30 aprile, 2006

Il sidacalista bipartisan

Aldo Cazzullo su Corriere.it 30 Apr

Franco Marini parla guardando sempre verso destra: sarò il presidente di tutti.
Guarda sempre verso destra, il nuovo presidente del Senato, per tutto il tempo del primo discorso. Talmente a destra che non si accorge del suo predecessore, in piedi di fronte a lui, e sta già per chiudere — «viva il Senato, viva la sua funzione, viva la Repubblica italiana» — quando dai banchi della sinistra gli passano un biglietto con su scritto «PERA»; e citarlo — «verrò a chiedere consigli» — è l'occasione per cogliere ancora un applauso dell'intero emiciclo, compresa la metà di destra che per 36 ore l'ha irriso chiamandolo Frankie, Frank e Francuccio. Alla fine però due di loro hanno votato Franco Marini, e tutti l'hanno applaudito. Segue brindisi con brut Ferrari negli uffici della Margherita, con D'Alema, Rutelli, Franceschini e Fioroni, di cui si narra abbia dormito in Senato. Prodi no, è sceso a salutare ed è già ripartito. A chi si congratula, Marini fa notare che «165 è un numero eccezionale. E' una soddisfazione personale enorme: sentivo tutta la responsabilità di dover confermare una vittoria elettorale risicata e una maggioranza molto ridotta qui al Senato. Ma ora l'importante è la ripresa del dialogo. Per consentire al governo di governare, dobbiamo fare ogni sforzo per il disgelo, per scongelare la divisione che si è creata il 9 aprile». Il primo discorso di Franco Marini, e la reazione del centrodestra, sono stati il modo migliore per chiudere la penosa vicenda delle schede cifrate, dei Mariti, dei Marino, dei Francesco.
Prima il neopresidente ha dovuto usare in via definitiva l'arma dei messaggi in codice: mentre i vicini di banco Benvenuto e Garraffa tenevano i conti complessivi, lui annotava solo le schede votate «SEN. FRANCESCO MARINI»; era la formula escogitata da Fioroni per snidare eventuali dissenzienti della Margherita («abbiamo frantumato la segretezza del voto» sorrideva il senatore apprendista ma in ascesa Polito, ieri ombra di Rutelli). Alla fine ne mancava uno. Quindi i voti arrivati dal centrodestra potrebbero essere tre. E comunque Marini esordisce riconoscendo di essere stato eletto da una parte, per quanto maggioritaria. Ma sente subito il bisogno di correggere la falsa partenza della legislatura, di cancellare la notte degli imbrogli rivolgendo all'opposizione l'invito al dialogo, al confronto, a far funzionare insieme il Senato, al disgelo. Il centrodestra applaude. Marini rende omaggio ai caduti di Nassiriya. Tutti in piedi. Poi ringrazia «coloro che hanno votato per Andreotti».
Quindi promette: «Sarò il presidente di tutto il Senato, di tutti i senatori». Altri applausi. Poi, siccome c'ha preso gusto, dopo aver salutato i colleghi eletti all'estero - Antonino Randazzo, sul cui collegio Asia-Africa-Oceania- Antartide non tramonta mai il sole, si alza e saluta a braccia spalancate e palme aperte come il Cristo - Marini si lancia in un elogio di Tremaglia, che il centrodestra considera una provocazione: scuote la testa Formigoni (molto aggressivo all'esordio, da Milano con furore), gesticolano un po' tutti, Marini quasi si risente: «La vostra ironia non è adeguata, io parlavo in buona fede». In qualsiasi altro Parlamento un voto a «Francesco» anziché a Franco sarebbe considerato valido, in virtù appunto della buona fede; al Senato dopo una notte e una mattina di discussioni si decide che il voto è nullo, dando per scontata la mala fede, purtroppo con ragione. Marini, però, ormai guarda oltre. Il «dialogo fermo e mai attenuato ». Il «senso di responsabilità». Nessuna ricerca velleitaria di «intese impossibili», rispetto del bipolarismo; come a dire né grande coalizione né mercato dei voti; piuttosto, riconoscimento reciproco, ricucitura, magari qualche sorriso. Come quello rivolto ad Andreotti: «Sono novizio, ma non in generale; soltanto qui dentro, come mi ha detto ieri Giulio».
Andreotti anche ieri è rimasto sempre seduto a mani giunte, quasi appagato di sentire il suo nome risuonare per 155 volte, quasi avesse accettato la candidatura come prima aveva accettato di comparire nello spot dei telefonini: per esserci, perché lo si possa ancora apprezzare, temere od odiare, per non morire prima del tempo. Marini ha mostrato di aver capito, ha badato a evitare la contrapposizione personale, probabilmente si spenderà per far assegnare ad Andreotti la presidenza di quella commissione Esteri che già Rutelli gli aveva offerto in cambio del ritiro. Il discorso di insediamento era già pronto, una sola correzione a mano. Sviluppo, coesione sociale. Primo maggio, 25 aprile: l'accenno alla liberazione dal fascismo, molto più rapido di quello di Bertinotti alla Camera, non è applaudito dal centrodestra con rare eccezioni, tra cui Sacconi e Guzzanti di Forza Italia e Buccico di An (ex Csm, vero erede di Contestabile a Palazzo Madama per stazza fisica; con lui prima dell'elezione Marini ha conversato a lungo). Alla fine il senatore D'Antoni, successore di Marini alla Cisl, si rallegra: «E poi dicono che noi sindacalisti non abbiamo successo in politica». Lillo Mannino, homo novus, forse esagerando prevede «Franco al Quirinale». Cossiga è d'accordo: «Ha fatto un discorso da capo dello Stato».
L'altra notte Marini era uscito da Palazzo Madama curvo di stanchezza e delusione, dopo aver mangiato un panino raffermo con il prosciutto crudo alla buvette. Ieri mattina è arrivato con la pipa, e per tutto il tempo dell'unica votazione c'ha giocherellato per allentare l'ansia. In alternativa stracciava fogli di carta, raccontava a brandelli la propria vita al vicino Garraffa — dalle battaglie sindacali a quando Paolo VI lo ricevette nel '73 dopo il golpe in Cile —, e parlottava con Mastella. «Puoi stare tranquillo, Franco — l'ha rassicurato il capo dell'Udeur —. Qualcuno si era nascosto nella nostra ombra, ma ora dovrà uscire allo scoperto». Mastella aveva appoggiato Marini fin dalla seconda votazione, però c'è la sua mano dietro alcune delle 165 schede di ieri. Alla fine della conta il neopresidente resta freddo, si spazientisce per l'esultanza di Benvenuto - «aspettate, ne manca ancora uno! Fermi, buoni, silenzio!», stringe frettolosamente la mano tesa di Bordon, schiva la mantilla rosso sangue di drago di Franca Rame tipo dama sivigliana a una corrida elegante; si scioglie solo nell'abbraccio con l'amico Clemente, prima di andare a baciare sulle guance di cera Rita Levi Montalcini, eroica. Pellegrinaggio felpato di congratulatori, baci da Zavoli e dal dalemiano La Torre che ieri notte non si trovava, bacioni dalla Gagliardi che lo apprezza non solo politicamente, molto congratulato anche Mastella. Marini leva il braccio a salutare Prodi in tribuna: dopo il discorso e il brindisi lo aspettano la moglie Luisa e il figlio Davide, molto discreti. Si complimenta anche l'ex ministro di An Matteoli con il braccio rotto. «Stanotte è stata una brutta notte, oggi è andata meglio» dice la Levi Montalcini con la saggezza dei suoi 97 anni, e non parla solo per sé.