La rivincita mancata
Massimo Giannini su Repubblica.it del 30 Mag.
La spallata. Lo sgambetto. Il calcio nei denti. Qualunque sia la definizione lessicale, il tentativo politico di Berlusconi è fallito. Le elezioni amministrative come strumento di una jacquerie carnevalesca che avrebbe dovuto avviare il processo di definitiva delegittimazione del centrosinistra al governo. Il voto locale come primo passo di una Vandea populista che, attraverso la tappa successiva del referendum sulla devolution, avrebbe dovuto sancire l'irrilevanza del voto nazionale. Se questo era il progetto del Cavaliere, non ha funzionato. Dalle urne di 1.200 comuni, di 8 province e della Regione Sicilia non è uscito nessun ribaltone. I quasi 15 milioni di italiani che tra domenica e lunedì sono andati a votare non hanno invertito il risultato del 9-10 aprile. Al contrario.
Hanno consolidato il successo dell'Unione, che alle politiche era risultato millesimale, ma che a questo punto si rivela un po' più solido e un po' meno effimero di quanto non era apparso un mese e mezzo fa.
Il centrosinistra, a questo punto, non ha più alibi. Non gli resta che governare. Con la ragionevole prospettiva della legislatura. Può contare su un asset in più, oltre a quei 130.793 voti di maggioranza che ha ottenuto un mese e mezzo fa. Ha una base su cui costruire: circa 2,9 milioni di voti dei giovani, che secondo uno studio di Paolo Segatti appena pubblicato dall'Università di Milano hanno votato in massa per il centrosinistra. Ha un patrimonio da valorizzare: la lista unitaria dell'Ulivo, che anche in questa tornata locale ha dato un ottimo raccolto, e che a questo punto sarebbe un delitto non far fruttare nel partito democratico.
Il centrodestra conserva solo la Sicilia con Cuffaro, e si tiene a fatica Milano con la Moratti. Il centrosinistra vince nelle grandi città, prevale nei comuni minori e strappa al Polo Arezzo, Grosseto, Benevento, Crotone e la provincia di Reggio Calabria. Nel complesso, nei 23 comuni-capoluogo in cui si partiva da un rapporto di 12 a 11, i rapporti di forza si rovesciano: ben 14 all'Unione, solo 4 al Polo e 5 destinati al ballottaggio.
Non era un risultato scontato. Dopo il trionfo alle politiche del 2001, una "stangata" di ritorno toccò anche alla Cdl nelle comunali dello stesso anno, e soprattutto alle regionali del 2003. Stavolta la riscossa dell'opposizione era persino più giustificata. La partenza di Prodi è stata confusa e faticosa. La maggioranza unionista ha sprecato un mese a discutere organigrammi e a oscurare programmi. Il governo è nato tra le polemiche, culminate nella querelle geo-politica: l'assenza clamorosa di ministri del lombardo-veneto, cioè di quella metà più moderna e dinamica del Paese che non ha creduto alla scommessa prodiana ed è rimasta aggrappata al miraggio berlusconiano. Ce n'era abbastanza per temere una crisi di rigetto. E invece l'elettorato non solo non ha punito il centrosinistra, ma l'ha premiato con un ulteriore aumento dei consensi.
Sul trionfo di Walter Veltroni a Roma non c'è molto da dire. Si prevedeva un plebiscito, e di plebiscito si è trattato. Non poteva bastare la buona volontà di un ex ministro di An come Alemanno, per fermare la "gioiosa macchina del consenso" veltroniana. Sul fronte opposto, qualcosa in più c'è da dire sulla conferma di Cuffaro alle regionali siciliane. Prevedibile anche questa, ma con uno scarto molto più consistente di quello che si è registrato. Il centrodestra ha perso terreno. Rita Borsellino si è rivelata una sfidante assolutamente all'altezza. I tempi del 61 a 0 sembrano lontani. Il monocolore azzurro, oggi, è visibilmente sbiadito.
Le vere sorprese di questo voto sono altre. Riflettono una realtà locale, ma servono a descrivere una verità nazionale. La prima sorpresa riguarda il Nord, dove il monolite polista mostra crepe tangibili. A Milano l'Unione ha sfiorato il miracolo. Nella "capitale morale", da sempre considerata l'inespugnabile casamatta del potere azzurro, Letizia Moratti ha evitato il ballottaggio con Ferrante grazie a un margine esiguo. La cassaforte del Nord, evidentemente, non è poi così blindata. E questo già dovrebbe bastare, per convincere il centrodestra a una riflessione.
