06 maggio, 2006

Francesco Verderami

I timori di Francesco e la lezione di Ciriaco

L'ansia è stata la sua compagna di viaggio ieri mattina, mentre si dirigeva verso San Giovanni Rotondo. Il timore che una candidatura per il Colle portata al voto senza un'intesa con l'opposizione corra il rischio di «naufragare nel segreto dell'urna». Chissà se Francesco Rutelli ha trovato un po' di pace quando si è raccolto in preghiera nel santuario dedicato a Padre Pio, mentre ha ascoltato la messa officiata dal segretario di Stato del Vaticano, Angelo Sodano. E chissà se ha tratto giovamento dal colloquio con il cardinale, prima di rientrare a Roma per il vertice con gli alleati.
A Rutelli è chiaro che, per la corsa al Quirinale, i Ds sono bloccati sul nome di Massimo D'Alema, e per spirito di coalizione è pronto a collaborare con Piero Fassino. Ma «il metodo fondato su un nome solo e basta» non lo convince. E non lo condivide. Perché un petalo non fa una rosa, non consente cioè di coltivare un dialogo con il Polo per cercare di raggiungere un accordo sul futuro presidente della Repubblica. Se in più quel petalo mette a repentaglio i petali della Margherita, è ovvio che non può accettarlo. La corsa di D'Alema ha infatti inciso negli equilibri interni dei Dl, e se fino a ieri Arturo Parisi stava sulla sponda opposta, ora Rutelli se lo ritrova al fianco. Il professore ritiene che un conto è non ammettere veti del centro-destra su «un candidato della Quercia», ma poi «il candidato» deve riscuotere «il massimo dei consensi nella coalizione e in Parlamento». Come Rutelli, Parisi non ammette operazioni al buio, nè «prove muscolari», e il voto del 9 aprile dovrebbe far riflettere che simili iniziative danneggerebbero non solo le istituzioni ma anche il governo di centrosinistra. Quel petalo che il Polo di fatto ha già scartato, ha cambiato la geografia delle alleanze nella Margherita, visto che «per senso di realismo politico» Dario Franceschini pensa che la candidatura di D'Alema al Quirinale vada appoggiata senza se e senza ma.
Non a caso Gian Claudio Bressa, appena nominato suo vice al gruppo dell'Ulivo alla Camera, si è dichiarato a favore del presidente dei Ds. Anche Franco Marini sembra concordare con questa linea, sebbene la posizione del presidente del Senato appaia più defilata, perché c'è chi sostiene che possa ancora essere un candidato al Colle. Di certo c'è che nel partito i due fronti sono ormai ai ferri corti, lo testimonia il gioco di disinformazione che l'altra sera ha messo in subbuglio la Margherita: non era vero che Rutelli avesse dato il via libera a D'Alema, eppure così era stato ufficializzato da un'agenzia di stampa. E lo si è visto al vertice dell'Unione che un pezzo della maggioranza — a partire da Enrico Boselli — non accetta la logica della spallata. Raccontano che in questi giorni affannosi e cruenti, Ciriaco De Mita abbia evocato «l'antica sapienza democristiana»: «Vedete — ha detto — noi diccì occupavamo tutto ciò che era possibile occupare, ma sapevamo fin dove poter arrivare. E quando si arrivava a discutere di Quirinale ci fermavamo e cambiavamo atteggiamento». L'inventore del «metodo» che portò Francesco Cossiga sul Colle d'intesa con il Pci, ha voluto offrire una lezione sul «senso dello Stato». Era rivolta agli amici di partito, ma anche agli alleati della Quercia: «Perché il senso dello Stato ci ha impedito di essere arroganti, nonostante avessimo più del 30% dei consensi...».
Quella lezione, Rutelli l'ha portata ieri alla riunione del centrosinistra, rammentando che l'elezione di Carlo Azeglio Ciampi avvenne «nonostante il Ppi non fosse d'accordo». Come dire che le istituzioni vanno preservate da logiche proprietarie. Proprio quel che Gerardo Bianco ha sintetizzato un paio di giorni fa: «Sarà D'Alema il capo dello Stato se la sua candidatura troverà convergenze in Parlamento. Altrimenti non lo sarà». Nella Margherita cresce il disagio per la situazione, al punto che il responsabile per il Mezzogiorno Riccardo Villari invita gli alleati a meditare, per evitare errori irrimediabili: «Non possiamo mostrarci come quelli che, dopo aver tanto criticato i metodi di Silvio Berlusconi, oggi li adottano. Perché questo è il rischio: che il Paese ci equipari a loro. Invece un tentativo di trovare un accordo va fatto, e va fatto con maggiore trasparenza: non è possibile che i Ds si riuniscano, decidano chi è il candidato al Quirinale e ci impongano di appoggiarlo».