04 maggio, 2006

Referendum contro Mala Costituzione

Leopoldo Elia su Europa del 4 Mag

È in libreria una raccolta di saggi ed articoli del nostro maggior politologo, pubblicati prevalentemente sul Corriere della Sera negli anni 2003- 2005: l’autore, Giovanni Sartori, ha dato a questi scritti un titolo che pone l’accento sulla prima e più ampia parte del libro dedicata alla “Mala Costituzione” e cioè alla riforma della nostra Carta costituzionale su cui gli elettori dovranno dire l’ultima parola il 25 e 26 giugno 2006. In due diverse parti si tratta anche di «altri malanni » e cioè della «mala sinistra» e di problemi più specifici. Ma l’urgenza referendaria e la importanza preminente dei temi costituzionali discussi sulle cento pagine di apertura giustificano, in questa sede, una breve riflessione concentrata sui giudizi espressi a proposito della riforma; anzi del giudizio perché il carattere globale e dilemmatico del quesito referendario obbliga ad un evangelico sì o no.Il primo e maggior merito di Sartori consiste nella nettezza della risposta negativa perché «nei referendum non si può sottilizzare più di tanto», come scrive nell’articolo intitolato con la formula usata da Prodi: la dittatura del premier. E l’altro pregio del libro è da ravvisare nella motivazione del no a proposito della nuova forma di governo, caratterizzato dalla concentrazione abnorme di poteri attribuiti al primo ministro.

