Il tramonto della Silvio Époque
Marcello Sorgi su La Stampa 3 Mag
Nel giorno delle dimissioni di Berlusconi, prima di chiedersi quale futuro lo aspetta, forse c’è ancora qualcosa da capire della sua strana e recente sconfitta. Una sconfitta cui l’uscita di scena del governo più lungo della storia repubblicana dà un senso di fine epoca, ma che tuttavia lo lascia padrone di metà del campo.
Si può partire di qui, con una premessa: quando, tra venti, trenta, o cinquant’anni, gli storici cercheranno di analizzare il lungo periodo berlusconiano (finora sono più di tredici anni), si troveranno di fronte a una mole enorme di libri e documenti, a una sproporzione tra il materiale apologetico e quello demolitorio, a un gran divario tra gli autori del primo, in gran parte amici, collaboratori e servitori del Cavaliere, e del secondo, tra le migliori menti di un paio di generazioni dei suoi avversari. La memoria visiva - film, documentari, archivi tv, spezzoni di telegiornale - contribuirà ad esaltare gli aspetti grotteschi e reali di questi anni. Mentre sarà piùdifficile ricostruire le reazioni italiane a un ciclo, a una fase, a un lungo evento, che anche dopo decenni sembrerà un ciclone. Così, più o meno seriamente, e magari in attesa di revisioni storiche, l’immagine di laboratorio dell’epoca berlusconiana somiglierà a una specie di riedizione del fascismo: una ventata politica nuova, una sorta di populismo autoritario, alimentate da un sogno irrealizzabile e da un uso distorto di tv e mezzi di comunicazione, e che piano piano cancellano la libertà e instaurano un potere assoluto.
Ecco, non fosse perché se ne parla nel giorno in cui Berlusconi scende sconfitto per le scale che aveva salito vittorioso cinque anni fa, non fosse per la mesta uscita dal portone del Quirinale verso cui la prima volta «la gente mandava baci», non fosse per l’assoluta normalità di questa giornata post-elettorale – le facce tristi o compunte dei leader di destra, il rosso delle bandiere della sinistra che sventolano ancora dopo il Primo Maggio -, una rilettura forzata come questa, del periodo berlusconiano, a distanza di anni potrebbe pure prendere piede.
Senza chiedersi, perché altrimenti non tornerebbero i conti, come se n’è andato veramente Berlusconi: se arrestato, o ucciso, o fuggito mentre tutto andava in rovina, come il Caimano nel finale epico del film di Nanni Moretti. In realtà – ed è il punto che dovrà restare fermo – Berlusconi lascia Palazzo Chigi dopo una normale sconfitta; battuto alle elezioni politiche che cinque anni prima aveva vinto tranquillamente. Il potere di cui ha goduto – e abusato, a detta di molti – è lo stesso di cui altri leader si erano serviti prima di lui, e che comelui, nello spazio diunmattino, avevano visto consumarsi. Così la fine del Berlusconi premier il 2 maggio del 2006 non è diversa da quella di Prodi nel 1998 o di D’Alema nel 2000. E come sempre, identico sarà per lui il dover dimenarsi nel velenoso mare di ironia, cattiveria e compassione che accompagnano la caduta di un leader in Italia. Se questo è appunto il dato di fatto che dovrebbe servire a contrastare, tra molti anni, la vulgata della fine del nuovo fascismo (non di un regime, ché purtroppo c’èunatendenza, forse unadisponibilità naturale, tutta italiana, ai regimi), c’è spazio per introdurre una seconda riflessione sul tramonto della lunga stagione berlusconiana.
