05 maggio, 2006

L'offensiva dei dalemiani polisti: con lui, è il migliore dei peggiori

Aldo Cazzullo su Corriere.it 5 Mag

Dal disgelo con Tremonti all'appello di Ferrara oggi sul Foglio Buttafuoco: il nostro Riccardo III. Feltri: disgrazia accettabile.

Chi vede in lui l'antidoto alla tecnocrazia, o al veltronismo, o ai girotondini, o alle toghe rosse. Chi lo considera l'erede di Togliatti, per cinico realismo, o di Craxi, per virile decisionismo. Chi già vede nel Quirinale la nuova Bicamerale. Chi telefonava anche lui a Consorte. Chi lo pensa come il più intelligente e anche il più affidabile. Sono i dalemiani di destra: direttori di giornale, politici, editorialisti, preti. E grandi elettori.
Il protodalemiano di destra fu Pinuccio Tatarella. C'era un gioco, tra i due e i rispettivi famigli che li vedevano passeggiare conversando sul lungomare di Bari: «Di cosa state parlando?» chiedevano. E loro, prontissimi: «Di chi sia il politico più intelligente d'Italia» rispondevano strizzando l'occhio, a lasciar intendere che tolti loro due non restava granché («se ci fosse ancora Tatarella non avremmo questo sconcio!» lamentava D'Alema dopo l'incursione di Berlusconi a Gallipoli in elicottero). Dopo l'idillio iniziale e una breve rottura è tornato buono il rapporto con il capo del centrodestra pugliese Fitto, neodeputato. Ma in Forza Italia «Spaccaferro» ha estimatori di ben altro peso.
Quando le Iene sottoposero Tremonti e D'Alema alle interviste parallele, alla domanda «che cosa ti piace dell'altro» entrambi risposero: «L'intelligenza». Che per entrambi è la cosa più importante. Quando poi il 9 gennaio scorso, nel pieno della bufera Unipol, vissero parallelamente un'intera giornata, prima a Roma nello studio di Porta a Porta poi a Milano alla presentazione di un libro di Floris, fu tutto un gioco di sorrisi, battute, citazioni, un «ti concedo» e un «touché»; erano anche vestiti quasi uguali. Il culmine fu quando D'Alema chiese a Tremonti: «Quindi lei, ministro, non direbbe mai a un finanziere di consegnare un nastro a un giornale di Berlusconi, com'è stato fatto con le conversazioni di Fassino?». «Mai e poi mai — fu la risposta —; se avessi fatto anche solo l'uno per cento di quanto avrei potuto, ce ne sarebbe una certa evidenza. Se guardi l'abisso, l'abisso ti guarda; io l'abisso non l'ho mai guardato». «Ecco, bravo» sospirò D'Alema, sollevato.
Ognuno ha la sue motivazioni per amarlo: perché è il più politico, perché ha sempre considerato Berlusconi non un demone da esorcizzare ma un avversario con cui trattare, perché da dieci anni progetta di riscrivere con gli altri quelle regole istituzionali che larga parte dei suoi vorrebbe semmai difendere. Soprattutto, D'Alema piace a destra perché come la destra disprezza la sinistra delle emozioni e dei tortellini, dei moralisti e dei giustizialisti. Ama D'Alema chi non ama Benigni e Nanni Moretti (tranne quello berlusconidipendente del Caimano), chi non legge Paul Ginsborg e Camilleri, chi non ascolta Vecchioni e Piovani. Infatti ama D'Alema Giuliano Ferrara. «Il Foglio» ha aperto la campagna per Spaccaferro sul Colle prima ancora della rinuncia di Ciampi. E oggi pubblicherà un appello a Berlusconi, affinché lo sostenga. Tra i sostenitori della prima ora, Carlo Rossella, Giano Accame, Piero Ostellino. Vogliono D'Alema gli ex leader di Potere Operaio Oreste Scalzone e Lanfranco Pace, come alternativa alla noia — «o Massimo o moriamo di pizzichi» — e gli ex dc Francesco Cossiga e Paolo Cirino Pomicino, come campione della politica contro poteri forti e salotti della finanza, sospettati di «tifare Amato». Come motivazione, Ferrara ha ripubblicato il discorso per l'insediamento della Bicamerale, in cui D'Alema si diceva pronto a sfidare l'impopolarità del proprio elettorato (che non sarebbe tardata) e definiva «erronea» la convinzione della sinistra di aver colto un'ampia vittoria elettorale. Marcello Veneziani confessa di nutrire «da tempo una grande ammirazione per la mente più lucida dei Ds», pur restando scettico sulle sue chance. Vittorio Emanuele Parsi, editorialista di «Avvenire», gli riconosce «indipendenza e autorevolezza». E Pietrangelo Buttafuoco vede in lui l'ideale «presidente del cattiverio», il più perfido quindi il più simpatico, «il nostro Riccardo III, con accanto Minniti vero erede di Italo Balbo» e già pregusta i discorsi di Capodanno, «con D'Alema che dalla tv maltratta gli italiani panciafichisti: "Compatrioti dei miei stivali, basta gozzovigliare con lo zampone, ora aprite bene le orecchie e prendete nota!". Sarà un numero alla Carmelo Bene». Vittorio Feltri ha schierato «Libero»: «D'Alema disgrazia accettabile», «D'Alema il male minimo», «Condannati a D'Alema» gli ultimi tre titoli. E oggi il vicedirettore Renato Farina scriverà: «Chiunque altro di sinistra sarebbe una sciacquetta, con cui sarebbe inutile stringere qualsiasi patto: tanto nessuno seguirebbe alla base. L'unico capace di mantenere i patti è D'Alema. E' un cobra; ma sarà più facile che morda Prodi anziché il Cavaliere. E poi se Prodi cadesse non darebbe mai l'incarico a Veltroni». Aperturista anche Gianni Baget Bozzo su «Repubblica». Il liberista Oscar Giannino, che quest'estate insieme con l'editorialista del «Giornale» Lodovico Festa aveva seguito senza malevolenza la scalata Unipol alla Bnl, ieri sul «Riformista» ha invitato Prodi a «superare le sue ubbìe», a eliminare definitivamente il «fattore K» come da definizione di Ronchey e ad appoggiare Massimo. All'apparenza rassegnata la «Padania», ma sotto sotto ben disposta verso l'uomo che esorcizza i fantasmi del grande centro ed evoca antichi corteggiamenti: «Ormai D'Alema è un affare di Stato» titolava ieri. E il direttore Gianluigi Paragone a Radio24: «Molto meglio lui di Amato e Marini».
Difficile che tanta simpatia si trasformi in sostegno esplicito; più facile che nel voto segreto possa compensare la defezioni di chi a sinistra, per opposti motivi, D'Alema non lo ama. Resta da vedere cosa farà il vero dalemiano di destra, Silvio Berlusconi. Il suo entourage, a cominciare da Fedele Confalonieri, da sempre lo considera il migliore dei peggiori, e il possibile garante dell'impero tv. Se il Cavaliere insisterà su Gianni Letta, senza trattare su Amato, Marini o Napolitano, sarà la prova che vuole davvero D'Alema, per avere al Quirinale un caro nemico senza rinunciare alla polemica contro la sinistra ingorda. Come ha scherzato sorridendo Bruno Vespa: «Con D'Alema sul Colle la nuova legge sulle televisioni comincerà così: a Mediaset quattro reti...».