Ma è ancora di più su Torino, che il Polo dovrebbe riflettere. Quella di Sergio Chiamparino, per quantità e qualità, è stata molto di più che una vittoria. Oltre tutto, ottenuta a spese di un altro ministro del governo uscente come Buttiglione. È un premio alla buona amministrazione, certo. È il dividendo del progressivo risanamento Fiat e delle Olimpiadi invernali, senz'altro. Ma è anche un segnale preciso: in quel Profondo Nord, dove pulsa il cuore della ricchezza italiana e della biografia berlusconiana, il centrosinistra ha ancora ottime chance, se solo si convince a parlare il linguaggio della modernità e del riformismo.
La seconda sorpresa riguarda Napoli. La bella vittoria di Rosa Russo Iervolino vale molto di più della semplice riconferma di un sindaco. A Napoli Berlusconi era capolista. Le uniche, tonitruanti scorribande tipiche delle sue campagne elettorali il Cavaliere le ha fatte proprio nel capoluogo campano. Ben tre volte ha attraversato la città partenopea, dal Vomero a piazza del Plebiscito. Ma comizi pirotecnici e bagni di folla festante non sono bastati a far vincere Malvano. Per l'ex premier, che ha costruito la sua avventura sulla mitopoiesi del vincitore, è insieme una sconfitta politica e una disfatta personale. Anche in questo caso, per il centrodestra c'è materia per riflettere.
La Casa delle Libertà ha molti modi per interpretare questo voto. Una chiave della mancata riscossa sta senz'altro nell'astensionismo. Dal 1994 in poi, il centrodestra ha sempre scontato un forte divario tra il risultato delle politiche (più alto) e quello delle amministrative (molto più basso). Ma questa non è una "legge di natura" della politica. È invece un problema di struttura dell'alleanza. È l'esito inevitabile del fattore B. Quando Berlusconi scende in campo, e con la forza di fuoco della sua propaganda e delle sue televisioni trasforma ogni contesa elettorale in un referendum sulla sua persona, il meccanismo funziona.
Il leader carismatico, personalizzando il conflitto e caricandolo di ideologia, smuove dal torpore l'Italia di mezzo, trascina al voto una parte di quel 10% di "elettori apatici" che non votano e non si interessano di politica. È quello che è avvenuto il 9-10 aprile su scala nazionale, e spiega la formidabile rimonta del Polo. Ma alle amministrative l'ingranaggio si inceppa. Dove la politica si sposa con il territorio, il profilo del Cavaliere o è assente e dunque non traina (come è successo a Milano) o è troppo ingombrante e quindi fa ombra ai candidati locali (come è capitato a Napoli).
Se la riflessione si fermasse qui, il centrodestra potrebbe continuare a confidare nelle inesauribili doti taumaturgiche del suo capo, aspettando le prossime elezioni politiche. Ma quanto può reggere questa formula marcusiana di "alleanza a una dimensione", che il Polo ha costruito intorno alla figura del suo fantasioso "maieuta"? Alle politiche di aprile Forza Italia ha già perso 2 milioni di voti rispetto al 2001. A queste amministrative, il partito personale del Cavaliere è crollato ancora. Di schianto in città come Torino e Roma, ma comunque di misura nel resto dei comuni e delle province. La Lega è sempre più rinchiusa nella ridotta Padana, pronta a consumare le sue vendette autonomiste dopo il referendum di giugno. An tiene, l'Udc continua a guadagnare voti.
Fino a quando Fini e Casini saranno disposti a rimandare la resa dei conti? Fino a quando si rifiuteranno di chiudere il ciclo del "frontismo" populista e a dichiarare ufficialmente aperta la stagione del dopo-Berlusconi? "La destra deve uscire dalla sua inconcludenza, rifacendosi all'esempio del conservatorismo inglese, pragmatico e anti-ideologico, post-rivoluzionario più che contro-rivoluzionario, con più attenzione alla tradizione liberale e un rapporto più aperto e costruttivo con la civiltà moderna...". Sono parole di Raymond Aron, scritte vent'anni fa. Dovrebbero rileggerle e farne tesoro, i leader "moderati" dell'Italia di oggi.
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