Anche in questo caso, con una premessa: è opinione comune, infatti, che Berlusconi sia stato la rovina di se stesso con le leggi ad personam e i tanti altri provvedimenti, presi dal suo governo e approvati dalla sua maggioranza, ad esclusivo vantaggio suo e delle sue aziende. E non v’è dubbio che condoni di ogni genere, e leggi procedurali come la Cirami e la Cirielli, oltre a una certa impostazione vendicativa verso i magistrati delle riforme della giustizia, abbiano aiutato il Cavaliere e le sue aziende, dapprima a sopravvivere alle pendenze giudiziarie, e poi, una volta superato il pericolo, a crescere e a prosperare. Oggi è difficile dire se, a un dato momento della sua storia imprenditoriale, Berlusconi potesse fare, per dire, la fine di un Tanzi. Forse no. Più forte era la struttura del suo gruppo e la qualità dei suoi manager.Ma che la spinta del governo e di certe leggi siano servite ad aiutare il Cavaliere e le sue aziende a togliersi dai guai, è evidente. Anche se non si trattava del primo caso di soluzioni politiche approntate per casi giudiziari di una certa entità. Basti pensare, poco prima di Tangentopoli, all’amnistia varata dal Parlamento per i reati commessi prima del 1989: uno dei tanti casi in cui, nella storia repubblicana, il potere politico ha cercato e trovato il modo di mettersi di traverso a quello giudiziario.
C’è dunque un’altra spiegazione delle ragioni della sconfitta, sia pure dimisura, di Berlusconi. Più che per quel che ha fatto, e ammesso che quel che ha fatto abbia potuto pesare quanto si pretende, Berlusconi potrebbe essere caduto anche per tutto quello che non ha fatto o ha lasciato a metà. E, da questo punto di vista, la parabola della Seconda Repubblica, di cui il Cavaliere è protagonista e uomo simbolo, può diventare davvero emblematica, e non solo per lui. Berlusconi infatti è stato il leader che nel ‘93, schierandosi con Fini e l’allora Msi contro Rutelli nelle prime elezioni del nuovo corso, ha messo in motoil meccanismodel maggioritario, con una piena legittimazione di tutte le forze politiche e la realizzazione dell’alternativa di governo a tutti i livelli.Madodici anni dopo è lo stesso Berlusconi che, con l’introduzione della nuova legge elettorale, ha posto le premesse per il ritorno del proporzionalismo, e domani del trasformismo.
Di questo strano e sinuoso andamento, e di un percorso pieno di ripensamenti, quando non contraddittorio, nei cinque anni che a detta sua dovevano servire a cambiare l’Italia, Berlusconi alla fine ha lasciato varie tracce. Dall’economia dei tagli deboli delle tasse e della mancata ristrutturazione di una macchina burocratica statale pletorica e costosa, a politiche di rigore necessarie ma decise in extremis, spesso sotto la minaccia di sanzioni europee. E poi ancora, dalla competitività, all’innovazione, alla flessibilità del mondo del lavoro, oggetto di un continuo «stop and go», alle istituzioni (istanze giuste, come premier più forte e rapporto più diretto tra eletti ed elettori, annegate in una riforma mostruosa di metà della Costituzione), alla politica estera e a quella della sicurezza (immigrati e terrorismo). Insomma, con premesse giuste e comportamenti spesso sbagliati, Berlusconi ha cercato, in molti casi senza riuscirci, di realizzare quei cambiamenti di cui da tempo l’Italia ha bisogno. Questo è l’aspetto più difficile da accettare, che c’è un rosso e un nero anche nel bilancio politico dell’epoca berlusconiana. Ma è così: e buona parte del programma e delle scadenze che il Cavaliere si era dato erano tali che anche un governo diverso dal suo, oggi, potrebbe cercare di riprenderli.
C’è una lezione che si può ricavare, prima di archiviarla, da tutta questa vicenda. Una lezione che potrebbe servire anche al centrosinistra, intento a formare il nuovo governo. Se l’Unione, come ha fatto in questi anni la Casa delle libertà, pur di tenere insieme la maggioranza dovesse decidere di rinviare riforme indispensabili, anche il futuro di Prodi sarebbe destinato ad ingrigirsi. E il Paese, estenuato dalla lunghezza e dall’inutilità dello scontro, non potrebbe che ripiegare sulla sua stanchezza. Tra cinque anni o anche meno, a quel punto, quando torneremo a votare, l’alternativa già sperimentata tra governi diversi potrebbe rivelarsi impraticabile. E a poco a poco, continuando a rallentare, l’Italia, troppo tardi, potrebbe accorgersi di essere ferma.
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