggi noi abbiamo il dovere di aprire il cantiere del partito democratico».
Intende dire che Ds è un involucro che state già abbandonando?
«Intendo dire, anche se la mia è solo una proposta, che vanno fatti subito i gruppi unici sia alla Camera sia al Senato. E dopo l’autunno va avviata la fase congressuale dei Ds per avere il mandato alla costituzione del partito democratico. Che non è una somma di burocrazie ma un processo aperto alla società civile e alla cultura».
Porte aperte anche alla Rosa nel Pugno?
«Aperte a tutta l’area socialista, che fu parte fondativa di questo progetto. Mi pare che la Rosa nel Pugno fosse solo un cartello elettorale».
È vero che lei vorrebbe Piero Fassino al governo mettendo Pierluigi Bersani al suo posto?
«Sono falsità. Io non posso volere niente perché è il congresso che elegge il segretario, non lo nomina D’Alema. Fassino ha svolto e svolge con passione e sacrificio un compito prezioso. Deve essere lui innanzitutto a dire quello che vuole fare. Tutti noi dobbiamo porci il problema di come disporre le nostre forze di fronte alla fase costituente del partito democratico e alla necessità di favorire un ricambio generazionale. Vorrei uscire dal pettegolezzo del complotto».
Ma mentre fate tutto questo, la talpa della grande coalizione può continuare a scavare. Non rischiate cioè di vivere ogni giorno con l’incubo che un senatore vi faccia mancare la maggioranza perché sta a casa con il mal di pancia?
«Noi dobbiamo muoverci su tre grandi direttrici. Costruire l’Ulivo, governare per rimettere in moto tutto il Paese, ricercare il dialogo con l’opposizione per garantire il funzionamento delle istituzioni. Nelle grandi democrazie europee quando un governo ha un voto di scarto, se un deputato della maggioranza si sente male l’opposizione ne fa uscire uno dei suoi. Così funziona la democrazia. La talpa può scavare ma è cieca e rischia di fare danni. Bisogna sapere che se c’è uno scontro frontale che punta a paralizzare le istituzioni, allora non c’è la grande coalizione ma ci sono nuove elezioni».
Marco Cianca