Innanzitutto esistono nel nostro ordinamento limiti anche alla revisione della Costituzione disciplinata dall’articolo 138; la corte costituzionale nella sentenza n. 1146 del 1988 ed in altre pronunzie ha infatti stabilito che la Costituzione contiene un nucleo assolutamente immodi ficabile composto dai principi supremi o fondamentali e che il rispetto di tali principi è garantito dalla giurisdizione costituzionale anche con riferimento alle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali.
Ciò vale sia per i principi espressi (forma repubblicana) quanto per quelli che, pur non esplicitamente enunciati come limiti al potere di revisione, «appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana» e che dunque «non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale» neppure con la procedura dell’articolo 138; e, si può aggiungere, il potere di revisione è pur sempre un potere costituito, che invece si pervertirebbe in costituente se modificasse i principi supremi.
Perciò l’ossimoro di Sartori “Verso una Costituzione incostituzionale?” esprime un paradosso solo apparente, in quanto, se la riforma venisse approvata dagli elettori, ci troveremmo di fronte ad una legge di revisione approvata secondo il procedimento previsto dall’articolo 138 della Costituzione e poi promulgata dal capo dello stato, ma contrastante con il contenuto essenziale di principi supremi affermati da un potere costituente che si è esaurito, in relazione a tali principi, il 27 dicembre 1947. L’ordinamento della repubblica, così stravolto, sarebbe dominato «da un dispotismo elettivo pilotato da una dittatura del premier».Il percorso che Sartori segue per arrivare a questi giudizi conclusivi si basa soprattutto su due affermazioni di incompatibilità.In primo luogo non è possibile conciliare la sostanziale insostituibilità del primo ministro con la forma di governo parlamentare (si tende invece ad occultare la questione ricorrendo alla formula ambigua del governo “neoparlamentare”).
E ciò non solo perché la flessibilità è caratteristica preminente di questa forma di governo (come sostituire altrimenti il premier Chamberlain con Churchill se è necessario fare la guerra con Hitler?): ma soprattutto perché si incide sugli “equilibri fondamentali” della forma di governo prescelta dal Costituente (sentenza n. 360/1996 sulla non reiterabilità dei decreti legge). Ma anche ad ammettere la possibilità, in sede di revisione di passare ad un’altra forma (presidenziale o direttoriale), sarebbe necessario comunque innestare gli “equilibri fondamentali” propri o equivalenti di questi altri tipi di organizzazione costituzionale; invece dei richiesti checks and balances non si trova nessuna traccia nella riforma: i riformatori distruggono gli equilibri di fondo costruiti dal Costituente del 1947 senza sostituirli con nuovi assetti che garantiscano da una esasperata concentrazione di poteri nel premier. Il quale, dunque, godrebbe della insostituibilità per una legislatura quinquennale simile a quella del presidente Usa e contemporaneamente sarebbe fornito dei poteri di sciogliere la camera dei deputati e di porre dinanzi a questo ramo del parlamento la questione di fiducia, poteri che, come è noto, quel presidente non possiede. Così si va verso una forma di governo che, non essendo più parlamentare, non diviene peraltro né presidenziale né direttoriale: cioè ad una ibridazione di modelli che è incompatibile con il mantenimento delle garanzie (limitazione del potere), che sono proprie di ogni forma di governo all’interno della forma di stato democratico.
Più in particolare è fondato su queste premesse il rifiuto di Sartori di considerare il premier inglese o il cancelliere tedesco come eletto direttamente dal popolo, perché, se così fosse, questi vertici del potere governativo sarebbero davvero sostituibili solo con un nuovo intervento del corpo elettorale. Non è del resto un caso che l’elezione diretta del primo ministro israeliano, sperimentata per una breve stagione, desse luogo a una forma di governo diversa da quella parlamentare: come ad un modello diverso si ispira l’elezione diretta dei “governatori” nelle regioni italiane a statuto ordinario (vedi anche sentenza n. 12/2006 corte costituzionale). D’altra parte, l’insostituibilità è frutto di un’altra situazione contraddittoria: premesso che, se la camera sfiducia formalmente con apposita mozione il primo ministro, essa è sciolta ope constitutionis, in altri casi la camera potrebbe sostituire il primo ministro con una sfiducia costruttiva interna alla maggioranza.
Ma qui credo di dover sottolineare da parte mia che non si sfugge a questo dilemma: o la sfiducia (costruttiva perché sostituisce un leader ad un altro nella guida del governo od anche semplicemente distruttiva come nel caso Thatcher) si verifica, all’interno di un quadro di autosufficienza dello stesso schieramento e allora deve bastare per la sfiducia una maggioranza correlata al numero degli appartenenti al gruppo parlamentare o all’organo di vertice della formazione politica interessata (in generale la metà più uno); oppure la sfiducia costruttiva deve essere messa in opera nell’aula della camera dei deputati, come è previsto nel testo della riforma, e allora il voto per la sfiducia costruttiva non può essere interno alla maggioranza autosufficiente, escludendo dal voto efficace, contro tutti i principi della vita parlamentare (articolo 67 Costituzione), i deputati appartenenti all’opposizione. Invece proprio questa ibridazione di modelli è prevista dai nostri riformatori della XIV legislatura: per sostituire il premier è necessario che la mozione sia approvata dai deputati «appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera» (articoli 88 e 94 del nuovo testo).Questa ibridazione (trasferendo dall’inglese in italiano le cifre applicabili) significa far salire da 171 voti (metà più uno dei seggi conseguiti con il premio di maggioranza) a 316 voti (metà più uno dei 630 membri della camera dei deputati) i voti necessari per l’approvazione della mozione, tutti espressi da deputati che appoggiano il governo: di qui la pratica insostituibilità del primo ministro in carica che potrà agevolmente impedire il raggiungimento dell’altissimo quorum.
Ma all’origine di questo barocco congegno c’è un errore di impostazione: non si può operare a fini anti ribaltone una malefica miscela che combina il sistema inglese della deliberazione adottata nell’autosufficienza interna al partito maggioritario in una sede privata con il sistema tedesco della sfiducia costruttiva, aperta in una sede pubblica, a tutti i deputati di maggioranza e di opposizione, considerati alla pari. O si sceglie il primo criterio, più adatto ai sistemi bipartitici, o si sceglie l’altro, più adatto ai sistemi a pluripartitismo moderato, com’è oggi nella Germania federale, in cui dal 1949 solo nell’ottobre 1982, con la disaggregazione dell’alleanza di governo tra liberali e socialdemocratici, Kohl poté sostituire Schmidt nella carica di cancelliere.
Va da sé che dalle riforme della cosiddetta Casa della libertà escono mortificati camera dei deputati e presidente della repubblica (il senato federale non si sa che cosa sia davvero). D’altra parte, potendosi eleggere il capo dello stato (dopo il quinto scrutinio) con la maggioranza assoluta dei componenti l’assemblea della repubblica (nuovo testo articolo 83 Costituzione), la composizione stessa della corte costituzionale (quattro giudici di nomina presidenziale) potrebbe risultare fortemente politicizzata. Naturalmente Sartori polemizza con efficacia anche contro la devolution, mettendone in rilievo i costi e le disparità nel godimento di diritti fondamentali (alla salute e all’istruzione) che possono determinarsi con la doppia esclusività delle competenze statali e regionali nella stessa materia. Dalla presentazione del libro nella sede laterziana di Roma e particolarmente dagli interventi del discussant professor Giovanni Bazoli è venuto anche un monito a non indebolire il nostro no alla riforma con i mache qualcuno vorrebbe aggiungere in relazione a future modifiche migliorative del testo costituzionale oggi vigente: è evidente che questi ma sulle riforme dividerebbero la schiera dei sostenitori del no e li allontanerebbero dagli impegni assunti da tutti i partiti dell’Unione di procedere a riforme puntuali (tipo emendamenti alla Costituzione statunitense) dopo aver meglio garantito la Costituzione italiana con l’elevazione a due terzi o a tre quinti dei quorum per le deliberazioni parlamentari decisive nel procedimento previsto dall’articolo 138 Costituzione (cfr. libro giallo l’Unione per il bene del paese, pagg 9-13). Si condizionerebbero così le riforme al consenso di un’ampia maggioranza nelle due camere.
Dunque un passo alla volta: prima gettiamo nel cestino come carta straccia la mala Costituzione, concentrandoci in uno sforzo preparatorio al referendum finora troppo trascurato dai partiti dell’Unione. L’attesa del 25 giugno non è lunga: usiamola tutta per motivare il nostro rifiuto e per convincere alla risposta negativa elettori provati da tornate elettorali al cardiopalma.