21 aprile, 2006

Dalla seduta di autocoscienzaa una nuova iniziativa politica

Il Riformista 22 Apr
Sì, Giampaolo Pansa ha visto giusto: girano tanti musi lunghi nell’Unione, e ancora di più tra i Ds. Ne abbiamo visti parecchi anche noi, ieri, nei corridoi della direzione diessina. Pansa non s’iscrive al partito dei Musi Lunghi. Non ci si è iscritto nemmeno Massimo D’Alema nel suo intervento, anche se molti si aspettavano una maggiore verve critica. Tanto più che proprio il presidente Ds, schiacciato com’è nell’asse Prodinotti, ne ha di motivi per essere musolunghista. Una mossa tattica? L’esigenza di non spiazzare Piero Fassino? Dietro ci può essere anche questo, ma c’è un ragionamento di prospettiva, non retrospettivo. Il centro-sinistra, insiste D’Alema, ha preso 19 milioni e rotti di voti, mai così tanti nella storia dell’Italia repubblicana. Poteva prenderne di più? Forse sì, ma molti hanno sottovalutato Berlusconi e ancora di più hanno sopravvalutato l’appeal del girotondismo. Soprattutto, non si rendono conto che il paese ha sempre avuto (sottolineo sempre) una maggioranza conservatrice. L’Italia in questo non è diversa dalla Francia dove la gauche ha vinto solo perché sono stati ibernati i voti dell’estrema destra di Le Pen.

Il problema, allora è che fare con questi 19 milioni e rotti di voti. Possono essere sprecati in logoranti schermaglie tra partiti e partitini della coalizione. O gettati al vento da un governo che non governa. Dunque, questa l’incitazione dalemiana, i Ds debbono concentrare i loro sforzi nel mettere a frutto il consenso ricevuto piuttosto che piangersi addosso. Saggio invito. Tuttavia, proprio per mettere meglio a frutto quel patrimonio senza dubbio notevole, il maggior partito dell’Unione deve discutere su se stesso, il proprio insediamento sociale e territoriale, la propria connotazione. E’ questo che stenta ad emergere. Un destino da gregario non può far piacere a nessuno. Portatori d’acqua dell’Ulivo che non è ancora una entità strutturata, tanto meno un partito: non può bastare, è logico, non solo a chi fa appello al vecchio (sempre vivo) orgoglio identitario, ma nemmeno a chi vuole aprire il silos e gettare le sementa nel terreno. In altre parole, il peso diessino nel governo (in termini di uomini, idee e programmi) sarà inevitabilmente minore se prima il partito non avrà ripreso in mano l’iniziativa. Qual è la sua prospettiva? Salire dal 17 al 20% alle prossime elezioni (ammesso che basti una buona seduta di autocoscienza e un recupero di forza organizzativa)? O diventare il motore di una nuova formazione politica, chiaramente riformista? E’ una domanda retorica perché i lettori conoscono già la nostra risposta. Non si tratta di sciogliersi, azzerando la propria storia. Ma di uscire da un atteggiamento difensivo e rilanciare la sfida alla Margherita (che si è illusa di avere un miglior risultato presentandosi da sola). E’ un gioco più grande di quello partitico, perché può mettere in moto un effetto a catena sull’intero sistema. A quel punto, val la pena dirsi diessino, non per nostalgia, ma per amore di un progetto politico nuovo.